Processo “Alta tensione”, lettera aperta di Demetrio Cento
redazione | Il 19, Apr 2014
“In un contesto come quello di Reggio Calabria, si corre il rischio di fomentare ipotesi relative ad un patto scellerato di ‘ndrangheta, per il solo fatto di scendere in campo e mettersi in gioco”
Processo “Alta tensione”, lettera aperta di Demetrio Cento
“In un contesto come quello di Reggio Calabria, si corre il rischio di fomentare ipotesi relative ad un patto scellerato di ‘ndrangheta, per il solo fatto di scendere in campo e mettersi in gioco”
Riceviamo e pubblichiamo:
Accecato dalla volontà di sostenere il tema dell’infanzia, che per oltre venti anni, è stato l’argomento principale
del mio tempo libero e di cui mi sono occupato e a cui ho dedicato, con passione prima, e con competenza poi,
ho continuato a proporre azioni positive e concertate nelle sedi istituzionali, insieme ai tanti attori di un processo
lecito di crescita, di confronto per fornire il mio contributo ad un tema importante per inseguire la crescita
qualitativa dei servizi e delle proposte da garantire ai bambini di questa città.
Ma in questo percorso sociale sono imbattuto in una vicenda giudiziaria, che definire grottesca é certamente
limitativo rispetto alla realtà occorsa, che mi ha visto in attesa per ben 40 mesi trascorsi in religioso silenzio,
senza annotazioni sulla prospettazione dei fatti raccontati, senza commenti su decine di articoli di stampa relativi
alla mia persona in una gogna mediatica senza precedenti. Ho atteso comunque sereno, da imputato a piede
libero, la sentenza di primo grado del processo “Alta Tensione”, attendevo che i soggetti deputati legittimassero
la mia incolpevolezza, prima di esprimere la mie personali considerazioni, ma così non è stato. Ero affrancato
dalla convinzione che il giudizio finale, si dovesse maturare attraverso tutti i riscontri emersi nel dibattimento, i
dati fattuali e quelli probatori, i testi dell’accusa, ma anche quelli della difesa. Ho atteso tutto questo tempo nel
convincimento che la giustizia si esprimesse esclusivamente sulle risultanze emerse nel corso del processo, e che
le eventuali responsabilità penali fossero acclarate, oltre ogni legittimo dubbio, sulla base di ciò che fosse risultato
nel dibattimento e non da ciò che si è raccontato, da ciò che si è documentato e si dimostrato e non in base a ciò
che si è solo ipotizzato; ho atteso tre lunghi anni nell’augurio di trovarmi al cospetto di una sentenza di giustizia e
non di giustizialismo.
Ma alla fine la sentenza è stata emessa, e non ho ritrovato nulla di quanto attendevo, se non l’impressione della
necessità di un sistema giudiziario all’affannata ricerca di rappresentanti della ormai nota “zona grigia”, che
possano divenire facili surrogati di ciò che non appare o forse non si è in grado di colpire. Ed invece nel silenzio
della mia condanna ho avuto l’impressione che si sia celato “l’opinionismo del giudizio”, il “potere della
conoscenza” di un metodo giudiziario che caratterizza a volte la magistratura; un modello di applicazione del
codice di procedura penale, che consente di legittimare ogni condanna, pur non ritrovando in essa alcuna
certezza oltre ogni ragionevole dubbio, così come sostiene il nostro sistema giudiziario. E allora, quando questo
accade, vi è il rischio che le condanne diventino una pura e semplice “opinione” e non una “decisione giusta”,
che in quanto tale dovrebbe essere assunta a garanzia del principio di equità e di congruenza della ricostruzione
storica dei fatti, rispetto alle prove legittimamente acquisite.
La condanna dovrebbe giungere quando risulta provata, oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza; in ogni
altro caso dovrebbe essere consequenziale il proscioglimento, dato che la colpevolezza e non l’innocenza
dovrebbe essere il tema del processo.
E allora da questa esperienza ho tratto un consiglio da rivolgere agli altri, a chi soprattutto svolge una qualunque
attività in questo territorio, perché conosca cosa può succedere, in una città come la nostra, in un’aula di giustizia,
quando un cittadino qualsiasi comprende che aver messo a disposizione, rispettando le regole e le modalità delle
leggi vigenti le proprie competenze e professionalità, a sostegno della programmazione di azioni positive delle
stesse Istituzioni, diventa un problema. E occorre sapere che in una città come la nostra, quando metti a
disposizione le tue competenze, il tuo tempo, le tue risorse e lo fai in maniera gratuita, volontaria, allora tutto
questo diventa non solo un problema, ma per quanto sostenuto dalla sentenza di primo grado, diventa addirittura
un reato, ma non un reato amministrativo, non un reato qualunque, ma diventa uno dei più grevi reati che
possono essere imputati ad un soggetto: il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
E allora è utile conoscere che in un contesto come quello di Reggio Calabria, si corre il rischio di fomentare
ipotesi relative ad un patto scellerato di ‘ndrangheta, per il solo fatto di scendere in campo e mettersi in gioco;
per il solo fatto di esporsi pubblicamente ad una visione probabilmente anche politica della vicenda; per il solo
fatto di mantenere un rapporto e un amicizia, con un soggetto che, pur non essendo mai stato coinvolto in
procedimenti di ‘ndrangheta possa, per rapporti familiari, essere associato e ricondotto ad un’appartenenza di
‘ndrangheta; per il solo fatto di avere affidato delle forniture ad un impresa, regolarmente operante nel territorio
cittadino, senza avergli fatto lo screening familiare, pur se quella stessa impresa forniva regolarmente anche
speciali corpi di polizia e tante altre Istituzioni Pubbliche ed organismi privati.
E ancora è opportuno che noi tutti cittadini, di questa città sempre più triste, ci poniamo qualche domanda, su
quale sia il sottile filo e la linea di demarcazione tra il giusto sospetto da mantenere e la verità dei fatti; su quanto
sia necessario selezionare i nostri fornitori, non sulla base dei normali criteri qualitativi, ma in base ai loro
eventuali collegamenti con soggetti che possono gravitare in sistemi criminali. Dovremmo chiederci tutti quanti
come potremmo difenderci da quei rapporti che potendo celare pseudo appartenenze mafiose, rischiano di
coinvolgerci a nostra insaputa. E cosa dovremmo richiedere ad un nostro fornitore, per essere certi che nessuna
circostanza possa ricondurlo mai all’ipotesi di appartenenza o di aggregazione ad una cosca mafiosa? E come
dovremmo tutelarci, non conoscendo personalmente i soggetti che possono gravitare attorno gli stessi fornitori, forse richiedendo il certificato del casellario giudiziario di tutti i soggetti che, anche lontanamente, potrebbero
entrare in contatto con il nostro fornitore, o indagando sulle relazioni e sui rapporti che mantiene con altri
eventuali fornitori, e cosi via?
E allora i reati degli altri soggetti, quando esistono, possono diventare i nostri reati, e a nulla vale se la nostra
condotta dimostra altro; non importa se non abbiamo mai partecipato consapevolmente a rafforzare questi
soggetti, non importa se il nostro comportamento è stato indirizzato in un’altra direzione, non importa se non
conosciamo neanche gli altri soggetti, e se addirittura non conosciamo nulla del loro percorso di vita e
giudiziario, e non importa neanche tutto quello che è stato documentato e comprovato in una sorta di inversione
dell’onere della prova, perché qualunque sia il nostro comportamento, per i giudicanti potrebbe diventare
conseguenza di un patto di ‘ndrangheta.
Ma nulla importa di tutto questo; dopo la sentenza ognuno dei giudicanti tornerà alla propria famiglia; sono certo
che oltre ogni ragionevole dubbio, penseranno di aver fatto sino in fondo il loro dovere, di avere con coscienza
espresso un giudizio di colpevolezza esente da ogni pregiudizio e basato sulla certezza di avere condannato un
sicuro colpevole. Ma se tutto ciò non avverrà, se tutto ciò non sarà nella loro mente, o se tutto ciò nel tempo sarà
smentito da altri giudicanti, chi risponderà alla propria coscienza, chi risponderà al potere dei giusti?
E’ vero, ci sono tre gradi di giudizio poiché la possibilità di commettere un errore giudiziario, è insita nello stesso
sistema, ma dovrebbe essere sempre individuata la vera motivazione che ha innescato l’errore, per diversificarla
nettamente da quella che, invece, potrebbe essere solo la diretta conseguenza dell’applicazione inesatta di un
modello giudiziario predefinito. Non è possibile la consequenziale applicazione di un “giudizio” di colpevolezza,
quale mera conversione di una semplice “opinione” di colpevolezza; occorre una “decisione giusta”.
E’ una valutazione che rimetto a tutti voi, a voi che acclarate un giudizio di colpevolezza, a voi comuni cittadini
che giudicate senza conoscere gli atti processuali, a voi organi di stampa che a volte invece che cronisti siete
narratori di una sola parte, non esercitando la funzione di storici del presente e dimenticandovi che se volete
giungere alla verità, di regola, dovreste ascoltare le “due campane” e non credere a nessuno delle due; ma è anche
una valutazione che rimetto a chi, dopo di voi, dovrà confermare o smentire quello che è stato già acclarato, nella
speranza che ciò non avvenga su una semplice “opinione” ma su un “giudizio” maturato nel rispetto dei canoni e
delle procedure del codice penale a cui, ogni magistrato, a suo tempo ha prestato certamente giuramento.
Aspetterò le motivazioni della sentenza di primo grado e dovrò purtroppo attendere ancora altro tempo, ci
vorranno altri gradi di giudizio, affinché la mia “non colpevolezza” possa finalmente essere legittimata oltre ogni
ragionevole dubbio.
Ing. Demetrio Cento