Quasi come Gaber. “Il Letto di Sabina” di Avv. Domenico Monteleone
Quando sei lì, in piazza.
Quando sei lì, in piazza, nel ritrovo, devi accettare il confronto con tutti, su tutto.
Lì, in piazza, nel ritrovo, con gli amici, si discute di tutto e nei piccoli centri è come se tutto succedesse altrove e, così, la gente si trova a disquisire per sentito dire, per averlo visto, magari, in TV.
È un meccanismo praticamente millenario, perché le cose succedono sempre altrove e non ti riguardano, se non di striscio.
Ultimamente, però, le cose sono cambiate e tutto avviene – ci avete fatto caso? – anche nei piccoli centri e, così, è normale che discutere di cose che succedono sotto casa tua è molto diverso che parlare di cose che accadono in chissà quale altro posto del pianeta terra.
Un tempo, ad esempio, non sapevamo nulla di SLA, nessuno ne aveva mai nemmeno sentito parlare e, dunque, nessuno ne parlava.
Praticamente, a Taurianova non esistevano alcune malattie e la SLA era la prima fra tutte a, praticamente, non esistere.
Sindrome Laterale Amiotrofica.
Se non la consoci già, non si capisce bene cosa sia esattamente ma già a leggere queste tre lettere ti viene un brivido dietro la schiena.
La si sentiva solo in TV.
Poi c’è stato Stefano Borgonovo – il noto calciatore di Serie A – lui era malato di SLA e si è battuto, sino alla fine dei suoi giorni, per combatterla, in tutti i modi possibili, anche attraverso la conoscenza e la divulgazione.
Si è battuto sino alla fine dei suoi giorni perché ci è morto di SLA.
E si, perché di SLA si muore ma si vive anche molto male.
Vive molto male chi la malattia l’ha contratta e vive malissimo anche chi ci vive con chi il morbo l’ha contratto.
Contratto?
Che terminologia strana che usano i medici moderni!
Mica fai un contratto, mica ti accordi per avere la malattia, mica ci metti la firma.
Contratto?!
Caos mai assalito, divorato, annientato, assaltato ma contratto, come si fa a dire contratto?
Boh! Stranezze della medicina moderna.
Hanno inventato tante malattie ma non deve essere bastato perché hanno sentito il bisogno di inventare nuovi significati, anche in riferimento a vecchie parole come, appunto, contratto.
Terminologia a prescindere, chi si becca questa malattia non è molto fortunato perché è una malattia che ti assale – poco alla volta – e ti distrugge.
Non cammini più come prima, non ti muovi più come prima, non mangi più come prima, non parli più come prima.
Questo inizialmente.
Poi, con il progredire della malattia, non cammini più, non mangi più, non parli più. Punto e basta.
Mai più.
Rimani in un letto.
Il cervello capisce che ci sei, dove sei, come sei.
Il corpo, però, non risponde più.
Dipendi in tutto e per tutto dagli altri.
Rimani in un letto.
Dipendi in tutto e per tutto dagli altri.
Bisogna essere fortunati anche e soprattutto in questa sfortuna ciclopica.
Eh si, perché devi avere la fortuna di avere familiari o persone vicine che si interessano a te e che si curano di te.
Di te che comprendi perfettamente il tuo stato ma non hai la minima capacità, né la minima possibilità di incidere sulla tua vita.
La tua vita è degli altri.
I familiari.
I familiari ce la mettono tutta, almeno all’inizio, almeno all’inizio – intendo – sembra che ci sia la forza per fare tutto, la forza per affrontare questa “esperienza”.
Poi è normale.
È normale che le forze comincino a mancare.
Non è che manca l’amore, l’amore c’è sempre – molto probabilmente – mancano le forze, mancano le risorse, mancano i denari, manca il tempo.
L’inizio è anche una serie di rinunce: non c’è tempo praticamente per null’altro e i soldi servono, ovviamente, per fare fronte a queste nuove inaspettate esigenze, quelle della malattia.
Fateci caso, ma di questi casi sappiamo solo quando i familiari se ne interessano ed hanno amore per il malato.
Negli altri casi, nei casi in cui ai familiari non importa nulla, non se ne sa niente perché questi malati vengono abbandonati in strutture che – sinceramente! – andrebbero chiuse con decreto dalla sera alla mattina.
Conosciamo questi casi, insomma, solo quando c’è l’amore dei familiari, quando c’è tanto amore dei familiari, perché sono loro che si battono, sono loro che si sbattono, sono loro – sempre i familiari – che “pretendono” attenzione, rispetto, cura, aiuto.
Pretendono aiuto, pensa un po’!
Aiuto.
Pretendono aiuto.
Pensa un po’!
Ecco, a chi va chiesto aiuto in un’epoca così?
A chi va chiesto aiuto in un’epoca in cui i malati sono diventati dei pesi insopportabili innanzitutto per lo stato e la sua previdenza?
A chi va chiesto aiuto in questo tempo infame?
Le ASL, le Aziende Sanitarie Locali fanno quello che possono e assegnano ore di sostegno specializzato, ma le ore sono tantissime e il sostegno non basta mai.
Si fa presto a dire: “ma che vuole?! Che ci pensi lui, che ci pensi il marito, che ci pensi il figlio?!”.
Si fa presto a sputare sentenze, perché è anche scaricare la propria coscienza.
Ci riempiamo tutti la bocca a dire che siamo esseri sociali, che viviamo in comunità, che dobbiamo operare a guisa di corpo organico.
Si, si fa presto ma – alla prima occasione – si conclude che non è affar proprio oppure si conclude che non si può fare niente, e chi s’è visto, s’è visto.
I familiari, ci devono pensare i familiari o ci pensi il comune, tutt’al più.
Già: il comune!
Ci deve pensare anche il Comune.
Anche il Comune deve fare la sua parte
A Taurianova c’è un caso di SLA e c’è tutto quello che si è descritto sin qui.
Lei, la malata, si chiama Sabina.
Sabina sta su un letto.
Il letto di Sabina.
Dolori, sconforto, gioie, sofferenze, malesseri, sorrisi: chissà cosa prova Sabina?
Chissà cosa provano i suoi familiari?
Chissà cosa prova Sergio, il marito?
Sergio – anche lui – si trova in una situazione drammatica: deve lavorare e deve, anzi, vuole prendersi cura della sua metà, vuole, vorrebbe prendersi ancor più cura del suo amore.
Sergio, però, deve lavorare, deve lavorare perchè deve sbarcare il lunario ed ha chiesto all’ASL di aiutarlo.
L’ASL gli ha dato 30 ore di supporto specialistico.
Trenta ore in una settimana sono poco più di un sesto delle ore totali.
Sergio avrebbe bisogno di più ore di assistenza.
Non chiede soldi, chiede più assistenza.
Avrebbe bisogno di più ore e pensa di chiedere aiuto al Comune.
Scrive al sindaco.
Scrive al sindaco Rocco Biasi.
Si, gli scrive perché ha saputo che il Comune dovrebbe aiutarlo ed ha saputo anche che – nel caso in cui il Comune non possa provvedere – vi è una Legge regionale che consentirebbe a Sergio di rivolgersi all’ASL di competenza per un aumento delle ore.
Insomma, inutile spiegare bene il meccanismo di legge, ciò che conta è che la via per rivolgersi nuovamente all’ASL si apre nuovamente se il Sindaco ed il Comune rispondono che non hanno i mezzi e/o non possono aiutare Sabina e Sergio.
Ecco: basterebbe che il Sindaco – peraltro è un avvocato perbacco! – rispondesse “picche” per aprire quella strada che porta all’ASL.
Il sindaco non risponde.
Sergio ha trasmesso non si sa quante domande, quante lettere, quante perorazioni.
Il sindaco non risponde.
Il sindaco non risponde.
Si, è facile dire che Sergio sta scassando la minchia e che fa troppo bordello e che è troppo invadente.
Si fa presto.
Si fa presto e forse Sergio sta veramente aumentando il livello della sua perseveranza.
Ma i politici non vogliono perseveranza da parte dei cittadini.
I politici non vogliono rotture di scatole.
Bisognerebbe essere più empatici, forse bisognerebbe essere meno anaffettivi, forse bisognerebbe essere più umani, bisognerebbe sentire gli altri dentro di se.
Bisognerebbe sentire il dolore degli altri e calarcisi, almeno per un momento.
Forse.
Di che pasta, però, bisogna essere per non rispondere completamente a nessuna delle perorazioni di Sergio?
Di che natura bisogna essere per non sentire nemmeno il bisogno di aprire un canale di dialogo, di risposta, di contrapposizione, magari?
Di che genere bisogna essere per non rispondere, per non degnare di nessun riscontro gente che si trova in condizioni così dolorose?
Forse basterebbe fare leva sui giovani, sui volenterosi, su quelli che fanno volontariato, basterebbe, forse, sollecitarli a fare un po’ di volontariato sul letto di Sabina.
Ci vorrebbe un po’ di volontà, ovviamente.
Forse, bisognerebbe fare politica, semplicemente.
Si, perché, fare politica … non è sentirsi più importanti degli altri.
Fare politica … non è avere uno sputo di potere e usarlo contro gli altri.
Fare politica … non è dire “so tutto io”.
Fare politica … non è portare un paio di occhiali neri per nascondere il nulla.
Fare politica … non è farsi gli affari propri.
Fare politica … non è far politica per non saper fare altro.
Fare politica … non è l’arte di ottenere potere e privilegio senza averne il merito;
Fare politica … non è andare ai funerali e sforzarsi di sembrare addolorati;
Fare politica … non è dire fittiziamente che “il popolo è dalla nostra parte”;
Fare politica … non è la libertà di dire bugie … purché si è sinceri;
Fare politica … non è tenere comizi;
Fare politica … non è presentarsi come la soluzione … quando invece si è il problema;
Fare politica … non è non sapere nulla … ma pensare di sapere tutto;
Fare politica … non è candidarsi alle elezioni;
Fare politica … forse … è … non aspettare il futuro … così … passivamente … è invece, con ogni probabilità, formulare un’ipotesi, predisporre un progetto, avere un sogno o, magari, un’intenzione di volo … in questo senso … in quanto singoli ed in quanto comunità … anzi, in quanto singoli calati nella comunità di appartenenza … fare politica è lo sforzo di tendere ad una realtà futura somigliante – il più possibile – a quell’ipotesi, a quel progetto, a quel sogno, a quell’intenzione di volo … fare politica è questa felicità … che sarà tanto più intensa quanto più ridotto sarà lo scarto tra la realtà che avremo costruito nel futuro ed il sogno che abbiamo concepito nel presente … fare politica è conservare, suggellare, sublimare quella ipotetica felicità … che sarà possibile solo attraverso nuove ipotesi, nuovi progetti, nuovi sogni, nuove intenzioni di volo … base necessaria di nuove realtà di un futuro successivo … e così via … questo è fare politica … mentre il fallimento della politica è il voto di chi sa esattamente chi è il candidato migliore, più onesto, più giusto … eppure sceglie e vota l’altro … vota l’altro per convenienza, per opportunismo, per partito preso, per vicinanza, per parentela, lo vota per paura, magari per stupidaggine … ecco … sta tutto lì il fallimento della politica … il fallimento della democrazia … votare per convenienza, per opportunismo, per partito preso, per paura, magari per stupidaggine … è lì che nasce tutto il casino che c’è …
Fare politica è sentire Sergio e Sabina come parte di noi stessi, è avvertire Sergio e Sabina come un tutt’uno con noialtri, fare politica è credere di poter essere vivi e felici solo se lo sono anche gli altri.
Questo è fare politica, il resto è semplicemente fare il sindaco o, meglio, è fare il sindaco muto che non risponde nemmeno davanti ai dolori degli altri e, sinceramente, di sindaci così a Taurianova se ne può fare benissimo a meno.
Einstein diceva che due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana. Ce ne aggiungerei, a questo punto, un’altra: la distanza tra la scrivania del sindaco ed il letto di Sabina, una distanza infinita, una distanza veramente infinita.
Domenico Monteleone