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TAURIANOVA (RC), SABATO 27 APRILE 2024

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Il processo di Socrate Analisi storico-giuridica del giurista blogger Giovanni Cardona sul processo a Socrate

Il processo di Socrate Analisi storico-giuridica del giurista blogger Giovanni Cardona sul processo a Socrate

Indubbiamente, il processo di Socrate fu uno di quelli cosiddetti di carattere politico.

L’accusa mossa a Socrate, nel 399 a. C., da Meleto e compagni, non era che la ripetizione di quella più clamorosamente inscenata, un quarto di secolo prima, da Aristofane, nella sua commedia «Le Nuvole».

«Asébeja» (empietà, irreligiosità) e «corruzione della gioventù».

L’accusa mossa a Socrate, innanzi a un pubblico della «Eliea», assemblea giudicante senza appello e composta di ben cinquecentoun giudici (l’unità serviva a fare il numero dispari) fu determinata anche da livore e fine politico.

Ad accusare Socrate si erano messi nientemeno che in tre: Meleto, un poetastro; Anito, pingue commerciante di pellami; e Licone, retore oscuro. Il primo era il più velenoso; il secondo il più pericoloso, perché intimo di Trasibulo e per altre sue alte aderenze; il terzo era una figura scialba e insignificante.

Vinsero facilmente e pienamente; ma la condanna a morte, più che a merito e ad abilità loro nel sostenere l’accusa, è da attribuire, come è stato, alla caratteristica e bizzarra procedura penale attica, ed anche al contegno tenuto in giudizio da Socrate che parve votato a un vero e proprio suicidio.

Vinsero; ma furono poi tutti raggiunti dalla maledizione del condannato; perché il primo fu condannato a morte anche lui; Anito, mandato in esilio e poi lapidato dal popolo; Licone finì suicida per miseria.

Mentre a Socrate fu, dai concittadini ammirati e riconoscenti, eretta una statua su una delle più belle piazze di Atene.

Il Tribunale degli «Eliasti» era un’istituzione caratteristica della democrazia ateniese.

Ve n’era uno per tribù; dieci in tutto. I suoi componenti erano estratti a sorte ed erano compensati con una modesta medaglia di presenza: due oboli per seduta, aumentati poi fino a tre. Trattandosi più di un diritto che di un dovere del cittadino, era libera la iscrizione nei relativi elenchi. Ne derivava che gli iscritti erano quasi tutti persone di media o modesta condizione; e, fra essi, naturalmente, molti anziani liberi dal lavoro quotidiano.

Allo scopo di evitare che gli interessati potessero esercitare pressioni, mettere in moto influenze e arrivare al punto di far tentativi di corruzione, le cause erano ripartite ed assegnate all’ultimo momento, in modo che il giudice andava all’udienza impreparato e doveva limitarsi a emettere il suo giudizio quasi esclusivamente su quello che all’udienza stessa era risultato.

Di fronte a una tale garanzia, puramente formale, ne mancava altra che, dalle moderne legislazioni penali, resa obbligatoria e la cui inosservanza costituisce nullità fondamentale: quella dell’assistenza, in giudizio e anche prima del giudizio, da parte di un difensore di professione.

Salvo casi speciali ed eccezionali, l’imputato doveva difendersi da sé. I minori e le donne si presentavano assistiti dal tutore.

Ma gli avvocati c’erano e lavoravano ugualmente. Preparavano difese scritte che i clienti imparavano a memoria e recitavano poi innanzi ai giudici. Socrate sdegnò di ricorrere a simile artificio. Gli era stata offerta da Lisia una brillante orazione che egli rifiutò ringraziando.

Ma l’inconveniente più grave, una irregolarità procedurale fondamentale, una vera lacuna che un difensore di professione non avrebbe certamente lasciato passare sotto silenzio, fu, nel caso di Socrate, la indeterminatezza dell’accusa: «Irreligiosità e corruzione della gioventù».

Nessuna determinazione di tempi, di luoghi, di persone; nessuna specificazione di fatti, di azioni, di discorsi. Nulla di tutto ciò. Eppure, anche dalla legge greca, era prescritto che l’accusa fosse formulata in termini precisi, fino dal momento in cui essa era depositata, con giuramento, nelle mani dell’«archon basileus» che era il magistrato delegato a riceverla. Né il giudice poteva andare oltre i confini circoscritti al suo giudizio né poteva, di suo arbitrio, cambiare il fatto e nemmeno ampliarlo.

La mancanza di ogni motivazione della sentenza, che non poteva essere impugnata né con appello né mediante ricorso, rendeva insanabile, e perciò più grave e odiosa, la irregolarità procedurale.

Raccogliendo l’eredità romana, i moderni sono andati anche più oltre, in materia tanto delicata quale è quella dell’applicazione della legge penale. Infatti i casi espressi dalle leggi penali sono i tipi e le condizioni del reato; i modelli entro cui deve ricondursi ogni fatto incriminato.

Mancava ai Greci, per difetto di quei tipi e modelli, la possibilità del riferimento che pure conobbero i Romani mediante le loro “legis actiones” e il procedimento “per formulas”. Non a torto presso i Greci non la legge ma il sentimento del diritto stava a circoscrivere il reato.

E si spiega come non fossero ritenuti necessari, né tampoco possibili, i giudizi di secondo e terzo grado (appello e cassazione); perché, non essendo le sentenze fondate su principii giuridici certi, mancava la base del riesame.

La direzione e la polizia delle udienze, al tribunale eliastico, erano alquanto arbitrarie: imputato e testi discutevano liberamente e animatamente fra loro, intavolando discussioni serrate e vivaci, veri corpo a corpo e i giudici stavano a sentire.

Ma un punto molto importante e assai discusso del processo di Socrate fu quello della votazione. La quale, per legge, avveniva in due tempi. Prima, si doveva stabilire se l’imputato fosse, o meno, colpevole. In caso negativo, l’imputato era assolto senz’altro e tutto finiva bene, men che per gli accusatori. Ma, se fosse stata affermata la responsabilità del giudicabile, si doveva passare ad una seconda votazione, per l’applicazione della pena.

Ora, nella prima votazione, Socrate fu riconosciuto colpevole con una risicata maggioranza che aumentò di molto alla seconda votazione.

Sembrerà enorme; ma la sanzione che vincolava i giudici era precisamente quella di scegliere tra la pena chiesta dagli accusatori e quella che l’accusato si dichiarava disposto a subire.

Ora, i primi avevano chiesto naturalmente la pena più grave, mentre quest’ultimo, con una alterigia che poteva anche apparire tracotanza e irriverenza, affermò a tutta prima, che riteneva di dover chiedere un premio anziché una pena.

Il premio dei giudici fu la condanna a morte.