Il referendum sulla Giustizia e il rischio boomerang per l’opposizione
Una decina di giorni fa Dario Franceschini, intervenendo in Senato per commentare la riforma costituzionale della giustizia, ha ribadito che il centrosinistra intende appellarsi agli elettori per impedirne la sua promulgazione. «Sarà un referendum pro o contro Meloni… e loro perderanno». Questo sarebbe «il miglior viatico» per una successiva vittoria alle Politiche (vedi “Corriere della Sera” del 26 luglio). Sarà, ma a me sembra che la strada del referendum sia un terreno minato.
Guardiamo prima di tutto alla sostanza della questione. Non credo che alla maggior parte degli italiani sia così ovvio che la separazione delle carriere, i due Csm e l’estrazione dei membri di tali consigli comporti una perdita di indipendenza del potere giudiziario rispetto a quello esecutivo (ammesso e non concesso che agli italiani importi di tale indipendenza, cosa che io spero ma di cui non sono affatto sicuro). Chi lo sostiene non è per ora stato in grado di formulare la tesi in modo semplice e comprensibile ai non addetti ai lavori. Per esempio, l’estrazione dei membri dei consigli sembrerebbe, per definizione, escludere un intervento politico. Sembrerebbe, invece, evitare che la scelta di tali membri sia, come lo è stato, un campo di battaglia per le correnti, di natura quasi politica, che caratterizzano attualmente l’Associazione Nazionale dei Magistrati. Attenzione, non dico che tale caso sia giusto o sbagliato. Dico solo che non è ancora ovvio al grande pubblico in cosa consista il pericolo e perché dovrebbe votare contro la riforma.
Guardiamo poi ai numeri. Pochi giorni fa il Messaggero, riportando sondaggi di Agi/YouTrend, scriveva: «La stragrande maggioranza degli elettori dei partiti di centrodestra si dichiara favorevole, con picchi fino al 90 per cento tra chi vota Lega. I principali partiti del centrosinistra, invece, mostrano un elettorato in prevalenza contrario, ma incerto: tra i votanti Pd, i contrari alla riforma toccano il 57 per cento; ma le percentuali di chi è a favore e di chi dichiara di “non sapere” sono praticamente uguali. Anche tra gli elettori del M5S vincono i pareri contrari, ma chi “non sa” tocca il 19 per cento. Complessivamente, gli italiani sono a maggioranza favorevoli (49 per cento contro 26 per cento) alla separazione delle carriere».
È un ampio divario. Non solo. La Supermedia dei sondaggi di metà luglio dava il centrodestra al 47,4 per cento e la somma di centrosinistra, 5 Stelle ed ex Terzo polo al 48,6 per cento. Quindi i margini per un voto contro Meloni ci sarebbero. Tuttavia, Azione, Più Europa e Italia Viva avevano in passato sostenuto la separazione delle carriere. Italia Viva ha votato contro la recente riforma, più che altro, mi sembra, per ribadire la sua opposizione al governo Meloni, ma Più Europa e Azione hanno votato a favore e, insieme, rappresentano un 5 per cento dell’elettorato. Aggiungendo questi voti a quelli del centrodestra si arriverebbe abbondantemente sopra il 50 per cento.
Tutto sommato la riforma della giustizia non sembra il miglior terreno per sfidare il governo in un giudizio che diventi un viatico per le successive politiche. Già c’è stata una sconfitta sui referendum sul mercato del lavoro. Ma almeno in quel caso era una sconfitta dovuta alla mancanza di quorum. Qui la sconfitta sarebbe palese. Sarei prudente se fossi un leader del centrosinistra, anche se probabilmente, ormai, è troppo tardi per cambiare idea.