Carnevale

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Editoriale di Caterina Sorbara

Carnevale

Editoriale di Caterina Sorbara

 

 

Sull’origine e sul significato della parola Carnevale, vi sono tante ipotesi.
Secondo l’interpretazione più corrente, deriverebbe dal latino medievale “carni levamen”, che significa “sollievo per la carne” e dunque libertà temporanea concessa agli istinti più elementari.
C’è poi un’altra teoria, cioè che derivi da “carnes levare”, “togliere le carni”, o ancora da “carni vale”, “carne addio”, perché una volta in questo periodo si consumavano in orge gastronomiche le ultime scorte di carni prima della Primavera.
Comunque sia, non dobbiamo dimenticare che il Carnevale è la reinterpretazione cristiana di una festa di passaggio da un anno all’altro,che si ritrova in varie tradizioni orientali e occidentali, dai “Saturnalia” romani alle Antesterie greche e le feste che precedevano l’equinozio primaverile a Babilonia.
E veniamo adesso al Carnevale in Calabria, precisamente nella Piana di Gioia Tauro.
Oggi, purtroppo, questa festa si esaurisce nella classica sfilata dei Carri allegorici, con i personaggi del mondo dello spettacolo e della politica. Vi è la tendenza a imitare il Carnevale di Viareggio o di altre località note.
Invece, al tempo dei nostri nonni, il Carnevale era una bellissima festa aspettata da grandi e piccini.
Quando il timido sole di Febbraio, accarezzava le violette della Piana del Tauro, nell’aria si cominciava a respirare il profumo della festa. Una festa che iniziava il giovedì grasso, quando, si preparava un lauto pranzo, in cui non doveva mancare la carne di maiale, il sugo con le polpette e i maccheroni fatti in casa.
A testimonianza di tutto ciò c’è un detto che dice: “Da Candilora cu non avi carni nci mpigna a figghiola”, per significare che per quel giorno, chi non aveva soldi per comprare la carne, dava la figlia in pegno.
Come dolci, non potevano mancare “i nacatuli”, (le chiacchiere) e a “pignolata”.
Travestirsi era una festa, erano travestimenti semplici: da zingara, da prete, da suora, da mostri o a volte con l’abito da sposa della mamma.
I “mascherati” giravano tutto il paese, ballando e cantando e, spesso facevano scherzi ai vecchietti, che dicevano: “chiuditi a porta ca passanu i mascherati”.
Tutto questo, raggiungeva il suo culmine il martedì grasso, quando, ala fine del giorno si piangeva la morte del Carnevale facendone il funerale con un pupazzo di paglia vestito goffamente.
Tutti cantavano: ” Carnavali moriu di notti e dassau quattru ricotti. Du frischi e du salati pi li povari malati. Du frischi e du stantivi pi li povari cattivi”.
Allo scoccare della mezzanotte tutti gridavano: “Carnalevari crepau”.
Una figura importante era poi la Koraisima (Quaresima) che nella tradizione popolare assumeva le vesti di madre, moglie e sorella del Carnevale, infatti, quando lui moriva, la Koraisima osservava il lutto per 40 giorni.
All’alba del mercoledì delle Ceneri essa appariva sospesa ad una canna, all’angolo delle strade o sul cornicione delle soffitte. Aveva oltre il fuso, un fascio di broccoli misti ad agli e cipolle ed un’arancia o un limone trafitti da 7 penne di gallina, che servivano a indicare il periodo di astinenza e di penitenza, ogni domenica se ne toglieva una.
A testimonianza di ciò, c’era questo ritornello:”Koraisima, occhi tinta ci lassi foglie a timpa. Koraisima, occhi torta,nun ce lassi foglie ad orta…”(Quaresima dagli occhi tinti, non lasci foglie sul declivio. Quaresima dagli occhi torti, non lasci foglie negli orti).
Un’altra cosa importante del Carnevale di un tempo che oggi si sente poco, perché sostituita dalle moderne maschere, è la nostra maschera: Giangurgolo, l’antica maschera calabrese.
Questa maschera risale al 1600 e nel secondo 800, dopo l’unificazione dell’Italia è quasi scomparsa.
Giangurgolo è un capitano spagnolo(1600 dominazione spagnola), parla il dialetto calabrese infarcito di parole spagnoleggianti.
E’ un vanitoso, ghiotto di maccheroni. Il suo costume ricorda la moda spagnola di allora : indossa una camicia bianca blusante, con maniche larghe e polsini stretti, il colletto bianco rigido, un paio di pantaloni rigonfi a righe gialle e rosse, una giubba colorata o di cuoio, calze bianche, fino al ginocchio, scarpe e guanti di pelle nera, un grande cinturone a cui è attaccata la spada e in testa porta un cappello a cono.
Questa maschera è stata protagonista di varie rappresentazioni teatrali a Napoli e a Firenze e nel 1694 dominò il Carnevale di Venezia.
Purtroppo, come ho già detto prima, i Carri allegorici con le maschere moderne ,hanno soppiantato le nostre antiche tradizioni.
Secondo me il vero Carnevale è il Carnevale di un tempo, fatto di sana allegria e genuinità.
Fatto di semplicità e buoni sapori, sapori naturalmente semplici.
E’ quel Carnevale che dobbiamo ritrovare, per rivivere ancora una volta, la serenità del tempo che fu.
Caterina Sorbara