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TAURIANOVA (RC), LUNEDì 06 MAGGIO 2024

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Senza terra

Senza terra

Ecco il racconto che lo scrittore di Amantea Mario Aloe, autore de “La nave dei veleni”, ha voluto dedicare ai migranti

Senza terra

Ecco il racconto che lo scrittore di Amantea Mario Aloe, autore de “La nave dei veleni”, ha voluto dedicare ai migranti

 

 

“Che puzza!
Sarà stato abbandonato da almeno una settimana, poveraccio in questo luogo desolato, lontano dagli uomini e dagli occhi di Dio!”
Il tanfo del corpo in decomposizione impregnava ogni cosa rendendo l’aria irrespirabile e impossibile la permanenza degli uomini, come se anche da morto volesse segnare la propria esclusione. Un segno di separazione e di esclusione che le narici percepivano e non potevano evitare.
“Dotto’ che facciamo ancora qui? Non possiamo aiutarlo e non c’è traccia di nulla in giro, nemmeno una cicca di sigaretta da raccogliere e imbustare.
Non so proprio cosa porteremo in questura?”
Il caldo della giornata d’agosto rendeva il paesaggio afflitto, come se percepisse solo esso il dolore che l’uomo s’era lasciato dietro. La morte aveva reso inquietanti con il proprio odore l’erba e gli arbusti bruciati dal sole, mentre intorno il silenzio era rotto dal lontano latrato di un cane,cui rispondeva più distante un suo simile.
“Che cazzo faceva ‘st’africano quassù?- Il commissario non riusciva a rendersi conto di quanto i suoi occhi vedevano.
Tutto appariva pretestuoso, insopportabilmente artefatto per essere vero.
Si stava facendo violenza alla sua intelligenza.
Interrompendo i pensieri ordinò con decisione: ” Pasqua’, non ce ne andiamo se prima non abbiamo controllato tutto. Dovete cercare, frugare in ogni “frasca”, dovete setacciare ogni sentiero qui intorno.
Mi hai capito?
Disponi gli uomini a cerchio partendo dal morto e poi falli allontanare e attenzione! Dovete raccogliere tutto, ogni oggetto strano e fotografate le tracce .” Rivolto agli altri agenti -Mi raccomando metteteci impegno! Mi aspetto un buon lavoro e non vi lasciate trasportare dal sentimento che il morto è un negro e non ne vale la pena.”
Erano stati chiamati per telefono, una voce maschile dall’inconfondibile accento calabrese, uno del luogo, come loro: non aveva dubbi al proposito. Li aveva avvisati della presenza del morto in campagna, in collina di fronte al mare. Poche parole con l’indicazione della località e poi la telefonata era stata interrotta. Come al solito, questo era il massimo del senso civico che ci si poteva aspettare: una telefonata anonima.
Adesso erano circondati dal silenzio, rotto dal rumore del treno che usciva dalla galleria nella pianura costiera e dallo smarmittare di un motorino, giù, nel greto della fiumara, che l’estate aveva resa secca. Si era affacciato dal costone della collina per guardare in basso, vedeva il treno sfrecciare verso sud, uno dei treni veloci che andavano a Reggio.
Un giovane uomo avevano trovato, un giovane negro, freddato con un colpo di pistola alla testa.
Cosa era avvenuto e perché?
La domanda se la ripeteva con ossessione, senza darsi una risposta. Non la voleva, voleva che la domanda rimanesse nella sua testa, conficcata come un chiodo.
Il fastidio lo avrebbe costretto a cercare la risposta, non una qualsiasi, ma la risposta che gli consentisse di schiodarsi da dosso il dubbio e di liberare il cervello e la coscienza.
Un randagio era quello che avevano di fronte a loro, uno di quei miseri esseri in fuga dalla terra natia, scacciato dal suo villaggio di capanne da qualche guerra etnica, oppure allettato dalle sirene della ricchezza europea. Il suo cammino era terminato qui, giunto alla fine delle strade della vita in un luogo sperduto e senza significato.
Vittorio Sgro alzò gli occhi: verso sud la piana e un aereo che lentamente scendeva in direzione dell’aeroporto e ancora più in la le Serre e l’Aspromonte. Voleva respirare a pieni polmoni, inalare lo iodio che saliva dal mare, ma lo tratteneva la puzza della morte.
Un lampo gli attraversò la mente: forse era uno di quei disperati stivati in quella comunità di accoglienza messa su all’improvviso con i soldi dell’emergenza? Era elementare come soluzione, ma poteva anche essere. Non doveva scordarsi di mostrare la foto dell’ucciso agli operatori e ai migranti, era la prima cosa da fare quando sarebbero ridiscesi in paese. Se era uno dei loro lo avrebbero identificato dandogli un nome. Un nome indicava un individuo, come se gli desse significato e lo riportasse all’esistenza, lo ricollocasse tra gli uomini
L’idea invece di confortarlo gli creò nuovo disagio.
Tutto ciò non avrebbe vinto l’ingiustizia di un corpo abbandonato, non avrebbe permesso la realizzazione dei sogni di questo giovane uomo, approdato sulle spiagge del sud trasportatovi da mercanti di carne umana.
Si decise, era un atto di giustizia: respirò.
Le cose non sarebbero ritornate a posto, ma respirò a lungo e profondamente. Dopo, liberato dall’oppressione dell’iniquità che aleggiava nell’aria, si avvicinò, di nuovo, al cadavere per controllare il foro del proiettile. Gli avevano sparato da vicino, poteva vedere ancora i segni della bruciatura sulla pelle.
Un’esecuzione!
Il morto non doveva essere estraneo ai luoghi.
“Dotto’, dotto’…” Si sentì chiamare. La voce era quella dell’agente Mimmo Fiorillo, la riconobbe subito e si affrettò a raggiungerlo.
“Mimmùu trovato qualcosa?
Spero proprio di sì, non mi avrai fatto fare questa scappata per una minchiata. – Il Commissario aveva la camicia chiazzata di sudore. – Fammi vedere cosa hai trovato.”
“Dotto’ piano, fate piano e attenzione a non sopravanzarmi: da questo punto iniziano le tracce dei pneumatici. Delle gomme grosse, di un fuoristrada. Sono certo di quello che dico, le ho seguite e vanno verso la strada: l’interpoderale che abbiamo fatto per salire quassù.”
Il poliziotto avanzava lentamente indicando il sentiero al suo capo.

Un lampo accompagnato da un leggero fremito delle pupille attraversava gli occhi della donna, impercettibile, in un istante era tutto svanito. Forse non significava niente. La vicinanza della legge creava sempre un subbuglio nel cuore di queste donne orientali. Una bella donna dalla bocca discreta e dai tratti invitanti.
Come aveva detto di chiamarsi? Veruska?
Paura? Lo sguardo si era ricomposto subito, la donna era padrona di se stessa.
Il commissario annotava le emozioni, avrebbe dato, in seguito, una spiegazione a quello che percepiva, le avrebbe collegate in un ragionamento.
Negavano e nessuno dei suoi era in grado di parlare con i neri, nemmeno lui, con il suo scarso inglese, era riuscito a mettere su delle richieste apprezzabili e condurre in porto gli interrogatori. Loro sì che avevano paura, il panico di essere rimandati indietro e volgevano lo sguardo su quell’altro, quel negro dal viso impassibile e dal corpo statuario; un ciclope. Era il loro capo! Forse in Africa comandava una banda. La sua voce sicura aveva impartito l’ordine di massacri? Guidato qualche gruppo di rivoluzionari?
Lo aveva fatto allontanare, ma la sua assenza non aveva liberato i migranti dalla paura.
Stava sbagliando, nulla di concreto avvalorava le sue percezioni, niente di niente. Anzi tanti dinieghi di fronte alla foto del morto, anche dei “no” in un italiano primordiale e tenero.
La russa aveva chiesto per lui in inglese e arabo, aveva tradotto le sue domande e ritradotte le risposte. Solo una ragazza aveva reagito, si era rivolta direttamente a lui in un francese stentato: “Emmène-moi, sont des tueurs. Il était mon homme, m’emmener. je vous en supplie…”
L’avevano zittita, la sua voce era stata sommersa dalle urla.
“Dice che il suo uomo non è qui, chiede di poterlo raggiungere, vi supplica di aiutarla.- Veruska aveva tradotto. – Commissario sono al limite della disperazione, non sanno che fine hanno fatto le loro famiglie. Qua dentro è un inferno e non è semplice e voi con la vostra presenza aumentate l’agitazione. Non è un rimprovero, non mi permetterei mai.”
Una tigre, era una tigre quella che si trovava innanzi, ecco cos’era. Le movenze del felino, l’avvicinamento discreto, la lentezza dei movimenti e poi rapidissima sulla preda.
La giovane negra piangeva, lacrime di disperazione, non poteva lasciarla la, una vocina da dentro gli sussurrava che doveva portarla via, allontanarla. In questura avrebbe utilizzato un interprete di fiducia e poi tentare non costava niente. Era come lanciare una lenza nella speranza che l’unico pesce del mare abboccasse.
” Potrei venire con voi – lo aveva sfiorato con i fianchi, appena sfiorato. C’era in quel tocco tutto un discorso, promesse, ma anche brividi di ignoto. La donna si offriva come un territorio selvaggio, pronto per essere esplorato.- Portatela via, anche lei, poverina, accentua lo stato di disagio e la mia presenza può rassicurarla.- Di nuovo il contatto con il braccio della femmina aveva accentuato l’offerta. Il commissario la guardava, cercava nei suoi occhi la conferma alle avances. Non vi trovò niente se non dei laghi di acque profonde, acque fredde, emozioni ghiacciate, circondate da alberi generati da una volontà di ferro.
Non poteva seguire i suggerimenti della donna, non potava darle il vantaggio di condurre il gioco o era questo che lei voleva che pensasse. Lo metteva in difficoltà, eppure doveva decidere velocemente e correre il rischio di sbagliare.
Qualcosa non andava là dentro, era sicuro, ma non era certo che questo qualcosa fosse legato al morto o lo era?
“Non c’è bisogno di portare via nessuno e noi non siamo i servizi sociali, ma la polizia di stato. Per condurre il centro ci siete già voi e i problemi dovete risolverveli da soli.- Poi a bassa voce e rivolto alla donna:- Signora avrei desiderio di conoscervi meglio. Parlare con voi. Una cena? Ti posso invitare? Una serata insieme approfondirebbe la mia conoscenza di un mondo femminile nuovo.”
Lei lo osservava come fa la gatta quando il topo è ormai tra le sue zampe. Una gatta con le orecchie diritte e gli occhi dilatati. Si aspettava di farne un sol boccone. Il commissario si offriva indifeso a questa caccia dando l’impressione di nascondersi e di essere altrettanto furbo, capace di evitare la cattura e di catturare lui, topolino, l’altra, un felino. Lo guardava adesso quasi divertita e nel contempo lasciava trasparire il suo interesse di femmina di fronte al maschio.
“Commissario mi vuoi portare a cena o a letto? – Gli sussurrò nell’orecchio.
L’uomo di rimando: ” A cena e anche a letto bella Veruska se a te interessa. Passo stasera a prenderti.”
Era un gioco pericoloso quello in cui si stava imbarcando e se aveva ragione la giovane negra, che stava lasciando lì, correva un pericolo grave e imminente. Se era esatto quello che aveva capito loro non potevano permettersi di lasciarla in vita, ma ucciderla lì era anche per loro un rischio. Avrebbero tentato di portarla via e farla scomparire. Bastava lasciare una pattuglia fuori dal centro per impedire gesti affrettati. Una pattuglia all’ingresso e un’altra a breve distanza era quello che ci voleva per tenerli in apprensione e impedire decisioni e gesti frettolosi. Se era giusto quello che pensava la banda poteva aspettare e fare scomparire la donna con tutta tranquillità.
“Mimmooo ce ne andiamo. Di agli uomini che rientriamo in questura. Voglio una macchina fuori dal cancello e un’altra che sosti nelle vicinanze. Noi rientriamo.
Alla donna: “Stasera alle otto sono qua, mi deluderai? Sarà sicuramente una serata memorabile.”
Veruska lo avvolgeva con lo sguardo, nei suoi occhi vi erano invitanti scene di sesso.

Tutto era pronto, studiato nei dettagli e nulla era stato lasciato al caso. Un gruppo di uomini della DIA, provenienti da Reggio, si era unito alla squadra per garantire la discrezione. Sarebbero stati loro a seguire le mosse della banda.
Il commissario alle 20.00 in punto fermò l’auto all’entrata della comunità e, dopo essere sceso, mandò via le pattuglie che stazionavano nei pressi della struttura.
La donna lo aspettava all’ingresso. Poco era cambiato nel suo aspetto e un vestitino da sera ne accentuava la femminilità. “Sono interessata alla ricerca, eccomi qua per un incontro tra culture. Sarà interessante conoscere un poliziotto italiano.- Rise mostrando dei denti ancora perfetti. – Commissario dove mi porterai? Una sorpresa, un ristorante diverso da quelli di qua. Passeggeremo?.” Mentre entrava in macchina sembrava che desse il segnale di avvio di qualcosa di diverso da una serata romantica.
“Se va bene a te ho scelto un ristorante in collina, a mezz’ora di macchina, un posto accogliente dove si mangia bene. Non piatti della cucina di mare, ma cibi campagnoli.”
La donna si era sistemata sul sedile allacciandosi la cintura di sicurezza e gli aveva sfiorato la mano con una carezza. “La serata si presenta bene e poi mi accompagnerai indietro subito oppure potremo stare assieme ad approfondire la conoscenza dei nostri mondi? Se farai il buono t’insegnerò anche un po’ di russo. Да, я быть хорошо для вас, принять вас, где вы никогда не были Витторио*.”
“Cosa dici bella Veruska, conosco solo qualche cosa di inglese e un po’ di francese,ricordo degli anni di scuola. Siamo proprio degli ignoranti, la mia generazione pensava che il mondo finisse a Milano. Sei una donna libera! Non equivocare, da noi si potrebbe pensare una puttana. No, non lo sei, sei solo disinibita. Anch’io ti parlerò la lingua della mia terra. Signu n’uomminu e cumu talu ti pigliu. L’agriturismo ha anche le camere e ho prenotato una stanza. Se non sei pronta basta dire no.
Si allontanarono.
Se avessero portato via la giovane negra i suoi uomini li avrebbero seguiti, mentre gli altri rimasti avrebbero fatto irruzione nel centro di accoglienza per rivoltarlo alla ricerca di armi, droga e bloccare i migranti al suo interno raccogliendo informazioni sul ciclope scuro e la sua banda. Appena l’operazione raggiungeva i primi risultati e le confessioni dei neri venivano rese lo avrebbero avvertito.
Pensavamo di averlo portato nella tagliola e lui si era fatto condurre docilmente. Avevano messo sulla tagliola al posto del formaggio Veruska e lui stava seguendo l’odore della femmina. Se non era vero quello che aveva subodorato ci avrebbe rimesso la faccia. Era abituato a correre i rischi del mestiere. La trappola che lui aveva ordito avrebbe consentito di prenderli tutti.
Cosa c’era di così importante da spingerli a uccidere ed essere pronti a rifarlo?
Armi?
Droga?
E Veruska come si legava agli africani? Quale era la colla che li teneva insieme?
La donna non era una gregaria, ma una pedina importante del gioco.
La regina?
No, non l’avrebbero mandata a dirigere la partita in un paese della Calabria.
Aspettava paziente la telefonata mentre Veruska lo accarezzava con la voce, gli faceva intravvedere una notte di giochi erotici.
Un vibrazione prolungata proveniente dalla tasca del pantalone, il cellulare annunciava che la sua intuizione era esatta: li avevano smascherati e fermati.
* Sì, sarò brava con te, ti condurrò dove non sei mai stato Vittorio.
Si pose subito il problema di come condurre con se la donna senza destare sospetti, ma era meglio farla aspettare in quel locale. Doveva rassicurarla per non indurla a scappare.
Prese il telefonino e lesse il messaggio. “Devo andare. C’è stata una sparatoria a Temes e devo essere lì prima dell’arrivo del giudice. Puoi aspettarmi qua o se desideri ti riporto indietro al centro. Decidi tu. Ne avrò per un paio di ore e poi ti raggiungo, non possiamo interrompere questa seduta di istruzione.”
La donna appariva perplessa, non voleva che il poliziotto andasse via, ma non sapeva come trattenerlo. Temes era a venti chilometri dal centro e Mustafà e i suoi amici non avrebbero mai portato la donna così lontano. Poteva farlo andare, Vittorio sarebbe ritornato e lei ne avrebbe fatto un boccone, un altro maschio da aggiungere ai suoi trofei.
“Puoi andare, ti aspetto in camer,a ma promettimi di ritornare.” Lo accompagnò fino alla macchina e prima di farlo entrare la sua bocca cercò quella dell’uomo: un bacio a rovistargli l’animo.
Li avevano presi, una banda di mercanti di uomini. In Italia loro erano addetti all’accoglienza di quanti dalle coste della Sirte, in Libia, arrivavano prima a Lampedusa e poi nei centri di accoglienza della Calabria.
I nuovi arrivati diventavano subito merce per il mercato della prostituzione o manodopera per l’agricoltura e il turismo. I pochi euro guadagnati finivano nelle mani della banda quale prezzo da pagare per il viaggio in Italia. Poi dai porti calabresi i russi inviavano i loro carichi di armi in Libia: ecco la colla e Veruska. Il giovane nero, trovato in campagna, voleva andare via, non lasciare ad altri il frutto del suo lavoro. Voleva la libertà, per questo aveva attraversato il deserto insieme alla sua donna, aveva consegnato tutte le sue ricchezze ai libici e adesso si trovava, invece, schiavo in Europa, come lo erano stati i suoi antenati, imbarcati sulle navi dei negrieri, nelle Americhe.
Non potevano permetterlo, lo avervano ucciso e la stessa cosa avrebbero fatto alla sua donna.
Vittorio Sgro pensava a Veruska, la gatta aspettava tranquillamente nella tagliola. Si trattava di andarla a prendere. Una gatta catturata dal topo.
Decise: non sarebbe andato lui a prenderla.

Non so fare altro per ricordare i morti di Lampedusa. Non solo vergogna ma consapevolezza che una parte del mio benessere è un frutto maledetto.
Mario Aloe