COMMOVENTE LETTERA DELL’EX SINDACO DI ROMA GIANNI ALEMANNO DAL CARCERE SUL COMPAGNO FABIO FALBO DI CASTROVILLARI

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DIARIO DI CELLA 17. FABIO FALBO, LO SCRIVANO DI REBIBBIA: IL MIO “COMPAGNO DI RESISTENZA”, SIMBOLO DELL’INGIUSTIZIA CARCERARIA.

Riceviamo da Gianni Alemanno e pubblichiamo nel rispetto delle norme dell’Ordinamento.

Rebibbia, 3 agosto 2025 – 215° giorno di carcere.
Leggendo le tante lettere sull’emergenza carceraria che abbiamo inviato alle istituzioni italiane, qualcuno si sarà chiesto: chi è “veramente” Fabio Falbo, l’altra persona detenuta che firma con Gianni Alemanno? Oggi voglio provare a rispondere, per soddisfare questa curiosità, ma soprattutto perché Fabio è un vero e proprio simbolo dell’epopea che può nobilitare la popolazione detenuta e dell’ingiustizia che oggi grava sugli istituti di pena.

Fabio è stato arrestato 16 anni fa in Germania, dove faceva l’imprenditore di import-export, per concorso in omicidio, associazione mafiosa e altri reati minori. Viene condannato in via definitiva a 22 anni e 9 mesi. Una condanna strana: assolto dall’associazione mafiosa, riceve una pena incredibilmente bassa per un concorso in omicidio, mentre l’aggravante mafiosa, reato ostativo, gli viene riconosciuta solo per piccoli reati complementari che contribuiscono alla pena per soli 9 mesi.

Lui si è sempre dichiarato innocente: accusato, senza nessun riscontro, da un collaboratore di giustizia che aveva un conto aperto con lui, era già da tempo all’estero quando nella sua città, il Comune di Corigliano in Calabria, venivano aperte le indagini sugli omicidi in questione. Fabio è convinto che la magistratura lo abbia condannato ad una pena così bassa per un concorso in omicidio, proprio perché non era convinta della sua colpevolezza, ma lo voleva comunque punire per il suo spregiudicato ed eccessivo stile di vita (quello di un ricco imprenditore, dedito alla bella vita e capace di intessere ogni tipo di affare usando fondi pubblici ed europei).

Qui comincia il suo calvario da detenuto e il suo personale riscatto. Per i 9 mesi di condanna ostativa viene detenuto 13 anni in regime di “alta sicurezza”, quel carcere duro istituito per isolare i capi mafiosi dal mondo esterno. Un regime da cui ha fatto fatica a uscire perché, dichiarandosi innocente, non poteva “collaborare” con la Giustizia. 13 anni vissuti passando da un carcere all’altro, ma spesi impegnandosi in ogni possibile percorso di “rieducazione” offerto negli istituti di pena. Fabio si laurea in Giurisprudenza con esame pubblico nel teatro di Rebibbia, alla presenza di un Sottosegretario alla Giustizia. Giunge a quattro esami dalla seconda laurea in Scienze Politiche, che abbandona per protesta perché il Tribunale di Sorveglianza gli nega sistematicamente la rieducazione ma di “natura personale ed edonistica”. Adesso si è iscritto come a Scienze della Comunicazione all’Università di Tor Vergata. Partecipa da attore alle attività laboratoriali teatrali di Rebibbia, che entra nella storia con il film diretto dai Fratelli Taviani e dal dramma “Cesare deve morire”. Contribuisce alla scrittura di libri di livello universitario sul significato del carcere e della pena. Da molti anni a questa parte assiste i detenuti nel redigere le istanze e le lettere alle istituzioni per accedere ai benefici. Questo impegno è stato riconosciuto persino dal Presidente Napolitano e scompone i muri del carcere per dialogare affettuosamente con lui. Partecipa alla vita politica nelle fila del Partito Radicale, fino a diventarne un dirigente, spinto dall’amicizia personale con Marco Pannella, e diventa animatore delle attività in carcere di associazioni come “Nessuno Tocchi Caino” e “Gruppo Idee”.

Ma, soprattutto, forte della sua “scienza giuridica”, diventa lo “Scrivano di Rebibbia”, cioè colui che nel carcere aiuta i suoi compagni detenuti a scrivere le domande alla Direzione e le istanze ai Tribunali di Sorveglianza. Diventa la sponda preziosa per tutti gli avvocati che non possono conoscere, come lui, le pieghe nascoste della vita carceraria e dell’ordinamento penitenziario. Sono tante le persone detenute che devono a lui e ai suoi consigli la loro libertà o i benefici ottenuti per accedere alle pene alternative.

Ma lui no, nessun beneficio gli viene riconosciuto. Tutto questo lavoro fatto su sé stesso, tutta questa cultura assimilata e prodotta, tutto questo donare agli altri, tutti questi riconoscimenti delle autorità pubbliche, non gli valgono nessun beneficio. Fabio non ha mai ottenuto un permesso – se non per tre ore quando gli è morta la madre – che è il primo gradino per costruire una “progressione trattamentale” per accedere alle pene alternative.

No, Fabio Falbo, lo Scrivano di Rebibbia, deve scontare fino all’ultimo giorno la sua pena, fino a quando, tra un paio d’anni, sarà scaraventato in libertà, senza nessun percorso di avvicinamento e di adattamento. Nel frattempo sua moglie Maria lo attende, allevando da sola i loro tre figli Francesco, Denise e Marco Aurelio, ragazzi che hanno visto e conosciuto il padre solo ai colloqui in carcere, ma lo adorano – basta guardarli negli occhi – sopra ogni cosa, da bravi e orgogliosi ragazzi calabresi quali sono. Anche Francesco, il padre di Fabio, attende a 92 anni di vedere suo figlio di nuovo in libertà e, seppure malato, si ostina a vivere per raggiungere questo traguardo.

L’ultima richiesta di un permesso premio di Fabio va avanti e indietro tra Tribunale di sorveglianza e Cassazione dal 2022. Il Tribunale nega il permesso, la Cassazione annulla questo divieto e rinvia la decisione alla Sorveglianza, che conferma ancora una volta il diniego. Perché? Perché ci sono quei maledetti 9 mesi di pena ostativa (nonostante la Cassazione abbia fatto giurisprudenza dicendo che un periodo di pena ostativa, una volta scontato, non può più impedire i benefici) e non c’è la collaborazione, visto che l’imputato continua a dichiararsi innocente. Tutto il resto non conta nulla: le “sintesi trattamentali” in cui educatori, psicologi e direttori dicono che Fabio è un esempio sulla strada della rieducazione, gli encomi, il lavoro culturale, l’assistenza agli altri detenuti. Tutto questo non conta nulla.

E Fabio va avanti sorridendo, con le sue battute in calabrese stretto, con la sua cucina a base di ‘nduja, con la comunità di persone detenute che si riuniscono ogni sera nella sua piccola cella per cenare e giocare a carte. Ma soprattutto Fabio va avanti trasformando l’assistenza alle persone detenute in una missione laica verso il prossimo, l’impegno contro l’emergenza carceraria in una lotta politica “di base” contro le ingiustizie sociali.

Nel frattempo al Braccio G8 sono arrivato io. Dopo qualche giorno di “studio reciproco”, non potevano non allearci nella battaglia comune contro il degrado del sistema penitenziario, contro il sovraffollamento carcerario, per una pena che, come dice l’art. 27 della Costituzione, deve avere un valore di rieducazione e di riscatto. Una “strana alleanza” tra un politico della destra sociale e una persona detenuta che ha fatto dei diritti civili la sua bandiera, un po’ calabrese e un po’ pannelliana. E siamo riusciti insieme a gridare che “il Re è nudo”, a costringere tutti a tornare ad accorgersi di questa drammatica realtà che è il carcere in Italia.

Fabio, nella dedica di un suo libro che mi ha regalato, mi ha definito “compagno di pensiero e di resistenza”, usando parole – “compagno” e “resistenza” – che per me sono decisamente nuove. Ma nella dedica si legge “anche chi è innocente può curare una ferita che non ha causato, e trasformare il dolore in consapevolezza”. È la nostra condizione comune, quello che ha fatto di noi, con tante altre persone detenute al G8, una comunità di lotta.

E, sorridendo, possiamo dire insieme: “combattere è un destino”.

Gianni Alemanno