Ipocriti. Il Giorno della memoria? Non dimenticare tutte le vittime degli olocausti
redazione | Il 27, Gen 2014
Editoriale di Antonio Giangrande
Ipocriti. Il Giorno della memoria? Non dimenticare tutte le vittime degli olocausti
Editoriale di Antonio Giangrande
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27
gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime
dell’Olocausto perpetrato dai nazisti tedeschi. In Italia di questo evento
ne parlano tutti abbastanza, a volte anche a sproposito. Giusto per essere
diverso io parlo degli altri olocausti.
Bisognerebbe andare a vedere ogni volta se la storia ci viene raccontata nel
modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel
mio lavoro. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o
revisionare. E di questo parlarne con i leghisti e con chi nel profondo del
suo cuore è razzista.
Parliamo delle foibe e la cultura rosso sangue della sinistra comunista.
La senatrice di Bergamo (Bergamo, non Trieste, sic!) Alessandra Gallone
chiede che non si nasconda più la verità sulle foibe ed è firmataria con
altri della richiesta di una commissione d’inchiesta sulle stragi del ’43.
«Oggi celebriamo un ricordo: il ricordo delle foibe, quell’immane tragedia
che toccò il nostro popolo dell’Est, gli italiani di Trieste, di Quarnaro,
dell’Istria, della Dalmazia, di Fiume e di tutti i luoghi ceduti. Significò
per loro l’abbandono della propria terra – terra italiana, finita nel
territorio della ex Iugoslavia – ma soprattutto sopruso, devastazione,
morte. In quelle fosse comuni c’è un pezzo d’Italia e uno dei pezzi d’Italia
cui più dobbiamo rispetto. Furono oltre 10.000 gli italiani che trovarono
una morte orribile in quelle orribili fosse per mano dei partigiani
nazionalisti comunisti iugoslavi, italiani colpevoli di essere italiani,
mentre gli altri venivano strappati via dalle loro case e dalle loro terre,
costretti a fuggire per scampare alle persecuzioni, eppure restando
determinati nella volontà di rimanere italiani. Il genocidio di questi
italiani – perché di una vera pulizia etnica si trattò – fu condotto senza
distinzioni politiche, di censo, di sesso, di religione o di età. Furono
arrestati cattolici ed ebrei, dipendenti privati ed industriali,
agricoltori, pescatori, vecchi, bambini e soprattutto carabinieri,
poliziotti e finanzieri servitori dello Stato. Gli eccidi del ’43 e del
dopoguerra compiuti contro migliaia di inermi ed innocenti al confine
orientale dell’Italia furono un vero crimine contro l’umanità, al pari di
altri stermini compiuti e che ancora oggi vengono perpetrati in altre parti
del mondo. Fu una guerra civile; e il furore ideologico e le vendette
personali diedero vita alla pagina più triste della storia italiana. In
questo quadro vanno inserite le vicende degli esuli, che hanno vissuto un
duplice dramma: l’essere costretti ad abbandonare la propria casa vedendo
trucidare i loro parenti e, subito dopo, l’essere accolti con indifferenza e
in molti casi con ostilità da quella stessa Italia dalla quale avevano
sperato di ricevere un abbraccio solidale. Per sentirci vicini a quanti
hanno sofferto lo sradicamento, il minimo che possiamo fare è cercare di
porre rimedio attraverso una obiettiva ricognizione storica e una
valorizzazione di identità culturali di lingua e di tradizioni che non
possono essere cancellate. Ma ciò che ancora mi sorprende è che nonostante
sia trascorso così tanto tempo, il tempo necessario per ristabilire
l’oggettività storica, il racconto di quei tragici avvenimenti non si trovi
per nulla, o quanto meno non sia sufficientemente riportato nei libri di
scuola dei nostri figli. Perché? Cosa dobbiamo ancora nascondere?»
Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda
Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il
10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei
territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra
storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla
memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della
memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata
dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si
capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente
incomprensibile.
Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga
sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito
editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l’ex leader
comunista, in un’intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto
gli eccidi con cinquant’anni di ritardo.
C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola
con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono
stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18
febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per
distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una
folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate
il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi si
fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a
ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione
della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana
del secondo Novecento.
E quello che è successo nel risorgimento e dell’unificazione dell’Italia di
cui ha festeggiato i primi centocinquant’anni di vita nel 2011, chi ne
parla?
Ma è stato sempre così. Le future generazioni non devono dimenticare. Tutti
noi non dobbiamo dimenticare. PER NON DIMENTICARE: L’INGIUSTIZIA VIENE DA
LONTANO.
La legge Pica del 1863, ovvero la “licenza di uccidere i meridionali”,
scrive Giovanni Pecora. Secondo il re sabaudo Vittorio Emanuele II
dall’Italia meridionale si “alzava un grido di dolore” che lui, notoriamente
di buon cuore e generoso, non poteva non ascoltare. E così mandò avanti
Garibaldi con i suoi Mille improbabili liberatori che, a suo avviso,
sarebbero bastati per accendere il fuoco della ribellione al tiranno
Borbone. Ed in effetti all’inizio fu così, e molti cittadini di idee
liberali accolsero Garibaldi come un angelo liberatore, mentre molti
ufficiali dell’esercito borbonico, precedentemente comprati dall’opera di
intelligence posta in essere segretamente da Cavour, facevano in modo che i
soldati di re Francesco II non ostacolassero in alcun modo l’invasione e gli
insorti. Bastarono poche settimane per far comprendere ai liberali ed al
popolo meridionale che Garibaldi non veniva a portare la libertà, ma
semplicemente a sostituire un re con un altro re. Ma ormai era troppo tardi,
perchè a consolidare la conquista del Regno delle Due Sicilie erano già
arrivati i bersaglieri ed i fanti dell’esercito piemontese, che prima
sparavano e poi controllavano chi avessero davanti, fossero anche donne,
bambini o vecchi inermi. Per la retorica risorgimentale i “fratelli
d’Italia” ci abbracciavano per liberarci dal medioevo borbonico. Francamente
già posta in questi termini sembrerebbe più un’amara barzelletta che altro,
visto che per mille versi il Regno delle Due Sicilie era almeno vent’anni
avanti rispetto al resto d’Italia, Piemonte compreso. E questo era ed è
sotto gli occhi di tutti. Basta guardare le pubblicazioni del tempo ed i
documenti originali, e non i libri falsificati dalla retorica
risorgimentale.
Ma a volte, proprio per evitare che appaia un racconto di parte, è
addirittura sufficiente mostrare I FATTI, oppure ciò che scrivono e dicono
testi che non possono certamente essere definiti “filo-meridionalisti”.
I FATTI. Nel 1863, dopo già ben due anni erano passati di presunti “baci ed
abbracci” con i meridionali liberati, il clima era talmente “idilliaco” qui
al Sud che il governo neo-italiano ha dovuto far promulgare al re sabaudo lo
stato d’assedio per le regioni meridionali, autorizzando così la sospensione
delle leggi civili ed il passaggio al codice penale di guerra. Si promulga
così la cosiddetta “Legge Pica”, dal nome del deputato abruzzese che la
formulò, che per oltre due anni trasformò le regioni meridionali in un
immenso campo di combattimento, o meglio ancora in un enorme lager dentro il
quale i soldati del re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa della lotta al
brigantaggio uccisero, stuprarono, squartarono, sgozzarono, misero a ferro e
fuoco interi paesi causando migliaia e migliaia di morti innocenti.
E ci vollero ben ancora almeno sette anni per piegare definitivamente tutte
le sacche di resistenza dei partigiani lealisti al re Borbone sulle montagne
abruzzesi, lucane, campane, pugliesi, calabresi, e siciliane. Basterebbe
questo per capire l’enorme montagna di menzogne che ha accompagnato per 150
anni la storia del risorgimento italiano. Altro che “fratelli d’Italia”… Poi
ci testimonianze – involontarie – che veramente sono al di sopra di ogni
sospetto, come ad esempio quelle tratte dal sito dell’Arma dei Carabinieri,
“fedelissima” per definizione al re Savoia. Ecco cosa si legge nel sito
ufficiale dell’Arma: “La legge Pica permise la repressione senza limiti di
qualunque resistenza: si trattava, in pratica, dell’applicazione dello stato
d’assedio interno. Senza bisogno di un processo si potevano mettere per un
anno agli arresti domiciliari i vagabondi, le persone senza occupazione
fissa, i sospetti fiancheggiatori di camorristi e briganti. Nelle province
dichiarate infestate da briganti ogni banda armata di più di tre persone,
complici inclusi, poteva essere giudicata da una corte marziale.
Naturalmente alla sospensione dei diritti costituzionali (il concetto di
diritti umani di fatto ancora non esisteva) si accompagnarono misure come la
punizione collettiva per i delitti dei singoli e le rappresaglie contro i
villaggi”. Non c’è bisogno di alcun commento, mi pare. Vediamo allora cosa
invece scrive Wikipedia, l’enciclopedia online, a proposito della legge
Pica: “La legge 1409 del 1863, nota come legge Pica, dal nome del suo
promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica, fu approvata dal parlamento
della Destra storica e fu promulgata da Vittorio Emanuele II, il 15 agosto
di quell’anno. Presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”,
la legge fu più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni,
rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Sua finalità primaria era
porre rimedio al brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno, attraverso la
repressione di qualunque fenomeno di resistenza.
Contesto preesistente. Il provvedimento legislativo seguiva, di circa dodici
mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d’assedio nelle
province meridionali, avvenuta nell’estate del 1862. Con lo stato d’assedio
si era voluto concentrare il potere nelle mani dell’autorità militare al
fine di reprimere l’attività di resistenza armata: coloro i quali venivano
catturati con l’accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere
ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi
dall’esercito, senza formalità di alcun genere. Nella seduta parlamentare
del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete
negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che
vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono
ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni
uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra
barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che
state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi». Per contro, coloro
che riuscivano ad evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere
processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia
ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice
penale piemontese, non prevedeva più l’applicazione della pena di morte per
i reati politici. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la
garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino,
aveva l’obiettivo di colmare questo “vuoto”, sottraendo i sospettati di
brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli militari.
Brigantaggio e camorrismo. La legge Pica, il cui titolo era Procedura per la
repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette, si
attesta come la prima disposizione normativa dello stato unitario in cui
viene contemplato il reato di camorrismo. Oltre ad introdurre il reato di
brigantaggio, infatti, la legge 1409/1863, disciplinò in tema di ordine
pubblico riferendosi anche alle azioni delittuose commesse della nascente
criminalità organizzata. Inoltre, la legge Pica introdusse, per la prima
volta, la pena del domicilio coatto, ponendosi, per questi due aspetti, come
antesignana dell’ampia produzione normativa connessa ai reati di mafia che
caratterizzerà il XX secolo. Legiferando, però, su proto-mafie e
brigantaggio attraverso un’unica norma, il parlamento italiano accostava
impropriamente il mero banditismo all’attività di brigantaggio politico
propria della resistenza partigiana antiunitaria e legittimista.
Le disposizioni normative. In applicazione della legge Pica, dunque,
venivano istituiti sul territorio delle province definite come “infestate
dal brigantaggio” (individuate dal Regio decreto del 20 agosto 1863) i
tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di
brigantaggio. Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere
qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale)
chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone.
Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la
caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante
arrestato o ucciso. Le pene comminate ai condannati andavano
dall’incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito con
la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze
attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all’arresto, mentre
coloro che non si opponevano all’arresto potevano essere puniti con i lavori
forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze
attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro
fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano
aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece,
puniti con i lavori forzati a tempo o con la detenzione (concorrendo
circostanze attenuanti). Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse
unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche.
Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero
presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il
reato di eccitamento al brigantaggio. La legge prevedeva, inoltre, la
condanna al domicilio coatto per i vagabondi, le persone senza occupazione
fissa, i sospetti manutengoli, camorristi e fiancheggiatori, fino ad un anno
di reclusione. Nelle province definite “infette”, venivano istituiti i
Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del
Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione
Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi
dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato
d’arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l’iscrizione nella lista,
infatti, costituiva di per sé prova d’accusa. In sostanza, veniva introdotto
il criterio del sospetto: in base ad esso, però, chiunque avrebbe potuto
avanzare accuse, anche senza fondamento, anche per consumare una vendetta
privata. La legge, inoltre, aveva effetto retroattivo: in altre parole, era
possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati in epoca
antecedente la promulgazione della legge stessa. Attraverso le successive
modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, pur essendo
assente sull’isola il grande brigantaggio legittimista che caratterizzava le
province napoletane. In particolare, l’obiettivo del governo era combattere
il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero, infatti,
perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro concittadini
(attraverso l’occupazione militare di città e paesi). Alla sospensione dei
diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione
collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i
villaggi: veniva introdotto il concetto di “responsabilità collettiva”.
Contesto sociale e politico. Già durante la fase di discussione, fu avanzata
l’ipotesi che la proposta del Pica avrebbe potuto dare adito ad errori ed
arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il
provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di
ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea
rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come
soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono
l’annessione delle Due Sicilie al Regno d’Italia, propose di stanziare 20
milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del
Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano
preferì investire nell’impiego delle forze armate. In generale, infatti, la
lotta al Brigantaggio, impegnò un significativo “contingente di
pacificazione”: inizialmente esso constava di centoventimila unità, quasi la
metà dell’allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi, prima,
a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila. Dunque, nonostante le
criticità del provvedimento legislativo fossero state apertamente
denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi
contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede
adito. In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra
briganti, assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti. A tal
proposito, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva: «Il brigantaggio è un gran
male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia
ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e
l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha
corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più
lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro,
servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli
arresti». La legge Pica, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti,
eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali: per
effetto della legge 1409/1863 e del complesso normativo ad essa connesso,
fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati,
mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a
morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e
306 quelle alla reclusione ordinaria. Nonostante tale rigore, la legge Pica
non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi: l’attività
insurrezionale e il brigantaggio, infatti, perdurarono negli anni successivi
al 1865, protraendosi fino al 1870.
CONCLUSIONE.
“L’agosto 1863 un proclama di Vittorio Emanuele venne affisso in tutte le
città, paesi, borgate del Mezzogiorno. Era la legge Pica contro il
“brigantaggio”. Praticamente l’autorità militare assumeva il governo delle
province meridionali. La repressione diventava, a questo punto, ancora più
acre e feroce di quanto non fosse stata fin allora. La legge Pica rimase in
vigore fino al 31 dicembre 1865. Fu presentata come “mezzo eccezionale e
temporaneo di difesa” e, dall’opposizione parlamentare di sinistra valutata
e combattuta come una violazione dell’art. 71 dello Statuto del Regno poiché
il cittadino “veniva distolto dai suoi giudici naturali” per essere
sottoposto alla giurisdizione dei Tribunali Militari e alle procedure del
Codice Penale Militare. La legge passò comunque a larga maggioranza. La
ribellione doveva essere stroncata “col ferro e col fuoco!”. Per effetto
della legge Pica, a tutto il 31 dicembre 1865, furono 12.000 gli arrestati e
deportati, 2.218 i condannati. Nel solo 1865 le condanne a morte furono 55,
ai lavori forzati a vita 83, ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi
576, alla reclusione ordinaria 306. Le carceri erano piene, fitte, zeppe
fino all’inverosimile”. (Ludovico Greco,”Piemontisi, Briganti e Maccaroni” –
Guida Editore, Napoli, 1975).
Dr Antonio Giangrande
Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia