Ministero della Difesa condannato a risarcire per il “mobbing” dell’ufficiale al soldato
Chi credeva che il mobbing non fosse più un tema d’attualità a livello giurisprudenziale per la Cassazione, si sbagliava di grosso. Perché la sesta sezione civile della Cassazione sezione lavoro, con l’ordinanza 32973/19, pubblicata il 13 dicembre, ha ribadito alcuni principi fondamentali per la configurabilità e sanzionabilità delle condotte vessatorie da parte dei datori, anche se facenti parte di un ministero dello Stato, che Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, nella battaglia che l’associazione conduce in materia, ritiene utile riportare all’attenzione. La Cassazione conferma la sentenza della Corte d’Appello di Lecce che con la sentenza 1265/17 aveva ribaltato la decisione del Tribunale del capoluogo salentino di 1° grado n° 3779/14. In particolare, spetta al ministero della Difesa risarcire il mobbing dell’ufficiale ai danni del soldato. E ciò anche se il comandante è poi condannato in sede penale per maltrattamenti a causa delle vessazioni inflitte al sottoposto, costretto a ricorrere alle cure dello psicologo e alla terapia farmacologica. La responsabilità solidale dell’amministrazione, infatti, scatta perché si configura il rapporto di occasionalità necessaria fra le mansioni del superiore e la lesione all’integrità psicofisica del secondo, per quanto il primo abusi del potere di punizione di cui dispone nei confronti del secondo. Niente da fare per il Ministero, secondo cui con la condanna penale inflitta al comandante il vincolo di immedesimazione fra l’ufficiale e l’amministrazione pubblica dovrebbe ritenersi interrotto. Anzi, dalla sentenza penale emerge che il graduato si è comportato in modo analogo e addirittura più grave nei confronti di un altro militare. Conta solo che l’ufficiale compia la sua condotta penalmente rilevante mentre svolge il suo ruolo di pubblico dipendente. E che le vessazioni inflitte al soldato si inquadrano in un disegno di stabile mortificazione e sopraffazione del sottoposto, attraverso l’uso distorto del potere di supremazia gerarchica. Rileva, dunque, che l’illecito sia commesso dal comandante sfruttando i compiti svolti, anche se agendo oltre i limiti delle sue incombenze e perfino violando gli obblighi a lui imposti. Pertanto, Giovanni D’AGATA, impegnato in prima persona da anni nella lotta contro il mobbing sui luoghi di lavoro, esprime sincera soddisfazione per il riconoscimento da parte della Suprema Corte, di un principio importante che rafforza le tutele e le garanzie dei lavoratori contro le ingiustizie ed i soprusi sui luoghi di lavoro.