Coniglio bianco
redazione | Il 10, Feb 2014
Un nuovo racconto di Mirco Spadaro
Coniglio bianco
Un nuovo racconto di Mirco Spadaro
Lui era il coniglio bianco. Una piccola macchia in bianco e nero di una vita a colori. Come lui, ce n’erano molti e come lui erano in tanti. Tutti diversi, eppure, così dannatamente simili da sembrare uguali. Erano cento o erano dieci, qual era la differenza? Loro esistevano, perché il solo fatto di esistere era per loro vita e morte. Una volta lo vidi, mentre sgattaiolava tra le tegole di un tetto dimenticato. Loro erano così: invisibili agli occhi, di chi non voleva vederli. Trasparenti al vento e al sole, perché per loro non esisteva l’inverno. Invisibili alla notte, perché loro erano le stelle. Da bambini indicavamo il cielo, ma i genitori non vedevano che luci per aria, eppure, loro erano lì: tra i camini e i sospiri dei bambini. Tra la terra e il cielo. Erano gli angeli di una vita che non aveva dato loro le ali. Erano angeli dalle orecchie a punta.
Una volta ne ho visto uno: mi fissava dalla finestra. Sulle spalle aveva un sacco di tela nera. Per un istante, nei suoi occhi scuri, avevo visto il mio riflesso bambino a bocca aperta, mentre quando e dove si confondono ora nella mia testa…
Bastò un istante, perché i sogni svanissero come il vento li aveva portati. Chiusi gli occhi e, dopo, vi fu solo il vuoto. Rimase solo un’impronta. L’impronta di un’immagine: una zampa di coniglio. Lui era il coniglio bianco, l’immagine passata di un tempo futuro. Le sue zampe non facevano rumore sulle strade dei cieli, né i suoi passi nelle case dei senza-sonno. Solo i bambini potevano vederlo, perché chi, meglio di loro, poteva credere in lui? Nel suo sacco non c’erano uova, né tempeste, ma solo paure. Non aveva nome né cognome, perché il tempo non ne ha bisogno. Eppure, chi era veramente?Che cosa lo spingeva nelle case dei bambini? Che cosa, nei loro sogni? Nel suo sacco c’erano sogni e paure, perché di quello, il mondo non aveva bisogno. Lui era il Coniglio bianco. Chi lo vedeva, lo dimenticava, perché come si può credere a qualcosa, se non vi è la paura di sbagliare?
Lui era il coniglio bianco: il custode delle paure. Come lui ce n’erano mille e nessuno. A volte, li potevi vedere sui tetti: orecchie a punta e cilindro in testa. Erano i conigli senza paura di un mondo con troppe preoccupazioni. Loro erano i custodi delle paure. L’innocenza che ci lasciavamo alle spalle. Gli uomini neri sotto i letti. L’innocenza di un mondo che non ne aveva più bisogno.
Una volta l’ho visto, ma non aveva orecchie a punta, nè cilindro, ma soltanto un cappuccio in testa per nascondere occhi troppo grandi per un mondo troppo piccolo. Lo chiamavano angelo, ma non aveva ali. Lo chiamavano pazzo, ma forse, era l’unico che non lo era. Non vendeva né comprava emozioni, ma regalava speranze. Lui era il coniglio bianco: la scintilla di una vita senza luce e l’ombra di chi luce ne ha vista troppa. Il suo sacco erano scritte e parole di chi parole e scritte non aveva, eppure, proprio per questo, esisteva: per essere ciò di cui si aveva bisogno. Per essere speranza di chi troppa paura aveva avuto. Per essere balsamo di ferite troppo sofferte. Le sue parole erano poche: “Come stai?” e tanto bastava in un mondo dove l’emozione è ipocrisia. Lui era un angelo caduto da un cielo che ormai ci aveva abbandonati. La sua era una gara, all’ultimo respiro, con un mondo che respiro non aveva mai avuto.
Lui era il coniglio bianco. Come lui ce n’erano mille e nessuno. Come lui erano tanti e pochi. I bambini li vedevano sui tetti, perché sulla terra non potevano esistere. Rubavano paure, perché il mondo non ne avesse più da temere. Rubavano sogni, perché non si potessero più compatire o soffrire.
Conigli bianchi: sogni di mondi senza sogni.