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Peppe Voltarelli apre con il suo Monumento la prima edizione del Globo Teatro Festival

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Una grande prova di Teatro-canzone fatta di suoni, gesti e parole

Peppe Voltarelli apre con il suo Monumento la prima edizione del Globo Teatro Festival

Una grande prova di Teatro-canzone fatta di suoni, gesti e parole

 

Una storia infinita, complessa, da cantare e narrare. Quella che Peppe Voltarelli, nella prima serata del Globo Teatro Festival, propone a un numerosissimo pubblico accorso per l’apertura della manifestazione è una storia che conosce bene; che ha avuto modo di osservare col privilegio del cittadino e con la fatica del viaggiatore. Infatti, l’artista che in tutto il mondo porta da anni tour che lo vedono protagonista, riporta ritagli della sua Calabria senza risparmiare sferzate e con l’ironia che lo contraddistingue, puntando sulle abitudini usuali della calabresità. Narra sempre alla sua maniera, come un figlio che da questa terra non fa che perdersi per poi ritrovarsi, e ancora, in un giro di giostra infinito che però lo aiuta a conoscere meglio se stesso e i suoi luoghi. La Calabria, raccontata da Voltarelli ne “Il monumento”, spettacolo tratto dal primo romanzo dell’artista intitolato “Il caciocavallo di bronzo”, è un luogo che lui ha visto contemporaneamente da lontano e da vicino, attraverso dei punti di vista diversi eppure sempre privilegiati. L’improbabile monumento, quindi, diventa un’opera paradossale e bizzarra da far costruire in un paese immaginario qualunque, dentro una qualunque delle nostre piazze, per iniziativa di un amministratore qualunque. Il libro è autobiografico con tratti parossistici, proiettato sul palco attraverso storie e canzoni. Il pubblico riconosce facilmente le fattezze dei personaggi raccontati dentro un percorso senza pause, si immedesima allo stesso tempo nel narratore e nel narrato, nell’esasperazione e nella semplicità genuina di meridionale; quella che prende le distanze da impegni o, viceversa, se ne assume così tanto i carichi fino a portarsi addosso un’estrema stanchezza. Peppe Voltarelli, ricuce gli strappi che fanno sorridere amaro attraverso le sue note, tra chitarra e fisarmonica, regalando agli spettatori raffinati pezzi che si snodano tra qualche lacrima di commozione e più di una risata. La performance che porta in scena è una ormai rara e riuscitissima prova del classico Teatro-canzone dai risvolti Gaberiani, dentro cui i ritmi si susseguono; conducendo lo spettatore negli intrecci di quella arte prodotta dal risultato di suoni, gesti e parole.

SCHEDA
Il monumento, Teatro Canzone tratto da Il Caciocavallo di Bronzo, di e con Peppe Voltarelli

Lo spettacolo è tratto dal primo romanzo dell’artista intitolato Il caciocavallo di bronzo, improbabile monumento da costruire in un paese immaginario. Un libro autobiografico narrato e ‘suonato’ tra le righe delle 19 storie, dove versi di canzoni rappresentano la vera punteggiatura del racconto. L’ambientazione è un villaggio popolato da bizzarri personaggi in cerca di riscatto dalle economie locali e dai percorsi ad ostacoli su strade da sempre in costruzione. Qui il cantautore calabrese traccia in maniera ironica e surreale una mappa non allineata della sua terra.

Al Globo Teatro Festival regna Confusion
Uno spettacolo con un maestoso Pierre Byland guida lo spettatore
tra le sue fragilità

Il pubblico lo sa quando è il momento, come in una specie di rituale atavico all’improvviso sente qualcosa, come un gesto o solo un suono, e tace. Dentro gli spalti di un Parco Ecolandia che, sotto le stelle, accolgono i numerosissimi spettatori, i bisbigli che poco prima si sentivano di sottofondo si affievoliscono e lasciano lo spazio al silenzio; allora le luci si abbassano fino a illuminare solo il palco, ma con luce tenue. L’arrivo del grande Pierre Byland assieme alla compagna di scena e di vita Mareike Schnitker è, però, anticipato dal lancio sul palco di alcuni oggetti riconoscibili che prendono per mano gli spettatori, portandoli dentro uno spazio bambino e senza tempo: un pattino a rotelle, delle palline, nasi da clown. Rotolano sul pavimento come l’anticipo di attimi teatrali davvero irripetibili.
Infine entrano gli artisti, pronti a trascinarsi dietro gli stati d’animo complessi e contrastanti che loro stessi instillano nel pubblico. La performance che il maestro della clowneria teatrale propone non lascia scampo: seziona i comportamenti dell’individuo, le sue paure e le sue ostentazioni, senza proporre soluzioni o vie d’uscita ma semplicemente ponendogli davanti uno spietato specchio virtuale, dove ognuno riconosce se stesso e i propri limiti. Non è indulgente, Byland, ma nemmeno giudicante. Non gli interessa prospettare suggerimenti per cercare di scivolare via da cattive abitudini o fragilità. È solo un invito, il suo, alla leggerezza; ricordandoci che la nostra parte sciocca è preponderante anche quando si cerca di nasconderla dietro un velo di formalità. Le maschere che usa non sono altro che la forma tangibile dei nostri atteggiamenti, appoggiate al loro volto diventano cosa viva e vitale finendo per nascondere una faccia sottostante che, poi svelata, è l’esatto contrario dell’apparenza. In un’esilarante numero finale, risultato di gigantesche gag dal ritmo crescente, persino una sedia prende vita avendo la colpa di accanirsi contro di lui a farlo inciampare ripetutamente. Pierre Byland ci litiga in maniera furibonda e gli spettatori dimenticano la differenza tra attore e oggetto. Perché qualsiasi cosa, tra le mani di Byland, diventa interprete e la stessa sedia assume velocemente una personalità bizzosa e prepotente. Uno spettacolo imponente, un susseguirsi di numeri che il pubblico, a suon d’applausi infiniti, non vorrebbe mai far finire.

SCHEDA
Confusion (Francia 80′ – Prima regionale), di Jacques Lecoq e Pierre Byland, Con Mareike Schnitker e Pierre Byland; maschere di Willy Seefeldt; produzione Compagnie Les Fusains. Lo spettacolo è dedicato a Jacques Lecoq.

Due attori, un uomo e una donna, osservano e analizzano la vita quotidiana ed il comportamento della gente. Si divertono a prendersi in giro e tutto finisce in… confusion. Attraverso la ricerca del nuovo clown, l’essere umano, spogliato di ogni artificio, diventa ridicolo e accetta la sua stupidità.
Per la prima volta in Calabria il memorabile spettacolo Confusion, scritto a quattro mani da Jacques Lecoq, maestro di teatro di fama mondiale, e Pierre Byland, il grande clown creatore del naso rosso: “… la più piccola maschera del mondo, che avrebbe permesso di far uscire dall’individuo la sua ingenuità e la sua fragilità”. “Pierre Byland fu all’apogeo delle nostre ricerche sul Clown. La sua personalità, il suo talento e i suoi doni acrobatici, contribuirono al nascere dell’immagine del “clown teatrale”. Lui portò il piccolo naso rosso nel teatro di oggi e lo rese popolare con i suoi spettacoli……”. (Jacques Lecoq)

Nathalia Capo d’Istria tra l’onirico e il reale racconta il dramma degli orrori bellici
Al Globo Teatro Festival grande successo per l’artista greca

È un pomeriggio qualunque quello in cui la protagonista di “Omorfaskimi”, la pièce portata in scena all’interno del maestoso cartellone di Globo Teatro Festival, si ritrova davanti a qualcuno che la porta a raccontarsi. La sua non è una vita qualunque ma quella di Gertrude Stern, un’ebrea, che scegliendo il nome con cui essere chiamata, Greta, quasi prende le distanze da se stessa, raccontandosi in un momento confuso e quasi onirico, dove gli orrori della fame e della guerra si confondono con la sua delicatezza e bellezza senza tempo o età. Con questo spettacolo teatrale arrivato in Italia per la prima volta, scopriamo una eccellente Nathalia Capo d’Istria che, oltre a interpretare un personaggio che viaggia tra realtà e finzione, cura anche l’adattamento del testo ispirandosi al romanzo di Nikos Kachtitsis. I toni restano sempre in bilico tra il dramma e la dolcezza e anche i tratti più truci incantano gli spettatori perché la Capo d’Istria sembra, con generosità artistica, non voler mai lasciar solo lo spettatore dentro il dramma della Seconda Guerra Mondiale e, quasi come una madre attenta, lo accompagna per mano dentro gli errori e gli orrori, le pecche e la stanchezza. Una narrazione evocativa quanto reale, quella dell’artista, che con intensità e senza mai tralasciare la lucidità, sembra attualizzare quella tragedia bellica con tutte le tragedie del momento. Sottolineando, dentro il suo percorso di dolore e attraverso un sorriso che raramente l’abbandona in scena, quanto siano i soggetti più deboli, in questo caso le donne, ad attraversare le esperienze di dolore senza
scampo, o possibilità alcuna di indulgenza. Sublimando, per quanto possibile, ogni esperienza, anche la più sconvolgente attraverso una sorta di catarsi connaturale. Lo spettacolo, rappresentato con immensa intensità, inchioda lo spettatore che, accorso al Parco di Ecolandia in vista di uno dei tanti appuntamenti con la multiculturalità teatrale, dopo la rappresentazione ha richiamato in scena l’artista più volte, in un abbraccio di applausi intenso e riconoscente.

SCHEDA
Omorfaskimi, Grecia 55′ – Prima nazionale – Spettacolo in greco sovratitolato in italiano.
Liberamente tratto dal romanzo di Nikos Kachtitsis “Omorfaskimi”; adattamento, costumi, regia Nathalia Capo d’Istria; con Nathalia Capo d’Istria; manifesto fotografico Takis Diamandopoulos

In un pomeriggio, alcuni anni fa, forse pochi ma forse anche di più, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in un caffè di una città dell’Europa centrale, ma potrebbe anche essere una città del Canada, l’ebrea austriaca Gertrude Stern racconta ad un perfetto sconosciuto la storia della sua vita. Donna di bellezza indefinibile, Greta, come preferisce essere chiamata, si svelerà attraverso una strana confessione in cui è difficile capire dove finisce la realtà e inizia la finzione. Il suo ambiguo racconto rivela le dolorose vicissitudini della sua vita ma anche le ragioni che l’hanno mantenuta in vita fino a quando con un disarmante sorriso invita lo sconosciuto nella propria stanza, per quella notte che potrebbe essere una delle sue ultime notti.

Alfa e Omega tratteggiano le trame de “La morte addosso”
Sul palcoscenico del Globo Teatro Festival lo spettacolo
dai tratti noir strega il pubblico

Non è per nulla chiaro cosa facciano due giovani donne in una notte metropolitana ferme su una panchina alla fermata del tram. Una delle due aspetta, forse un treno; l’altra sembra avere un obiettivo che va al di là del suo lavoro, evidente, di prostituta. Al Globo Teatro Festival la messa in scena di “La morte addosso” diventa una trappola emotiva per gli spettatori, che sono completamente assorbiti da un noir che nasce all’insegna della leggerezza portata in scena dalla penetrante Maria Milasi, co-autrice assieme a Domenico Loddo dei testi che assumono tratti non-sense per il personaggio Alfa interpretato della stessa Milasi e che si contrastano nella ruvidezza pragmatica del personaggio Omega in una intensa Kristina Mravcova. Il ritmo è sempre sostenuto, e le ore che dalla notte portano all’alba sembrano viaggiare impalpabili dentro delle impronte sempre più grevi, dove la regia di Americo Melchionda snoda il percorso in un labirinto che porta a un colpo di scena finale, temuto e paventato dallo spettatore. “La morte addosso” gioca su un mistero principe: Omega aspetta qualcuno con un vestito rosso che potrebbe aiutarla, in un modo o nell’altro, a cambiarle la vita. Ma ancora altri misteri si dipanano ramificandosi e con l’arrivo dell’alba si schiarisce anche l’arcano assieme agli animi. Lo spettacolo si sviluppa in un’accattivante varietà di ampiezze: è lancinante e divertente, brutale e sarcastico. Il pubblico si ritrova dentro un punto di non ritorno e il regista gestisce con maestria i tempi facendolo accomodare in un mondo tutto al femminile dove la figura dell’uomo, evocata e mai in scena, prende forma prepotentemente senza alcuna agevole positività, ma tratteggiandosi come una sorta di burattinaio stratega che tira le fila di due vite fragili come possono essere quelle delle due protagoniste Alfa e Omega. Ma anche quelle di tutte le donne vittima di qualcuno più forte di ogni loro principio di autoconservazione.

SCHEDA
La morte addosso, Italia 80′, di Domenico Loddo e Maria Milasi; regia di Americo Melchionda; con Maria Milasi e Kristina Mravcova; disegno luci di Guillermo Laurin Salazar; scenografia di Luigi Maria Catanoso; produzione: Officine Arti.

Due sconosciute si incontrano su una panchina. Alfa aspetta un bus o forse un treno. Omega una persona con un vestito rosso che potrebbe dare una svolta alla sua vita. Una fermata sperduta testimonia lo smarrimento di queste due esistenze in rovina, sospese tra le tenebre della notte e un’alba che forse non arriverà più, come due piccoli segni d’inchiostro mischiati a quel grande scarabocchio che è l’esistenza, tragiche eroine archetipo di una umanità in parossistica migrazione senza meta, dove ogni singolo individuo cerca il proprio ruolo al centro del palcoscenico o anche su una sedia vuota tra il pubblico, accontentandosi persino di stare in piedi dopo l’ultima fila, per non ritrovarsi chiusi fuori dal teatro, nel gelo siderale di un capolinea senza speranza.

Sei giovani attrici mettono in scena il rapporto col padre
Al Globo Teatro Festival i Cantieri Teatrali Koreja coinvolgono
emotivamente un vasto pubblico

La ricostruzione come metodo e antidoto alla sofferenza, un gesto che costa fatica eppure che unisce delle donne di cultura distante a fronte le lacerazioni interiori che sfociano, puntuali, nella distruzione. È lo spettacolo di Gabriele Vacis che ne ha curato la drammaturgia e la regia, portato in scena al Globo Teatro Festival grazie a Cantieri Teatrali Koreja. Il noto regista e drammaturgo ha avviato un iter di lavoro teatrale con un gruppo di giovani donne tirando fuori il loro rapporto con il padre, la situazione scenica che scaturisce ne “La parola padre” è energico, suggestivo e vivace: le short stories, brevi racconti che le attrici propongono, costituiscono assieme una performance originale dove persino i contenitori in plastica per l’acqua in genere destinati agli uffici prendono vita, assumendo forme sempre diverse a seconda dell’esigenza per mano delle stesse interpreti. Ed ecco che di fronte allo spettatore sorge un muro, un sentiero, un recinto o anche un labirinto, puntualmente distrutto dal dolore emotivo che si altera in atti di rabbia violenta. Sulla scena, intanto, si confonde la parola padre con la parola patria facendo leva sulla stessa radice semantica ed emotiva dentro un timbro dedicato ai condizionamenti che le due figure apportano alle ragazze in crescita. Plasmando con pressioni paternalistiche o con la semplice gestione ricattatrice, la vita di giovani che vorrebbero cercare un semplice quanto sereno compromesso tra amore e libertà. La scenofonia e l’allestimento sono a cura di Roberto Tarasco, che supporta egregiamente il lavoro delle attrici Irina Andreeva, Alessandra Crocco, Aleksandra Gronowska, Anna Chiara Ingrosso, Maria Rosaria Ponzetta, Simona Spirovska.
Il Globo Teatro Festival, con questo spettacolo, ha mantenuto il proprio obiettivo di commistione delle culture attraverso il teatro di alta qualità all’interno di un cartellone che sarà completato con la prossima stagione autunnale.

SCHEDA
La parola padre, Italia 70′ – Prima regionale – Spettacolo in multilingua. Drammaturgia e regia di Gabriele Vacis; scenofonia e allestimento di Roberto Tarasco, coordinamento artistico di Salvatore Tramacere;
con Irina Andreeva (Bulgaria), Alessandra Crocco (Italia), Aleksandra Gronowska (Polonia), Anna Chiara Ingrosso (Italia), Maria Rosaria Ponzetta (Italia), Simona Spirovska (Macedonia). Assistente alla regia: Carlo Durante; training: Barbara Bonriposi; tecnico: Mario Daniele; organizzazione e tournée: Laura Scorrano.
Lo spettacolo è prodotto da Cantieri Teatrali Koreja

Sei ragazze. Sei giovani attrici selezionate durante un giro di seminari tenuti da Koreja nell’Europa centro orientale. Sei giovani donne si incontrano in uno dei tanti crocevia del presente. Quei non luoghi che frequentiamo senza vedere. Ola, Anna Chiara, Simona, Irina, Alessandra, Rosaria. Tre sono italiane, una è polacca, una è bulgara, una è macedone. Tutte parlano più o meno inglese. Quali sentimenti coltivano sei ragazze di nazionalità diverse, che si parlano attraverso una lingua comune superficiale?
Hanno memorie comuni? Che storie possono raccontarsi e raccontare? E, soprattutto hanno una storia comune da raccontare? Immagini, danze, musiche e parole che frullano identità impossibili, mobili, fluide. Scintille di senso imprevedibili. Tutte hanno conti in sospeso con la loro patria, tutte hanno conti in sospeso con i loro padri.

L’opera che ha riempito i teatri di tutto il mondo incanta Arghillà
Bruce Myers al Globo Teatro festival con “The Grand Inquisitor”

È il silenzio che fa da padrone per l’accesso di Bruce Myers al Globo Teatro Festival. Un numerosissimo pubblico, maturo quanto impaziente, aspetta sugli spalti l’ingresso di uno dei più alti rappresentanti del teatro internazionale. E senza i classici ritardi tipici da grande star, ecco che l’immagine di Myers si materializza, un uomo dall’espressione umile e compassata che si trasforma non appena sul palco e davanti al microfono. L’artista amplifica, in tutta la sua autorevolezza, il testo “The Grand Inquisitor”, straordinario capitolo tratto da “I fratelli Karamazov” e adattato da Marie Hélène Estienne, riconsegnando agli spettatori il lavoro di Dostoevskji con un’empatia maestosa e avvolgente. Il timbro dell’Inquisitore inchioda un Cristo che col suo silenzio gli sfugge e Myers si trasfigura: «Is it you? You? Receiving no answer, he adds at once. ‘Don’t say anything, don’t speak, be silent». Gli spettatori intuiscono immediatamente che al Parco di Ecolandia si attua una sorta di metamorfosi in diretta: il contaminarsi di un attore superbo dentro due figure contrapposte come quelle del Cristo e del Grande Inquisitore. La regia di Peter Brook sceglie un criterio volutamente scarno e asciutto, dove la figura di Myers si indurisce nei tratti e perfino nei gesti delle mani in una conformazione scarna e provocante che si immerge dentro una scenografia minima ma che comunque trasmette agli spettatori la suggestione dello spazio misero e angusto di una cella. La forza dell’artista prende forma mentre, come Inquisitore, non smette di lacerare la persona silente del Cristo. Lui crede nelle sue parole, è convinto di ciò che dice e la figura passiva prigioniera lo rende ancora più aggressivo quanto sincero. “The Grand Inquisitor” è uno spettacolo che suggella un cartellone di alta qualità, cinquanta minuti che si sviluppano con una forza emozionale di intensità irripetibile e che regalano al pubblico accorso la rarità di un’arte senza barriere linguistiche.

SCHEDA
Il grande inquisitore, Francia/Inghilterra 50′ – Prima regionale – Spettacolo in inglese sovratitolato in italiano. Tratto da “I Fratelli Karamazov” di Dostoevskij; adattato da Marie Hélène Estienne; diretto da Peter Brook; luci Philippe Vialatte; con Bruce Myers; assistente Ivanka Polchenko

L’azione si svolge in Spagna, a Siviglia, durante il periodo più buio dell’ Inquisizione, quando ogni giorno venivano accesi roghi e in autodafé gli eretici venivano bruciati.
Cristo torna tra gli uomini “e in quel momento, il cardinale Grande Inquisitore attraversa la piazza. È un uomo vecchio, quasi novantenne, il viso avvizzito, gli occhi infossati accesi di una luce sinistra. Lo indica con un dito, ordinando alle guardie di prenderlo. Le guardie lo catturano e in un silenzio mortale lo portano via. E allora , la folla si inginocchia davanti al Grande Inquisitore, che la benedice senza dire una parola e continua per la sua strada. Il prigioniero è condotto nell’oscuro palazzo del Sant’Uffizio e chiuso in una stretta cella a volta”. Da “Il Grande Inquisitore” tratto da “I Fratelli Karamazov” di Dostoevskij la straordinaria interpretazione di Bruce Myers, diretto da Peter Brook, rivisita in forma di reading lo spettacolo che dal 2007 è in tour nei maggiori teatri del mondo.

Al Globo Teatro Festival Francesco Bonomo delinea i tratti della crisi economica
Con uno spettacolo ironico ma intenso, la perdita di
certezze riduce lo spazio vitale

Quello di Francesco Bonomo, rappresentato al Globo Teatro Festival, è stato uno spettacolo che ha prospettato suggestioni contrastanti e complesse. “Un uomo in fallimento” di David Lescot adattato dallo stesso Bonomo assieme a Efthimis Kaltsounas, ha regalato agli spettatori un momento di riflessione acuta ma allo stesso tempo leggera, grazie anche all’interpretazione di Chris Tantalakis, Spiridon Xenos e Dimitra Charitopoulou. La crisi economica diventa crisi sentimentale, esistenziale, perdita di ogni bene e svuotamento del proprio io più intimo. Regna la confusione dentro l’uomo che si instrada verso la via del fallimento, e ogni suo gesto o decisione non fa che amplificare il tracollo che ha intrapreso suo malgrado. La sua donna lo lascia portando con sé solo dei libri ma lui ne pretende uno a caso per ricordo; libro che comincia a leggere e, lentamente, ad assumere come guida spirituale verso una rinascita che però passa da un suo rimpicciolimento metaforico. Ed è proprio l’uomo raccontato da Lescot che, ispirandosi a “The Shrinking Man” un libro di fantascienza che narra il racconto di un uomo che si rimpiccolisce,
perde tutto ciò che aveva non soltanto di materiale. Sentendosi, infine, pronto a vivere una nuova esistenza. L’opera di Bonomo si esprime attraverso simboli e segni di riconoscimento della perdita: la cancellazione, la stanchezza, la rovina dei punti di riferimento. Si propone come storia contemporanea e spietata ma mantiene costantemente la sua leggerezza ironica e vivace. L’immagine di un uomo microscopico che si perde dentro le parole di un libro evoca maturazione e abbandono, via d’uscita univoca ed esclusiva che porta verso una specie di salvezza forse soltanto evocata o immaginata. Lo spettatore si è lasciato trasportare dal bravissimo cast dentro questo dramma dai tratti perlopiù canzonatori, conscio di far parte di quella precarietà epocale che lo deruba delle certezze. Condividendo la agognata, seconda, possibilità che l’interprete stesso ha conquistato.

SCHEDA
Un uomo in fallimento, Grecia – Prima nazionale – Spettacolo in greco sovratitolato in italiano. Di David Lescot, adattamento di Francesco Bonomo e Efthimis Kaltsounas; regia di Francesco Bonomo; scene e costumi: Katerina Liakou; movimento: Marianthi Psomataki; con: Chris Tantalakis, Spiridon Xenos, Dimitra Charitopoulou; produzione italiana: Progetti Carpe Diem/La Casa delle Storie in collaborazione con Istituto Francese di Cultura di Salonicco, Istituto Italiano di Cultura di Salonicco et Atene, con il sostegno di Teatro Nazionale della Grecia del Nord, Consolato Generale di Francia a Salonicco, con il patrocinio dell’Ambasciata di Grecia a Roma.

Il testo è ispirato ad una legge francese simile a quella di altri paesi europei che permette a chiunque abbia dei debiti, di vendere quanto in suo possesso per estinguerli completamente. L’Uomo in fallimento raccontato da Lescot perde tutto quello che ha in una lenta e inesorabile spoliazione dei suoi beni materiali, preparandosi a una seconda possibilità di esistenza. All’Uomo, ormai abbandonato a se stesso, non rimane che la compagnia del Mandatario Liquidatore che come una sorta di deus ex machina o una guida spirituale post-moderna di ispirazione francescana cercherà a modo suo di spronare il protagonista a rinascere. Il lavoro di Lescot si ispira anche al romanzo di fantascienza “The Shrinking Man” (L’uomo che rimpicciolisce) di Richard Matheson, da cui è stato poi tratto l’omonimo film.

L’evocazione del dolore di Sláva Daubnerová al Globo Teatro Festival
L’autrice ripercorre in una performance i percorsi della sofferenza

Sono momenti suggeriti, attimi che si inchiodano per non andare più via o suggestioni provvisorie e forse mai vissute. L’asfissia portata in scena al Globo Teatro festival da Sláva Daubnerová, autrice, regista e interprete di “Cells”, prende forma all’interno di una scenografia che lei stessa cura. Simboli intensi: una lavagna sulla quale appuntare note sempre più complicate da scrivere, recipienti in vetro trasparente che si svuotano e si riempiono in un susseguirsi di mancanze, sedie senza sedile su cui adagiarsi, ago e filo per ricucire abiti e pezzi di sé che stentano a stare assieme. È un prototipo di donna che ha imparato a gestire il dolore, facendo leva su delle note di Louise Bourgeois che diventano scampo e rifugio, ostacolo e scoglio. Le sculture sono una forma fisica che rappresentano il tangibile, attraverso esse la paura prende almeno forma, sembra dire la Daubnerová, quindi se almeno la salvezza non arriva, attraverso l’arte il dolore può almeno rappresentarsi. La figura che continua a sottrarsi, in questo spettacolo, è quella di un padre troppo distante e dominante ma è proprio attraverso i riti che il personaggio sviluppa che può inchiodarne la fuggevolezza e riconoscerne la sofferenza. I sentimenti sono demoni che portano all’autodistruzione e il passaggio da una cella all’altra le permette, almeno, di codificarne i tratti e rendere indietro una parvenza di carnalità. Il passato diventa corrente e la figura del padre si proietta in una dimensione più gestibile: la sua distruzione avverrà tavola. “All’improvviso arriva una terribile tensione e noi lo afferriamo – lo afferiamo e lo lasciamo cadere sul tavolo, gli strappiamo le braccia e le gambe, lo tagliamo a pezzi, lo strappiamo/lo dividiamo a pezzi e iniziamo a divorarlo. Diventa il cibo”.
Come in una forma necessaria per sfamarsi ma allo stesso tempo semplice da distruggere, Sláva Daubnerová porta in Calabria una performance dai tratti noir convincente e originale, indugiando sui tratti evocativi che il dolore intimo porta.

SCHEDA
Cells, Slovacchia 45′ – Prima regionale – Spettacolo in slovacco sovratitolato in italiano. Scritto, diretto e interpretato da Sláva Daubnerová; frammenti di testo tratti dai diari e le note di Louise Bourgeois; visual Concept di S. Daubnerová/E. Kudláč; drammaturgia di Eduard Kudláč; supporto tecnico Viliam Daubner
produzione P.A.T. piattaforma per il teatro contemporaneo.

La Performance Cely/Cells è ispirata all’omonima e celebre serie di installazioni scultoree di Louise Bourgeois (Parigi 1911- New York 2010), una delle più straordinarie rappresentanti d’arte visiva del 20° secolo. Cells di Louise Bourgeois è un’opera artistica creata negli anni ’80: una serie di sei celle unite e separate da raggruppamenti di porte e finestre. Stanze delimitate da pareti – celle di acciaio da cui si affacciano porte e finestre di vetro, prigioni senza possibilità di fuga contenenti frammenti corporei, mobili, specchi e diversi oggetti della vita di tutti i giorni che si trasformano in documenti – reliquia. In Cells, Louise Bourgeois ricostruisce i ricordi dando loro una forma fisica.