Image Image Image Image Image Image Image Image Image Image

TAURIANOVA (RC), SABATO 04 MAGGIO 2024

Torna su

Torna su

 
 

Ieri l’anniversario dell’Appello ai liberi e forti

Ieri l’anniversario dell’Appello ai liberi e forti

Gianni Fontana: “L’affascinante attualità del messaggio di Don Sturzo”. Ecco l’intervento del segretario della Democrazia cristiana 

Ieri l’anniversario dell’Appello ai liberi e forti

Gianni Fontana: “L’affascinante attualità del messaggio di Don Sturzo”. Ecco l’intervento del segretario della Democrazia cristiana 



L’on. Gianni Fontana, segretario nazionale della Democrazia Cristiana, nella ricorrenza dell’ann.rio dell’Appello ai Liberi e Forti (18 Gennaio 1919) di don Luigi Sturzo, dopo aver deposto una corona di fiori alla lapide posta all’Hotel Santa Chiara dove fu redatto l’Appello, nella data di nascita del PPI, ha scritto un ricordo, che pubblichiamo di seguito. 

Oggi ricordiamo un passaggio della storia italiana che ci appartiene interamente e da cui, a dispetto di ogni ironica accusa di voler costituire un gruppo di reduci, non intendiamo farci distogliere.

Celebriamo, infatti, l’Appello ai Liberi e Forti del 18 Gennaio 1919, lanciato da don Luigi Sturzo con un manipolo di amici, dall’Albergo Santa Chiara di Roma per segnare la nascita del Partito Popolare Italiano.

Un soggetto politico destinato a costituire una delle più importanti novità nello scenario parlamentare italiano dopo la presa di Porta Pia, e non esclusivamente per il solo movimento cattolico italiano.

Ricordiamo oggi l’Appello, non solo per pagare un doveroso tributo alla nostra Storia, ma anche perché esso presenta elementi davvero sconcertanti per la loro ” attualità” ed offre affascinanti suggestioni assieme a strumenti logici e razionali utili a farci interpretare una considerevole parte dei “segni” dei nostri tempi.

La lettura di quel testo finisce per sconvolgere tanto profonda è la lungimiranza politica e prospettica del suo contenuto.

Impressionante appare l’attualità di talune riflessioni che s’impongono con forza, ancora oggi, per richiamare ad un coinvolgimento simile a quello che 94 anni or sono suscitò la passione di schiere di giovani e vecchi cattolici democratici, risollevò gli animi di gran parte del mondo cattolico più moderno e più avanzato, portò speranza tra le masse contadine e spinse all’impegno tra le fila della migliore borghesia democratica delle città italiane.

A causa degli sviluppi della storia d’Italia in cui ci troviamo collocati, questa attualità emerge evidentemente sin dal primo tema da cui l’Appello prende le mosse: il dovere a cooperare per il raggiungimento dei fini supremi della nostra comunità di popolo, tra cui spicca la “completezza degli ideali di giustizia e di libertà”.

E in ciò sentiamo anche una freschezza di pensiero, altrettanto vivo e vivido, per quanto riguarda il metodo dell’analisi e dell’articolazione di proposte da presentare alla pubblica opinione, trasformando nella concretezza degli impegni politici l’insieme della idealità e dei sentimenti che animano il pensiero dei democratici cristiani.

Ho detto idealità e sentimenti perché, come insegna Sturzo e, poi, lo seguiranno su questa strada De Gasperi e Moro, il patrimonio dei democratici cristiani, ancorato all’uomo reale, qual esso realmente é, alla persona vivente in una comunità viva, anzi, in un insieme di comunità naturali dinamiche ed operose, non può essere assimilato a costruzioni ideologiche ed all’esaltazione esclusiva di principi astratti o di schemi concettuali precostituiti.

Il nostro riferimento va a quella concretezza che consentì alla seconda Democrazia Cristiana di trasformare profondamente l’Italia del secondo dopoguerra nonostante le accuse che le venivano rivolte sul proprio interclassismo e sulla determinazione a fornire una risposta esclusivamente pratica ai problemi del Paese, fatti salvi i grandi principi costituzionali che stanno alla base della nostra Repubblica e a quei valori etici vissuti profondamente ed in maniera condivisa dalle genti italiane.

L’adesione aprioristica a visioni ideologiche ha riguardato, semmai, quelle correnti politiche e di pensiero collegate al liberalismo, al socialismo ed al comunismo e, infine, al nazionalismo, fosse esso fascista o di stampo paternalistico e populista.

Con la caduta del muro di Berlino l’umanità ha finalmente celebrato la fine di quelle ideologie in cui il mondo era stato costretto, lungo l’intero corso del ‘900, in una morsa di odi contrapposti, di violenze, di reciproci, radicali disconoscimenti capaci solo di provocare lutti, nuovi odi ed orrori d’inaudita violenza su cui spiccano, drammatico monito e patrimonio di sofferenza propria di tutti gli uomini e di tutte le donne, la Shoah con il sistematico sterminio dei nostri cugini ebrei, cui si è aggiunto quello degli zingari, delle genti slave, dei malati di mente, degli omosessuali, degli oppositori politici e di molti uomini di fede e di religione.

Vorrei che, a questo proposito, in occasione del centesimo anniversario della sua nascita, pagassimo un tributo ad uno dei tanti preti cattolici che hanno sofferto inaudite violenze a causa del loro impegno antifascista ed antinazista.

Mi riferisco a don Roberto Angeli, autore del magnifico libro “Vangelo nei Lager” che a Livorno, assieme al presidente Ciampi, cui vanno il nostro saluto ed il nostro ringraziamento, e al nostro comune amico, il compianto Gianfranco Merli, operò per portare oltre le linee nemiche ebrei, paracadutisti ed aviatori britannici o statunitensi, perseguitati politici e chiunque altro avesse bisogno di conforto ed aiuto nel buio piombato ancora più violentemente sul Paese all’indomani dell’8 Settembre del 1943.

Le ideologie, anche quelle che si riferiscono alla Libertà, quando ad essa viene dato un connotato eccessivamente egoistico al punto che, alla fine, può raggiungere persino elementi di asocialità, troppo spesso hanno fatto da copertura alla sopraffazione dentro le Nazioni, tra le Nazioni e tra i popoli.

Anche lo ” statalismo” non nazista e non comunista ha costruito una forma ideologica d’imbrigliamento della società reale ed articolata che, per sua intima essenza, asseconda e sostiene la presenza di interessi ed aspirazioni naturalmente tendenti al bene comune.

Un bene comune che, però, anche a causa dell’instaurarsi di certe forme istituzionali proprie del cosiddetto Stato moderno, in troppi casi ha finito fatalmente per trasformarsi in “bene dei pochi”. Di coloro cioè che sono riusciti ad impadronitisi dei vertici dell’apparato pubblico, fosse esso articolato nella forma monarchica o, talvolta, anche in quella repubblicana.

L’Appello di Sturzo e degli altri dieci popolari che lo sottoscrissero 94 anni fa affronta frontalmente, quasi con visione profetica, la questione dello Stato moderno.

Non solo in una dimensione domestica, come pure sarebbe stato ragionevole attendersi, visto l’ancora vivo ed irrisolto dissidio tra Stato Italiano e Chiesa cattolica, bensì cogliendone tutti gli aspetti internazionali, incoraggiato in ciò anche dal fatto che si era all’immediato indomani della Prima Guerra mondiale.

E ora che ci stiamo accingendo a riprendere un cammino interrotto mi sento in dovere di invitare anche tutti noi, per prima cosa me stesso, a cogliere, sulla scia di quel esempio, tutte le occasioni per sprovincializzare le nostre analisi e ad alzare lo sguardo oltre la cortina del tempo in cui ci è dato di vivere e protenderci al di là delle barriere geografiche ed istituzionali oggi conosciute, ma in continua trasformazione ed evoluzione.

La globalizzazione, il libero flusso delle idee, degli uomini e delle merci hanno già dilatato in nuove dimensioni planetarie ciò che prima sembrava solamente di carattere locale o nazionale e, allo stesso tempo, al contrario, a partire dal linguaggio, dal cibo e dal vestiario, fanno diventare nostro, fin nell’intimo della nostra vita quotidiana, ciò che sembrerebbe proprio solo di altre latitudini e di altre culture.

Noi, anche per la contingenza storica di quel 18 Gennaio, vediamo che Sturzo ed i popolari del ’19 non erano affatto ripiegati su miopi faccende di casa e bottega.

Anzi, avevano ben presente lo scenario internazionale che, all’indomani del Primo conflitto mondiale, diventava un sfondo da cui non era possibile sfuggire e sul quale era doveroso collocare e risolvere i problemi nazionali, così come quelli del nascente PPI.

In quello stesso 18 Gennaio 1919, infatti, si apriva la Conferenza della Pace a Parigi. Un’assise da cui i popolari italiani si attendevano risultati utili a “preparare le basi di una pace giusta e durevole” per “allontanare ogni pericolo di nuove guerre” e giungere, così ad un assetto stabile mondiale, “ad attuare gli ideali di giustizia sociale e migliorare le condizioni generali del lavoro, a sviluppare le energie spirituali e materiali di tutti i Paesi…” Con il loro appello, i popolari italiani intendevano chiamare tutti i partiti politici europei alla cooperazione affinché fosse trovato “il reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso della società”.

Il riferimento di don Sturzo e dei suoi amici va al “programma politico, morale patrimonio delle genti cristiane” ed al pressante messaggio di Benedetto XV, poi ripreso e “propugnato” dal Presidente statunitense Wilson in relazione alla impellente necessità di creare un nuovo ordine mondiale.

Già allora non era possibile pensare a soluzioni valide per un solo Paese, per un solo popolo, ignorando le interrelazioni e le interconnessioni che, al di là delle comunque ancora forti barriere nazionali, doganali, linguistiche ed umane del tempo, rendevano già vera e reale la necessità della trasposizione su di una dimensione internazionale dei problemi interni di ogni singolo Paese.

L’esperienza autarchica fascista ne costituirà successivamente la controprova al contrario e costerà, nonostante la retorica mussoliniana, all’Italia un’arretratezza economica e sociale il cui divario, rispetto ai popoli del nord Europa e del resto del mondo di cultura occidentale, ancora facciamo fatica a colmare completamente ai nostri giorni.

In ogni caso, nell’Appello dei popolari si trova un’attenzione verso gli equilibri mondiali che, in qualche modo, costituisce una premessa per l’ elaborazione che porterà Jacques Maritain, all’indomani del successivo e, forse, ancora più terribile secondo conflitto mondiale, ad auspicare una vera e propria unificazione politica del mondo.

Lo ricorda Giovanni Galloni nel suo “Dossetti, profeta del nostro tempo”, Maritain riprende il libro scritto nel 1944 , “How to Think About War and Peace” , ( Riflessioni sulla guerra e sulla pace ) da Mortimer Adler.

Si tratta del tormentato e controverso scrittore di origine ebraica, a lungo definitosi pagano, prima di convertirsi al cristianesimo e, quindi, al cattolicesimo e noto anche per la sua decisa opposizione a quelle correnti di pensiero che intendono trasformare l’ateismo in una nuova religione laica. Uno di quei pensatori ” dimenticati”, insomma, perché propugnatore di tesi scomode per le opinioni correnti nel mondo della cultura e del giornalismo italiano ed internazionale. In Adler la speculazione su questo tema è di natura squisitamente filosofica.

In Maritain, che pubblica il suo “Uomo e Stato” nel 1951, oramai in piena epoca di guerra fredda ed era atomica, invece, si avverte il senso di un’intuizione profetica, squisitamente etica e politica, secondo la quale è necessario il superamento della visione dello Stato moderno di matrice hegeliana alla cui responsabilità teorica possono essere fatti risalire alcuni dei più grandi drammi vissuti dall’umanità nel corso del suo lungo cammino.

Secondo Maritain, infatti, si deve tendere alla creazione di un’ autorità mondiale che non abbia il proprio riferimento nella prospettiva esclusiva della funzione dello Stato Etico; quello Stato Etico che si ostina a trovare in se stesso la ragione e la giustificazione della propria essenza ed esistenza rivelandosi, alla fin fine, “altro” rispetto alla società civile e persino indifferente rispetto al cittadino.

Secondo il pensatore parigino si deve cominciare, invece, a riferirsi ad un ” corpo politico” mondiale, in cui i singoli stati nazionali devono rinunciare alla loro piena indipendenza, e destinato ad essere plasmato dalle diverse istituzioni in cui si articola e dalle molteplici comunità che lo formano.

Un pensiero di un’attualità stringente!

Abbiamo di fronte quella che da molte parti è definita, oggi, una vera e propria guerra mondiale. Combattuta con le armi della Borsa, degli spread e della cosiddetta finanziarizzazione dell’economia, cui si tende a dare, artatamente, una connotazione quasi neutra, indistinta e virtuale.

Tutto va a scapito dell’economia reale di cui fanno le spese, al contrario, miliardi di uomini veri, in carne ed ossa, con i loro drammi, le loro debolezze e le loro lacrime. Tutto ciò spinge anche oggi ad una riflessione sul ruolo dello Stato e degli Stati nella realtà contemporanea.

E’ necessario un intervento politico mondiale che dia seguito alle elaborazioni dottrinali di Maritain le quali trovano una fertile premessa intellettuale anche nell’Appello di don Sturzo.

Là dove, ad esempio, i popolari italiani si collocano in una prospettiva di superamento della visione dello Stato inteso quale supremo ed unico riferimento paradigmatico della società .

“A uno Stato accentratore- leggiamo nell’Appello- tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private”.

Ci troviamo dunque di fronte all’inizio di un lungo cammino prospettico secondo quel lungo filo rosso che fortunatamente, poi, ha continuato a correre lungo la disperata ricerca della pace, nella più diffusa consapevolezza che solo un nuovo assetto istituzionale internazionale possa garantire il raggiungimento di un tale ambizioso traguardo.

Un percorso su cui si troverà in prima fila, da allora in poi, l’elaborazione del miglior pensiero del mondo cristiano occidentale, in particolare di quello europeo e di quello cattolico.

Questo filo rosso, infatti, è destinato a riproporsi con Giovanni XXIII, La Pira, Dossetti, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, attraverso una definizione sempre più stringente e nitida delle cause e degli ostacoli da rimuovere, delle proposte da realizzare e delle trasformazioni necessarie al raggiungimento di una pace vera e duratura cui anela da sempre ogni essere umano raziocinante.

Dalla Pacem in Terris alla Populorum Progessio alla Caritas in veritate, l’auspicio è uno solo: giungere alla costituzione di un’Autorità politica mondiale il cui compito è quello di servire il bene comune.

Si tratta, allora, come ricorda anche la nota dell’Ottobre 2011 della Pontificia Commissione Giustizia e Pace intitolata “Per una riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un’Autorità pubblica a competenza universale”, di dotarsi ” di strutture e meccanismi adeguati, efficaci, ossia all’altezza della propria missione e delle aspettative che in essa sono riposte.

Questo è particolarmente vero all’interno di un mondo globalizzato, che rende persone e popoli sempre più interconnessi ed interdipendenti, ma che mostra anche il peso dell’egoismo e degli interessi settoriali, tra cui l’esistenza di mercati monetari e finanziari a carattere prevalentemente speculativo, dannosi per l’economia reale, specie dei Paesi più deboli”.

Tutto ciò, avrà poi modo di precisare direttamente anche Benedetto XVI, non significa che, così dicendo, debba essere immaginato” un superpotere, concentrato nelle mani di pochi, che dominerebbe su tutti i popoli, sfruttando i più deboli, ma che qualunque autorità deve essere intesa, anzitutto, come forza morale, facoltà di influire secondo ragione,ossia come autorità partecipata, limitata per competenza e dal diritto”.

Tornando a 94 anni fa, notiamo che l’Appello sturziano si preoccupa anche di declinare i termini legislativi adeguati a raggiungere il nuovo assetto istituzionale agognato con l’indicazione degli interventi di natura squisitamente politica e legislativa necessari.

Non possiamo fare a meno di notare importanti similitudini con i nostri giorni.

Intanto, per il dibattito sul sistema elettorale e dell’assetto del Parlamento. Per i popolari si doveva riformare, infatti, l’istituto parlamentare “sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto alle donne, e il Senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali”. Ma era necessario anche avviare una riforma della “burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione”; si doveva giungere al “riconoscimento giuridico delle classi, l’autonomia comunale, la riforma degli enti provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali”.

Quante assonanze con problemi che il nostro Paese non ha ancora risolto o, dove ci si è accinti a fare, non si sono ottenuti i risultati sperati.

In ogni caso, in queste richieste vi è tutto intero lo svolgimento pratico del progetto teorico della riforma popolare.

In primo luogo, la trasformazione dell’apparato burocratico, fino ad allora gestito in maniera centralistica attraverso l’uso spregiudicato delle prefetture, come confermano le denuncie salveminiane del “malaffare” di stampo giolittiano, completamente condivise dal giovane prete di Caltagirone.

Una autentica autonomia a livello amministrativo, il coinvolgimento della società civile attraverso l’attività legislativa e di controllo del Senato, secondo Sturzo e compagni, infatti, erano destinati a liberare energie rigeneranti per l’Italia di allora.

Noi, cari amici, ci troviamo adesso in un contesto in cui dobbiamo riprendere e risollevare anche lo stendardo di questa prospettiva.

Si tratta di ricercare e sostenere tutte le energie ancora inespresse o non espresse compiutamente nel Paese e chiamare ad una nuova consapevolezza sulla necessità di un impegno.

Per avere credibilità dovremo riconoscere anche le nostre responsabilità assunte nel corso del cinquantennio di ininterrotta presenza al Governo del Paese ed in molti gangli vitali dell’apparato statale. Un periodo durante il quale la carica riformatrice, che pure era fortemente sentita tra le nostre fila, ad un certo punto, non è stata più dispiegata con la determinazione, la compiutezza e la consapevolezza necessarie.

Anzi, pressati dalla necessità di continuare, almeno fino a tutto gli anni ’80, ad assicurare alti tassi di sviluppo al Paese; impegnati in una dura battaglia con altre forze politiche cui non mancavano, nonostante la letteratura corrente, forti spinte alla scelta del potere piuttosto che alla proclamata istanza riformatrice; preoccupati di non turbare i diritti acquisiti da parte di molte categorie intimamente legate al nostro mondo abbiamo finito per adagiarci su di una logica di “occupazione dello Stato” e delle sue articolazioni decentrate.

Anche noi, ma non certo da soli, e con il concorso degli altri partiti ed anche di una buona parte del mondo dell’impresa e della società civile, abbiamo contribuito a portare a livello regionale e locale le stesse logiche spartitorie ed assistenziali, le carenze ed i ritardi accumulati nel corso degli anni in ambito statale, invece di cogliere l’occasione offerta dalla piena attuazione della Carta costituzionale in materia di effettivo decentramento decisionale e gestionale.

Anche noi abbiamo perso un’occasione per rinnovare e trasformare la gestione della cosa pubblica assicurando maggior trasparenza e partecipazione ed introducendo elementi di sviluppo e crescita economica invece che di dissipazione di risorse e di opportunità.

E’ stato un processo opposto a quello auspicabile: piuttosto che le ” best practice” abbiamo traslato a livello regionale e locale le ” cattive pratiche” ed i brutti metodi della partitocrazia e della struttura centralistica propria del nostro apparato burocratico nazionale.

Secondo i popolari sottoscrittori dell’Appello, tutta la riforma prospettata dello Stato postunitario italiano, però, può essere raggiunto solo perseguendo un ideale di libertà.

C’ è una precisazione che Sturzo ed i suoi fanno, rivolti sia verso l’apparato dominate liberale, sia verso la sinistra socialista: “questo ideale di libertà non tende a disorganizzare lo Stato ma è essenzialmente organico nel rinnovamento delle energie e delle attività che debbono trovare al centro la coordinazione, la valorizzazione, la difesa e lo sviluppo progressivo. Energie che debbono comporsi a nuclei vitali che potranno fermare o modificare le correnti disgregatrici, le agitazioni promosse a nome di una sistematica lotta di classe e della rivoluzione anarchica, e attingere dall’anima popolare gli elementi di conservazione e di progresso, dando valore all’autorità come forza ed esponente insieme della sovranità popolare e della collaborazione sociale”.

In questi nostri giorni in cui le parole, soprattutto quelle della politica, rischiano di essere utilizzate solo come se si trattasse di slogan pubblicitari o all’interno di spot televisivi, per confondere le reali intenzioni che si intende perseguire, è bene soffermarsi su alcuni dei termini in voga.

Si tratta di un esercizio molto utile anche in queste ore in cui la campagna elettorale entra nel vivo e si fa stringente con la presentazione di programmi, di candidati, di simboli e di buone intenzioni, oltre che di riferimenti a questa o a quella corrente di pensiero.

Per quanto riguarda la nostra storia dobbiamo rilevare l’esistenza ed il diffondersi di una grande confusione semantica, di una nebbia che intendiamo diradare perché lo sentiamo come un dovere forte nei confronti dei nostri padri ma anche verso un popolo che non può essere più disinformato.

Mi riferisco, ad esempio, alla questione del cosiddetto “centro” e del ruolo che la Democrazia Cristiana ha avuto quale “centralità” della storia politica italiana nel secondo dopoguerra.

Uscita momentaneamente di scena questa nostra DC, è stata tutta una corsa al “centro”, tanto forte era ed è il richiamo di una sorta di “parola magica” e rassicurante che serve però a ricreare una Democrazia Cristiana senza la Democrazia Cristiana.

Questa visione del centro, richiamandosi non sempre a proposito al pensiero sturziano, degasperiano e moroteo, in realtà, è ridotto solamente ad una vana esercitazione dialettica, senza sostanza politica, in assenza di un qualunque legame concreto con i problemi veri del Paese ed i meccanismi reali della vita nazionale ed internazionale.

Un specie di Risiko nostrano, insomma; un gioco da tavolo in cui il problema sembra essere quello di occupare una posizione geometrica, presentarsi sotto una veste moderata e rassicurante piuttosto che puntare sulla consistenza e la validità del messaggio politico.

Non a caso il nostro sistema parlamentare è stato trasformato in modo che nessuno sia costretto al confronto tra il detto ed il fatto approfittando di gravi distorsioni che hanno aumentato la distanza e la separatezza dalle esigenze del corpo civile e sociale.

Una tale verifica é mancata quando Berlusconi, Bossi e Fini hanno dato vita ad un’autentica accozzaglia di carattere nazional- secessionista. E’ mancata quando ben due Governi Prodi sono stati travolti per vicende tutte interne alla coalizione dell’Ulivo ed in buona parte sconosciute ed incomprensibili da parte del suo stesso elettorato.

C’è un altro termine su cui provare a fare chiarezza: quello di Libertà ed i suoi derivati più noti e più adoperati: liberalismo, liberismo, liberistico.

A volte ci capita di ascoltare il termine ” popolare” associato con quello ” liberale” e di comprendere come questo accoppiamento sia frutto di una certa confusione teoretica.

Una confusione, invece, che Sturzo non fa tra il sostantivo – la Libertà – e uno o più aggettivi che ne derivano e, soprattutto, con un altro sostantivo: liberalismo.

Il sostantivo cui si riferisce don Sturzo , “Libertà” costituisce un patrimonio comune a quasi tutti gli uomini. Chi è che non tende all’ideale di Libertà di cui parla l’Appello? La Libertà la esige persino colui che vuole negarla agli altri.

Gli aggettivi e l’altro sostantivo che ne derivano, invece, attengono e richiamano ad una dottrina politica che con il popolarismo e la Democrazia Cristiana non hanno niente a che fare.

Mi riferisco al piano teorico del pensiero, ovviamente, visto che, comunque, con gli amici liberali non sono mancate comuni condivisioni di importanti battaglie politiche e sono stati persino formati dei governi soprattutto agli inizi dell’avventura repubblicana.

Alla Libertà, infatti, don Luigi Sturzo nell’Appello ai liberi e forti aggiunge due paroline rivelatrici: lo sviluppo progressivo.

Il popolarismo sturziano, infatti, crede in quella Libertà che significa libertà per le coscienze, oltre che libertà di commercio: é libertà dalla schiavitù della secolare arretratezza economica delle poveri genti oltre che libertà d’impresa; è libertà per la persona, la quale nel suo rapporto comunitario con il resto della società, con il suo puntare al bene comune, va oltre l’individualismo egoistico e senza prospettive etiche e morali, private e pubbliche.

La Libertà per don Luigi Sturzo costituirà sempre la premessa per la vera crescita umana, personale e collettiva. Scriverà Moro a questo proposito nel 1960 che in don Sturzo è sempre stata dominante ” l’idea della libertà nel suo valore inesauribile, nella molteplicità organica delle sue manifestazioni, nella sua funzione ravvivatrice della vita sociale”. Sempre secondo Moro quella di Sturzo era una dedizione completa all’idea di una “costruzione sociale incentrata intorno alla libertà, garantita dalla libertà, resa significativa dalla libertà, vivificata sul piano morale dalla libertà”.

Possiamo provare a semplificare: non c’è Libertà senza il sociale, così come non ci può essere un’autentica prospettiva di crescita sociale se non nel quadro di valori e risorse garantito e sostenuto dalla Libertà.

Si può sostenere che nella rivendicazione della Libertà il laicato cattolico basava anche una nitida visione non confessionale e la ricerca dell’autonomia politica del Partito Popolare rispetto alle gerarchie ecclesiastiche.

Ancora Moro ricordava come il Ppi impostò i rapporti di distinzione con la Chiesa in maniera estremamente chiaro. ” Il problema, scriveva Moro, si poneva per i popolari non sul piano della ribellione o dell’ubbidienza, ma su quello della ricerca di contenuti nuovi, capaci di provocare una improcrastinabile riforma dello Stato e quindi di comporre su nuove basi l’antica dilacerazione tra Stato e Chiesa”.

Del resto fu reso chiaro in maniera diretta dallo stesso Sturzo: “E’ superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione. Sarebbe illogico dedurre da ciò che noi cadiamo nell’errore del liberalismo, che reputa la religione un semplice affare di coscienza e cerca quindi nello stato laico un principio etico informatore della morale pubblica; anzi, è questo che noi combattiamo, quando cerchiamo nella religione lo spirito vivificatore di tutta la vita individuale e collettiva;ma non possiamo trasformarci da partito politico in ordinamento di Chiesa, né abbiamo il diritto di parlare in nome della Chiesa, né possiamo essere emanazione e dipendenza di organismi ecclesiastici, né possiamo avvalorare della forza della Chiesa la nostra azione politica, sia in parlamento che fuori del parlamento…”

Al pensiero sturziano noi dobbiamo riferirci anche per quanto riguarda l’analisi della realtà che ci sta di fronte e che, per quanto riguarda le relazioni tra Stato e società, tra istituzioni e modo reale, si presenta ai giorni nostri in maniera notevolmente diversa e sotto alcuni aspetti persino rovesciata rispetto a quella dei giorni dell’Appello.

Mi riferisco al fatto che lo Stato, nel caso della crisi finanziaria di questi anni, possiamo dire gli Stati e, per quanto ci coinvolge più immediatamente, le istituzioni europee, assumono la duplice veste del ” latitante” o dell’esasperatamente invadente.

La società, intanto, appare sempre più disarticolata e produttrice di un individualismo estremo che lascia ogni suo singolo componente incapace ad articolare un’idea del proprio senso dell’esistenza e della direzione verso cui muoversi.

Persino il mercato, di cui i grandi mezzi di opinione ed anche importanti organizzazioni politiche e sociali tendono, secondo delle teorie astratte, a fare diventare il grande regolatore di ogni cosa, finisce per essere avvertito non come un fattore di equilibrio, perché liberatore di nuove energie e di nuove opportunità, bensì come causa di un impoverimento generale e fonte di pericolo per la vita dei singoli e di quella collettiva.

Allora un’iniziativa politica di ricostruzione deve puntare al raggiungimento di una nuova statualità attraverso la quale sia possibile un’azione di ricomposizione della società civile partendo dalla ” persona umana”, superando ogni visione meramente individualistica perché si tratta di raggiungere una risposta globale alle necessità materiali e spirituali degli uomini e delle donne che, oltre ad essere individui, consumatori, utenti, cittadini sono per prima cosa esseri umani e, pertanto, portatori di esigenze esistenziali complesse ed articolate, non certo riducibili alle sole materiali ed economiche.

C’è bisogno di meno Stato ed, al contempo, di uno Stato diverso e migliore.

E’ necessario ridurre l’invadenza di uno Stato che sta raggiungendo limiti intollerabili ed è, pertanto, pericolosamente avvertito con ostilità dai cittadini quasi come se avessimo realizzato un’entità statuale comunista senza comunismo.

Dobbiamo ritornare allo spirito pieno dell’art. 114 della nostra Carta Costituzionale che recitando: “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, non ha affatto messo lo Stato al primo posto ed in una posizione di soverchiante responsabilità rispetto alle altre entità istituzionali di rappresentanza democratica e di rilievo gestionale.

La limitazione dell’invadenza dello Stato ed il potenziamento, invece, del suo ruolo nel rafforzamento dei legami sociali e comunitari deve, ovviamente, andare di pari passo con la definizione di nuove regole e più stringenti responsabilità per le Regioni e le altre entità istituzionali locali. Queste devono trovare una nuova articolazione, anche in considerazione del fatto che le trasformazioni intervenute possono portare alla completa soppressione delle Province e delle Comunità montane ed al rilancio di un autentico originale ruolo delle aree metropolitane e delle responsabilità delle amministrazioni comunali.

In queste ore si sta consumando il nostro impegno perché venga riconosciuto il nostro diritto esclusivo a mostrare lo scudo democratico cristiano e, attorno ad esso, raccogliere le forze degli autentici interessati a portare nel Paese un rinnovamento basato sul solidarismo, sulla sussidiarietà, su di un effettivo spirito autonomistico. Partendo dalla “persona” inserita in una società sempre più attenta alla ricerca di nuove opportunità per il raggiungimento di un autentico bene comune.

La nostra è una battaglia in difesa della nostra identità da porre a presidio dell’immenso patrimonio culturale, politico e sociale elaborato dal mondo democratico cristiano europeo nel corso degli ultimi 150 anni.

Un patrimonio che ha finito storicamente per trionfare nel confronto con quelle ideologie che hanno promesso, da un lato, una libertà senza alcuna solidarietà e responsabilità sociale e, dall’altro, l’utopistica idea di poter costruire una società di uguali senza democrazia e rispetto della ” persona”.

La nostra identità sarà arricchita dal lavoro in cui ci si sta impegnando per definire in termini programmatici e di proposta la visione moderna e rinnovata dell’elaborazione democratica e cristiana del pensiero sociale della Chiesa, così come dalla realizzazione di una ” forma ” partito moderna ed efficiente, utile a superare quelle disaffezione e distanza tra la gente e la politica. L’obiettivo, così, è quello di dare vita ad un partito, come intuì Sturzo con i suoi amici del Santa Chiara, che abbia la forza e l’energia per costituire un fenomeno nuovo e rigeneratore della vita politica italiana.