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TAURIANOVA (RC), MARTEDì 30 APRILE 2024

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“La ‘ndrangheta in Piemonte è capace di infettare le Istituzioni”

“La ‘ndrangheta in Piemonte è capace di infettare le Istituzioni”

Le motivazioni della sentenza relativa all’operazione Minotauro, che ha portato alla condanna in abbreviato di 58 persone, mettono in luce come in Piemonte i clan abbiano riproposto la stessa struttura organizzativa delle ‘ndrine calabresi. Inoltre, si evidenziano numerosi punti di contatto con esponenti politici anche in relazione alle primarie del Partito democratico

“La ‘ndrangheta in Piemonte è capace di infettare le Istituzioni”

Le motivazioni della sentenza relativa all’operazione Minotauro, che ha portato alla condanna in abbreviato di 58 persone, mettono in luce come in Piemonte i clan abbiano riproposto la stessa struttura organizzativa delle ‘ndrine calabresi. Inoltre, si evidenziano numerosi punti di contatto con esponenti politici anche in relazione alle primarie del Partito democratico



TORINO – La ‘ndrangheta in Piemonte e’ “in grado di infettare le istituzioni”. Lo scrive un giudice torinese, Cristiano Trevisan, in una delle 2.500 pagine in cui ha raccolto le motivazioni di una sentenza. Si tratta della prima tranche, quella condotta con il rito abbreviato, del maxi-processo Minotauro, sfociata lo scorso ottobre in una sessantina di condanne. La seconda, che annovera 73 imputati, è in corso in questi giorni. La sentenza parla degli otto “locali” (le cellule di base) e del “crimine” (il supergruppo adibito alle azioni violente) attivi a Torino e nel circondario: organizzazioni guidate secondo l’accusa dai clan dei Marando, dei Crea, degli Iaria e altri, che pur essendo “giuridicamente autonomi” dalle case madri calabresi, hanno “la tipica struttura ‘ndranghetistica”, con i capi, le gerarchie, i gradi (le “doti”), i riti, l’aiuto ai latitanti, la capacità di intimidire e “assoggettare larghi strati della popolazione”. Il giudice mette nero su bianco i numerosi tentativi delle cosche di condizionare la vita politica locale: di imputati ce n’é uno solo, Nevio Coral, all’epoca sindaco di Leinì, ma di episodi ce ne sono tanti. Un piccolo imprenditore, Salvatore Demasi detto ‘Giorgio’, che nelle carte è indicato come un presunto boss, viene contattato nel 2011 dal deputato Domenico Lucà (Pd) perché porti voti a Piero Fassino durante le primarie del centrosinistra per la carica di sindaco di Torino: il suo aiuto é prezioso, visto che anche un altro candidato (si legge nelle intercettazioni) si sta facendo “aiutare dai calabresi”. Poi si parla di Claudia Porchietto, assessore regionale (Pdl) al lavoro, che nel 2009 incontra dei personaggi già nel mirino dei carabinieri mentre tenta di diventare Presidente della Provincia. Di un deputato dell’Idv, Gaetano Porcino, di un consigliere regionale del Pd, di sindaci o aspiranti tali di diversi paesini. Tutti i politici risultano all’oscuro, tanto è vero che non vengono nemmeno indagati. “Ma indipendentemente dalla buona fede – commenta il giudice – ciò non può non allarmare”. La sentenza di Trevisan è considerata importante negli ambienti giudiziari torinesi perché, di fatto, è di tenore opposto rispetto a quella di un processo di poco precedente, chiamato “Albachiara”, sulle cosche del Basso Piemonte, finito con una serie di assoluzioni che avevano irritato non poco la Direzione distrettuale antimafia. E sottolinea che, in linea generale, per arrivare a una condanna non si deve “pretendere” che la ‘ndrangheta del Piemonte sia esattamente come quella della Calabria: non occorre un ”assoggettamento totalizzante della società civile”, ma è “sufficiente che risulti provata una situazione di asservimento limitata a settori della comunità”.