Mai dire antimafia
redazione | Il 21, Gen 2014
«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia
Mai dire antimafia
«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia
«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che
colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni
che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali,
noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo
Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era
sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal
funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle
professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati
nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo
antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e
politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita
l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie,
di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro
associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia
telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli
chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la
intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo
ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento
ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli
stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro
intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla
parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io
avessi e continuo ad aver ragione».
“Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo,
tutt’altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso
dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento
per il dibattimento”. Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla
Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su “La Gazzetta del
Mezzogiorno, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti
dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio
comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi
ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti
anche Vitali era consigliere comunale. “Sono più che sicuro – aggiunge
Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i
consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le
loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo,
infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate
indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il
presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti”. “Nutro massima
fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il
processo” commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro,
anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. “Sempre nel pieno
rispetto del lavoro della magistratura – prosegue Iurlaro – trovo comunque
discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi
responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura
politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene.
Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato,
non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i
farmacisti coinvolti nella vicenda”. Iurlaro si dice quindi “ottimista”,
confidando che “l’intera procedura possa svolgersi in maniera serena per
concludersi, infine, nel più breve tempo possibile”.
Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova
su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano.
La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata
in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi
nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza
del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione
Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il
legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere
un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi
“professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le
associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in
processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti
è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo
“realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo
tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti.
Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al
processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della
associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario
Tano Grasso.
Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela
Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e
dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia
che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento
di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali,
secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di
altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13
milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del
cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato
dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo
sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo
agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal
2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono
l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario
antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della
giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora
presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo
vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo
sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal
sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco
Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i
fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte
altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” –
risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque
avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di
progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è
traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive
oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati
destinati soltanto a: ” Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione
Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle
Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina
di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità
di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati
a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui
presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo,
essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito
sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è
partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le
presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a
lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero
dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati
escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a
vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati
controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato,
avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora
l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza
di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale
sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che,
paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti
continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche,
per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su
contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per
questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la
Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro
Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo,
l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di
nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere
dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e
promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri,
presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa
nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S
Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto
l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla
vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra
dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le
decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a
nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli
atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il
tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo
sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la
violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a
un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.
Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto
Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per
gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda.
Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione
di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei
beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi.
Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di
associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo
dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e
sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i
dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate,
l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante
sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel
mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa
giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico
sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile
trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari
dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito
nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e
non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici
contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica
alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità.
I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali
chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle
pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla
Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte
dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio
e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di
favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i
zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei
Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei
giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra
che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo
Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte
ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza
cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per
contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il
F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che
raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano
Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra –
secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà
operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura.
Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro
pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli
insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno
erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega
per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la
“mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta
dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai
vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della
missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali.
C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la
posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita
di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per
la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro.
L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno
scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la
camorra.
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