Editoriale di Antonio Giangrande
Assolti e confiscati. I cavallotti: storie di mafia o di ingiustizia?
Editoriale di Antonio Giangrande
Questo è un tema da approfondire. Si può essere assolti dai magistrati
giudicanti ed allo stesso tempo essere additati come mafiosi dai magistrati
requirenti e per gli effetti essere destinatari di confisca dei propri beni,
che in base alla sentenza sono frutto di impresa legale? Da quanto risulta
sembra proprio di sì. Certo è che la stampa asservita al potere giudiziario
mai approfondirà un tema così scottante. E se poi tra i beneficiari
dell’atto di confisca ci sono gli stessi magistrati, allora……
La questione non è solo pertinente a Palermo e la Sicilia. Partiamo da Bari.
“Assolti e Confiscati”. Un libro da leggere, per capire e meditare! “Assolti
e Confiscati” è il libro che Michele Matarrese ha dato alle stampe per
raccontare, ovviamente dal punto di vista dei Matarrese, i vent’anni della
vicenda Punta Perotti, scrive Lucio Marengo. Finalmente c’è ancor qualcuno
che ha il coraggio di ribellarsi in termini ovviamente legali, allo
strapotere illimitato di parte di una magistratura che supponendo sia stata
in buona fede, ha però distrutto nella sostanza una grande famiglia come di
imprenditori come i Matarrese ed impedendo nei fatti lo sviluppo di quello
che sarebbe potuto diventare il più bello lungomare d’Italia. Solo il
fanatismo ecologico associato alla stupidità politica ha potuto giustificare
una battaglia a difesa di una fauna avicola inesistente indicando nella zona
di punta Perotti addirittura la presenza di uccelli speciali e particolari.
Non sappiamo a quali uccelli volessero riferirsi gli ambientalisti visto
che da quelle parti da sempre risultavano stanziali transessuali, puttane,
ed in più grosse zoccole di fogna ed animali sicuramente non rari. Se
avessero lasciato finire di costruire, altri imprenditori avevano già
investito denaro nella realizzazione di terziario, residenziale e tanto
verde, ma questo era di secondaria importanza dal momento che qualcuno
probabilmente aveva già deciso di costruire una lungimirante carriera sulla
pelle degli altri. Il 2 aprile 2006, dopo dieci anni di battaglie
giudiziarie, il sindaco di Bari Michele Emiliano, davanti ad una tavola
imbandita, alla presenza di ambientalisti politicamente schierati festeggiò
l’abbattimento dei manufatti di Punta Perotti con un lungo ed applaudito
brindisi. Noi eravamo lì e non esultammo perchè prendemmo atto che il
lungomare sarebbe diventato quello che oggi è e che fa vergognare tutti noi,
specialmente dopo il tramonto. Nessun imprenditore ha mai costruito senza
autorizzazioni legittime e legali ma ad un magistrato non costa troppa
fatica trovare la pagliuzza nell’occhio ed imbastire un processo come questo
che si è concluso dopo quindici anni con la condanna del Governo italiano a
risarcire i danni agli imprenditori Matarrese ed altri. Come sempre
pantalone pagherà, quello che non condividiamo è che ancora una volta i
magistrati che hanno sbagliato non pagano; questa sarebbe la Legge uguale
per tutti? Assolti e confiscati, per capire e meditare!
«Mi chiamo Matarrese, Michele Matarrese». Per quanto poco originale,
l’inizio è indubbiamente a effetto. Ma la colonna sonora non è quella di
James Bond, bensì il crepitare sordo del cemento che implode, sgretolando i
palazzi di Punta Perotti e il sogno imprenditoriale della più nota famiglia
di costruttori pugliesi, scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del
Mezzogiorno”. Una storia tutta barese, perché Bari è la città in cui
l’urbanistica fa e disfa fortune, costruisce carriere e crea (falsi) miti
nel triangolo tra imprenditori, politica e magistratura. «Assolti e
confiscati» è il libro che Michele Matarrese – «una vita dedicata a creare e
realizzare, nel segno della serietà e per decenni, strade, ponti, ferrovie,
stadi, strutture pubbliche e via dicendo», come si perita di evidenziare
nella prefazione – manda in libreria per i tipi del Sole-24 Ore al prezzo
(indubbiamente confindustriale) di 28 euro. È la storia, naturalmente dal
punto di vista dei Matarrese, dei vent’anni trascorsi tra il primo via
libera al complesso di Punta Perotti e la decisione con cui la Corte europea
dei diritti dell’uomo ha sancito che lo Stato italiano non avrebbe dovuto
appropriarsi dei terreni su cui sorgevano i palazzoni abusivi. Un pasticcio
all’italiana in cui Matarrese – lo ripetiamo, dal suo punto di vista – ha
qualche briciolo di ragione: un costruttore progetta, investe, chiede un
permesso, lo ottiene, inizia a costruire salvo poi subire un sequestro,
ottenere un’assoluzione, poi un secondo sequestro e alla fine l’onta della
demolizione pur senza aver riportato alcuna condanna. E dopo tre lustri, a
Bruxelles, c’è un giudice che ordina allo Stato di risarcire. Anche per
questo il sottotitolo del libro, che sarà presentato a Bari presso il Parco
dei Principi (luogo che non può non far venire in mente la vicenda
similissima di Lama Balice, con Vito Vasile e il suo «Imputato
inconsapevole») è «una storia di straordinaria ingiustizia». Una storia
infinita impastata di tribunali e di sofferenze – siamo, diciamolo ancora,
dal punto di vista del costruttore -, ma anche di qualche passaggio
divertente (una perizia giustificò il pregio ambientale dell’area di Punta
Perotti con la presenza in loco di «merli, torni, pettirossi, passere
scopaiole, capinere, silvie, occhicotti, magnanine, sterpazzole, cuculi (…)
e altre specie di fosso che si uniscono alle stanziali»: prima dei palazzi
lì c’erano prostitute e sfasciacarrozze) e di molti particolari inediti,
tipo l’esposto inviato al Csm contro i magistrati baresi o anche la lunga
lettera al giudice Maria Mitola che per prima aveva disposto il sequestro.
Rimasti, l’uno e l’altra, senza risposta. Il libro, la cui tesi è che in
molti – a partire dal sindaco di Bari, Michele Emiliano – hanno costruito
una carriera sulla demolizione dei palazzi, è costruito su documenti e
ritagli di giornale.
Sono 364 le pagine che separano la costruzione dei palazzi di “Punta
Perotti” dalla sentenza con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
(CEDU) condanna l’Italia a un risarcimento danni milionario, in favore delle
imprese costruttrici, scrive Corato Live. In “Assolti e Confiscati”, il noto
costruttore barese Michele Matarrese ripercorre le tappe di una querelle
infinita, fra lunghi strascichi giudiziari, inevitabili implicazioni
politiche e giuridiche. Le 364 pagine di “Assolti e Confiscati”, volume a
firma di Michele Matarrese, con cui il noto costruttore barese ripercorre le
tappe di una querelle infinita, fra lunghi strascichi giudiziari,
inevitabili implicazioni politiche e spinose questioni giuridiche. Insomma,
quella cortina di nebbia che ha avvolto i palazzi eretti a sud di Bari nel
’95 e abbattuti nel 2006, meglio noti come “saracinesca” o “eco-mostro”. Il
testo, uscito nello scorso maggio per i tipi de “Il Sole 24 Ore”, è stato
presentato nel pomeriggio di martedì scorso presso il Corato Executive
Center, in un meeting organizzato dal Rotary di Corato, Bisceglie e
Molfetta, con l’Associazione Imprenditori Coratini. Per l’occasione
Matarrese – accompagnato da Marco, uno dei figli, e dal cognato, l’ex
senatore Mario Greco, già governatore del distretto Rotary 2120 – ha
tracciato la “sua” ricostruzione della storia di “Punta Perotti”, fra
chiaroscuri e “perché” irrisolti. Una storia che è anche un pezzo importante
della storia di Bari e dell’Italia. Famosa o famigerata, a seconda dei punti
di vista. Punto nodale del libro la confisca di fabbricati e suoli disposta
dalla Cassazione, nonostante il processo penale si sia concluso con
l’assoluzione di tutti i soggetti coinvolti dalle accuse di abuso edilizio,
assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Per la Cassazione, infatti,
gli imputati sono incorsi in un errore scusabile nell’applicazione della
legge, ciononostante fu disposta la confisca che, per la CEDU, non sarebbe
dovuta seguire all’assoluzione, perché «arbitraria e senza alcuna base
legale». Risultato: violazione del dettato della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo, in due punti, quello che tutela la proprietà privata e
quello per cui nessuna pena può essere irrogata senza una legge che,
previamente, preveda il fatto come reato. E la conseguente condanna
dell’Italia al risarcimento di 49 mln di euro. «Quello che è accaduto non
doveva accadere nella nostra Italia, perché è stato un danno alla
collettività in senso ampio, qualunque siano le valutazioni di ciascuno di
noi», così il presidente dei rotariani coratini, Michelangelo De Benedittis,
nel suo indirizzo di saluto. A rappresentare i Rotary Club che hanno
patrocinato l’iniziativa, oltre al’avvocato De Benedittis, c’erano i suoi
omologhi, molti soci e Michele Loizzo, delegato dell’attuale governatore
distrettuale. Dopo la rituale introduzione rotariana, a stretto giro il
presidente dell’AIC, Franco Squeo, ha stigmatizzato le lungaggini di quella
vicenda, gli innumerevoli organismi e autorità coinvolte, le norme poco
chiare e la scarsa certezza del diritto. «Chi è il colpevole?», si è chiesto
Squeo. Di odissea ha parlato l’autore del libro, «anche se non vorrei essere
un altro Omero», che nel lungo intervento non ha elemosinato strali a
chicchessia, dai magistrati ai politici di ogni dove e colore. «Per scrivere
ho atteso l’esito del ricorso alla Corte di Strasburgo e nel libro ho
scritto molti perché, a cominciare dal perché il Perotti è stato abbattuto
se c’era un ricorso a Strasburgo? Ad alcuni perché ho trovato risposta, per
gli altri ci vuole la volontà politica e giudiziaria di voler andare in
fondo. Finora ho visto solo la volontà di coprire le malefatte», ha
dichiarato Matarrese. Nel suo j’accuse a tutto tondo, Michele Matarrese non
ha risparmiato l’omonimo sindaco di Bari, Emiliano. A detta dell’ingegnere
ci fu una bozza di transazione, inviata il 25 marzo 2005 al Comune, «che io
non volevo firmare manco pazzo, perché troppo onerosa per l’impresa», bozza
di cui «io sto ancora aspettando la risposta». Matarrese, poi, ha svelato
alcuni retroscena che coinvolgerebbero addirittura il Quirinale. I
progettisti del complesso residenziale abbattuto erano in origine gli
architetti Chiaia e Napolitano, il compianto fratello del Presidente della
Repubblica. «In un incontro al Quirinale – ha riferito il costruttore – come
Cavaliere del Lavoro, dissi al Presidente ‘io sono quello del Perotti’, lui
mi strinse il braccio e disse “mio fratello ha sofferto molto”». Fra i
“perché” in attesa di risposta, in cima all’elenco di Matarrese ce n’è uno
che chiamerebbe in causa l’operato della magistratura. «Noi abbiamo iniziato
a costruire nel gennaio ’95, piano per piano, la prima denuncia arriva
nell’aprile del ’96. Non c’è mai stata una iscrizione nel registro degli
indagati, nonostante le verifiche in Procura del nostro legale, e noi
andavamo avanti tranquilli. Fino al 17 marzo del ’97 in cui ci fu
l’iscrizione nel registro degli indagati e l’emanazione dell’ordine di
sequestro. Se la Procura era di fronte al cantiere – si è chiesto
l’imprenditore – e dalle finestre avevano la perfetta visione del cantiere,
perché ci fanno arrivare al 13° piano, dopo due anni, per sequestrare?
Perché?». Nell’elenco bipartisan è la volta dell’ex ministro dell’Economia,
Giulio Tremonti (PdL), «che ha remato contro, quello che ha fatto è
spettacolare» ha chiosato Matarrese fra il serio e il faceto, inanellando
poi una serie di dettagli, fra gli emendamenti presentati da Tremonti e gli
incontri con Gianni Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio. Dalla presentazione del suo “Assolti e Confiscati”, il testo di
Michele Matarrese è apparso come una sorta di diario o reportage sull’annosa
vicenda di Punta Perotti, dal punto di vista dell’imprenditore,
naturalmente. Con la pronuncia della Corte di Strasburgo e il relativo
risarcimento danni dovuto dallo Stato alle imprese edili ricorrenti,
tuttavia, potrebbe non essere calato il sipario sulla “saracinesca”
abbattuta. All’orizzonte si affaccia la possibilità – ventilata da Matarrese
e rigettata dall’attuale Sindaco Emiliano in un recente duello a singolar
tenzone, a colpi di conferenze stampa e lettere aperte – che lo Stato possa
rivalersi sul Comune di Bari. In quel caso, la parola “fine” dovrà attendere
ancora.
Altra storia è quella dei Cavalotti a Palermo, dove per colpire qualcuno
basta brandire l’accusa di mafia e mafiosità. Di loro nessuno ne parla, se
non in modo negativo. Bene. Lo faccio io, Antonio Giangrande. Cerchiamo di
fare chiarezza e facciamo parlare le carte, a scanso di conseguenze
reazionarie da parte di chi si sente defraudato della voce della verità e
della giustizia.
Mafia, assolti a Palermo tre fratelli imprenditori.
I tre fratelli imprenditori, Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti,
sono stati assolti nel pomeriggio del 6 dicembre 2011 dall’accusa di
concorso in associazione mafiosa: la sentenza è della I sezione della Corte
d’appello di Palermo, presieduta da Salvatore Di Vitale, che ha accolto le
tesi dei difensori. I Cavallotti erano stati arrestati nel 1998, nell’ambito
dell’operazione Grande oriente, ed assolti nel 2001. Successivamente, la
Corte d’appello aveva ribaltato la decisione e condannato i Cavallotti a
pene comprese fra quattro anni e quattro anni e due mesi. La Cassazione
aveva poi annullato la sentenza con rinvio, ordinando un nuovo processo. Gli
imputati sono di Belmonte Mezzagno (Pa) e sono titolari della Comest,
un’azienda che si è occupata della metanizzazione di una serie di Comuni
siciliani. L’accusa, basata anche sulla lettura dei pizzini del boss
Bernardo Provenzano, consegnati dal confidente Luigi Ilardo, sosteneva che i
Cavallotti fossero stati complici dei boss e che avessero ottenuto appalti e
commesse grazie al loro essere titolari di un’impresa di mafia. Secondo i
giudici, però, sarebbero stati vittime del racket mafioso.
Diventa definitiva l’assoluzione per tre imprenditori, scrive Riccardo Arena
su “Il Giornale di Sicilia” del 14 maggio 2012. Ora l’assoluzione è
irrevocabile: la Procura generale non ha impugnato la sentenza della Corte
d’appello del 6 dicembre 2011, che è così passata in giudicato. «Assolti
perché il fatto non sussiste». È per questo che i fratelli imprenditori di
Belmonte Mezzagno Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti sono stati
definitivamente assolti dall’accusa di concorso in associazione mafiosa. Per
arrivare al verdetto finale ci sono voluti quattro processi e 13 anni: la
vicenda giudiziaria era iniziata con l’inchiesta «Grande Oriente» del 1998.
A passare in giudicato è stata la decisione della prima sezione della Corte
d’appello. I Cavallotti erano stati assolti già in tribunale nel 2001, ma
poi un’altra sezione della Corte d’appello li aveva condannati a pene
comprese fra 4 anni e 4 anni e 2 mesi. La Cassazione, il 18 dicembre 2004,
aveva annullato con rinvio la sentenza ed era stato celebrato un altro
dibattimento, rallentato anche da una questione risolta dalla Corte
costituzionale, che ha dichiarato illegittime le norme sull’inappellabilità
delle assoluzioni di primo grado. Cinque mesi fa la sentenza finale, nei
giorni scorsi il passaggio in giudicato. Salvatore Vito Cavallotti era
difeso dagli avvocati Franco Inzerillo e Ernesto D’Angelo; Gaetano dagli
avvocati Gioacchino Sbacchi e Franco Coppi; Vincenzo dagli avvocati
Francesca Romana De Vita e Marzia Fragalà, subentrata al padre, Enzo, ucciso
nel febbraio dell’anno scorso. Nei confronti dei Cavallotti rimane però il
sequestro dei beni, su cui la sezione misure di prevenzione del Tribunale,
presieduta da Silvana Saguto, si è riservata la decisione finale: confisca o
restituzione. L’assoluzione nel processo penale è un buon viatico per i
«prevenuti», ma i due procedimenti camminano su piani diversi e hanno
presupposti differenti. Dunque I ‘applicazione di una misura di prevenzione
non può essere automaticamente esclusa, in virtù dell’assoluzione. I
Cavallotti erano titolari della Comest, un’azienda che aveva vinto una serie
di appalti per realizzare impianti di metanizzazione in moltissimi paesi
dell’Isola. Erano imprenditori vittime di estorsioni o «a disposizione» e
complici? Vicini a Provenzano e per questo favoriti, o costretti a
sottostare alle regole mafiose? Ora l’accoglimento delle tesi della difesa e
dunque l’affermazione della totale estraneità degli imputati a Cosa nostra.
Da quanto si denota, sembra chiaro che gli stessi magistrati hanno inteso la
condotta dei Cavallotti come quella di vittime di mafia. Eppure, nonostante
ciò, è lo Stato a far più male a loro.
La sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo il 19 ottobre 2011
ha confiscato il patrimonio dei fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo
Cavallotti, imprenditori di Belmonte Mezzagno, processati e assolti, dopo
alterne vicende giudiziarie, perché ritenuti vicini al boss Bernardo
Provenzano. I beni – le aziende Comest e Imet, diversi immobili aziendali e
personali e autoveicoli -, passati ora al patrimonio dello Stato, ammontano
a oltre 20 milioni di euro. I giudici hanno ritenuto i Cavallotti
”socialmente pericolosi” e hanno applicato loro anche la misura della
sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per due anni. La legge distingue
il procedimento di prevenzione dall’esito del processo penale, quindi la
misura personale e patrimoniale può essere applicata in presenza di indizi
di pericolosità sociale anche se il soggetto è stato assolto.
A chi credere? Angeli o demoni? E poi perché due valutazioni diverse e
contrastanti?
La sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo ha confiscato il
patrimonio dei fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti,
imprenditori di Belmonte Mezzagno, processati e assolti, dopo alterne
vicende giudiziarie, perchè ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano. I
beni – le aziende Comest e Imet, diversi immobili aziendali e personali e
autoveicoli – passati ora al patrimonio dello Stato, ammontano a oltre 20
milioni di euro. I giudici hanno ritenuto i Cavallotti “socialmente
pericolosi” e hanno applicato loro anche la misura della sorveglianza
speciale di pubblica sicurezza per due anni. La legge distingue il
procedimento di prevenzione dall’esito del processo penale, quindi la misura
personale e patrimoniale può essere applicata in presenza di indizi di
pericolosità sociale anche se il soggetto è stato assolto. I Cavallotti
erano stati arrestati nel 1998, nell’ambito dell’operazione Grande oriente,
ed assolti nel 2001. Successivamente, la Corte d’appello aveva ribaltato la
decisione e condannato i Cavallotti a pene comprese fra quattro anni e
quattro anni e due mesi. La Cassazione aveva poi annullato la sentenza con
rinvio, ordinando un nuovo processo. Quindi sono stati assolti nel dicembre
2010 dall’accusa di concorso in associazione mafiosa. L’accusa contro di
loro era basata anche sulla lettura dei ‘pizzini’ del boss Bernardo
Provenzano, consegnati dal confidente Luigi Ilardo, e sosteneva che i
Cavallotti fossero stati complici dei boss e che avessero ottenuto appalti e
commesse grazie al loro essere titolari di un’impresa di mafia. Il giudice
che li scagionò in primo grado invece accolse la tesi difensiva secondo la
quale i tre fratelli sarebbero stati citati nei pizzini di Provenzano perchè
vittime del racket. Mentre nella seconda assoluzione in appello si sostenne
che nei biglietti di Provenzano si parlava genericamente dei Cavallotti e
non era stato possibile accertare le responsabilità individuali.
«Sono soggetti di pericolosità sociale, inseriti nell’ambito
dell’imprenditoria colluso-mafiosa», scrive “La Repubblica” palesemente
giustizialista e faziosa. Il tribunale, sezione misure di prevenzione,
dispone la confisca di beni per 20 milioni e l’obbligo di soggiorno per due
anni nel comune di residenza per i fratelli Salvatore Vito, Vincenzo e
Gaetano Cavallotti, i re del metano di Belmonte Mezzagno. La confisca
riguarda le quote di Comest e Imet, la Eurocostruzioni, la Siciliana Servizi
di Belmonte Mezzagno, auto e diversi appezzamenti di terreni sparsi in
Sicilia.I fratelli di Belmonte sono passati indenni attraverso il processo
Grande Oriente per associazione mafiosa, dopo l’arresto nel 1998, e poi
assolti definitivamente nel 2010 dalla corte d’Appello, decidendo su rinvio
della Cassazione. La loro assoluzione in primo grado, nel 2001, aveva fatto
esplodere la polemica. I Cavallotti vennero giudicati vittime di Cosa nostra
per essere stati costretti a pagare la “messa a posto”. Dopo l’arresto,
invece, erano accusati di avere turbato le gare di mezza Sicilia con minacce
e violenze. Dalle indagini era anche emerso che boss del calibro di
Benedetto Spera e Bernardo Provenzano avrebbero assicurato l’aggiudicazione
dei lavori e l’apertura di cantieri in territori controllati da diverse
famiglie mafiose. Furono anche studiati alcuni pizzini di Provenzano,
consegnati alla Procura dal confidente Luigi Ilardo, in cui il boss si
mostrava interessato alle imprese dei Cavallotti. Dalle dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Angelo Siino i magistrati rilevarono anche che
Vito Cavallotti, dall’86 al ’91, «a Belmonte Mezzagno era personaggio di
rilievo e aveva fatto regolarmente parte dell’accordo provincia pagando
direttamente, aggiudicandosi dei lavori e facendo delle cortesie» Si evince
da quest’articolo che la piega data è fuorviante.
Di taglio diverso, invece è quest’altro articolo. Giusto per dimostrare come
si può influenzare il giudizio del lettore. Confiscati i beni dei
Cavallotti, “Le loro aziende erano al servizio di Cosa nostra”, scrive “La
Gazzetta di Sicilia” il 19 ottobre 2011. Nonostante l’assoluzione dei tre
“prevenuti” nel processo penale, il patrimonio dei fratelli Salvatore Vito,
Gaetano e Vincenzo Cavallotti è stato confiscato dalla sezione misure di
prevenzione del Tribunale di Palermo. Si tratta di imprenditori di Belmonte
Mezzagno, paese a pochi chilometri dal capoluogo dell’Isola: furono
assistiti, all’inizio della loro vicenda penale, da un loro concittadino,
l’avvocato Saverio Romano, attuale ministro delle Politiche agricole.
Passano così allo Stato beni per circa 20 milioni: i giudici hanno ritenuto
i Cavallotti e le loro aziende, la Comest in particolare, al servizio di
Cosa nostra e del boss Bernardo Provenzano. La misura di prevenzione è stata
applicata nonostante l’assoluzione, perché il procedimento ha presupposti
diversi, in particolare la “pericolosità sociale”: e per questo motivo ai
Cavallotti è stata imposta anche la sorveglianza speciale per due anni. I
Cavallotti furono coinvolti, nel 1998, nell’operazione Grande Oriente,
contro i fiancheggiatori dell’allora latitante Provenzano: fu in questo
ambito che venne fuori – secondo le dichiarazioni del colonnello Michele
Riccio – che Provenzano si sarebbe potuto catturare già nel 1995; la
circostanza è oggi oggetto del processo Mori. Gli elementi contro i tre
fratelli furono individuati grazie ai pizzini di Provenzano, consegnati a
Riccio dal confidente Luigi Ilardo, l’uomo che aveva dato indicazioni sulla
presenza del superlatitante a un summit tenuto a Mezzojuso (Palermo) il 31
ottobre di sedici anni fa. Ma il blitz che sarebbe stato sollecitato da
Riccio non venne organizzato dal Ros del generale Mario Mori e del
colonnello Mauro Obinu, oggi entrambi imputati, per questo motivo, di
favoreggiamento aggravato. I Cavallotti in primo grado furono assolti; la
Corte d’appello invece li condannò, con l’accusa di concorso in associazione
mafiosa, e la Cassazione annullò tutto, ordinando un quarto processo,
concluso l’anno scorso con l’assoluzione, non più impugnata dalla Procura
generale di Palermo e dunque divenuta definitiva. La Comest, come la Gas di
cui era socio occulto Vito Ciancimino, si occupò negli anni ’80 e ’90 della
metanizzazione di molti Comuni siciliani. Da imputati i Cavallotti si sono
sempre difesi sostenendo di essere vittime del racket. Ora sono divenuti
“prevenuti” e contro di loro potrebbe giocare il fatto che, al di là
dell’incertezza degli elementi probatori sulla loro responsabilità, l’ultima
sentenza assolutoria ha tenuto conto del fatto che non era possibile
individuare con certezza a quale dei Cavallotti si riferissero i pentiti. Il
collaboratore di giustizia Francesco Campanella, in particolare, aveva fatto
confusione e, nel corso di una “ricognizione personale” fatta nel corso di
un’udienza, in videoconferenza, aveva indicato come personaggio in rapporti
con i boss, sbagliandone il nome di battesimo, un quarto fratello
Cavallotti, in realtà non coinvolto nel processo.
Ma non finisce qui: assolti e confiscati? No, la storia continua. La seconda
parte parla ancora di arresti, sequestri e confische. Per tutta la stampa
avevano costituito una ditta fantasma per occultare 14 milioni di beni e
sottrarli alla confisca e soprattutto rimanere in attività. Con queste
accuse i tre fratelli Cavallotti, i re del metano di Belmonte Mezzagno, sono
stati arrestati per la seconda volta. Considerati vicino al boss Bernardo
Provenzano erano stati processati e assolti su rinvio della Cassazione.
Avevano però subito la confisca dell’azienda e del patrimonio.
Nuovo arresto per i re del metano ditta ombra per sfuggire alle confische,
scrive faziosamente “La Repubblica” il 25 febbraio 2012. Finiscono agli
arresti domiciliari i tre fratelli Vincenzo, Gaetano e Giovanni Cavallotti,
i re del metano di Belmonte Mezzagno. I finanzieri del nucleo di polizia
tributaria della Finanza li hanno raggiunti ieri nelle loro case per
notificargli l’ordinanza emessa dal gip del tribunale di Termini Imerese. Un
provvedimento, quello contro i tre fratelli ritenuti in passato anche vicini
al capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, che ha disposto anche un maxi
sequestro di beni. I sigilli sono stati messi alla società “Enoimpianti
plus” di Milazzo, che si occupa della realizzazione di impianti di
metanizzazione, ma anche a un complesso aziendale. L’ accusa è di
trasferimento fraudolento di valori per 14 milioni di euro. Vincenzo,
Gaetano, Giovanni Cavallotti, di 56, 53 e 47 anni, già nello scorso ottobre
avevano subito una pesante confisca. Il tribunale, sezione misure di
prevenzione, aveva disposto la confisca di beni per 20 milioni e l’ obbligo
di soggiorno per due anni nel comune di residenza peri fratelli. «Sono
soggetti di pericolosità sociale, inseriti nell’ ambito dell’ imprenditoria
colluso-mafiosa», hanno scritto i magistrati. La confisca colpì le quote di
Comest e Imet, la Eurocostruzioni, la Siciliana Servizi di Belmonte
Mezzagno, auto e diversi appezzamenti di terreni sparsi in Sicilia. Le
indagini delle fiamme gialle, adesso, avrebbero accertato che i tre, dopo la
misura di prevenzione e per proseguire la loro attività imprenditoriale
negli stessi settori, hanno provveduto a costituire una nuova società,
questa volta nella provincia di Messina, intestandola fittiziamente a propri
familiari ma gestendola direttamente. Per questo sono stati anche denunciati
cinque parenti dei Cavallotti per concorso nello stesso reato. Si tratta dei
due figli di Vincenzo, dei due figli di Gaetano, e la moglie di Giovanni.
Trai beni sequestrati anche 12 terreni a Milazzo, 16 macchine e 37
autocarri. «Siamo dei perseguitati dalla giustizia», si sono limitati a dire
ai finanzieri i tre fratelli che sono stati raggiunti a Belmonte e in
Campania, dove si trovava Giovanni. I fratelli di Belmonte erano passati
indenni attraverso il processo Grande Oriente per associazione mafiosa, dopo
l’ arresto nel 1998, e poi assolti definitivamente nel 2010 dalla corte d’
Appello, che aveva deciso su rinvio della Cassazione. La loro assoluzione in
primo grado, nel 2001, aveva fatto esplodere la polemica. I Cavallotti
vennero giudicati vittime di Cosa nostra per essere stati costretti a pagare
la “messa a posto”. Dopo l’ arresto, invece, erano accusati di avere turbato
le gare di mezza Sicilia con minacce e violenze. Dalle indagini era anche
emerso che boss del calibro di Benedetto Spera e Bernardo Provenzano
avrebbero assicurato l’ aggiudicazione dei lavori e l’ apertura di cantieri
in territori controllati da diverse famiglie mafiose. Furono anche studiati
alcuni pizzini di Provenzano, consegnati alla Procura dal confidente Luigi
Ilardo, in cui il boss si mostrava interessato alle imprese dei Cavallotti.
Dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino i magistrati
rilevarono anche che Vito Cavallotti, dall’ 86 al ‘ 91, «a Belmonte Mezzagno
era personaggio di rilievo e aveva fatto regolarmente parte dell’ accordo
provincia pagando direttamente, aggiudicandosi dei lavori e facendo delle
cortesie».
Dopo il sequestro, scattano gli arresti per i fratelli Cavallotti, gli
imprenditori palermitani attivi anche in provincia di Messina, in
particolare a Milazzo dove lo scorso 13 gennaio 2012 la Guardia di Finanza
ha messo i sigilli alla Euroimpianti, scrive “Oggi Milazzo” il 24 febbraio
2012. Oggi le fiamme gialle hanno posto sotto sequestro l’intero patrimonio
della famiglia e posto ai domiciliari tre persone e denunciate altre cinque.
Il provvedimento è stato emesso dal gip di Termini Imerese, su richiesta del
sostituto procuratore Francesco Gualtieri. I Cavallotti sono accusati di
trasferimento fraudolento di valori. Le Fiamme gialle, nel corso
dell’operazione, hanno messo i sigilli anche a una società operante nel
settore della realizzazione di impianti di metanizzazione. Nell’ambito dello
stesso provvedimento è scattato il sequestro anche per i beni già sotto
sigilli dal mese scorso. Sotto chiave quindi la Euroimpianti, con sede a
Milazzo specializzata nelle imprese pubbliche per il trasporto di gas, 12
terreni ricadenti nel comune mamertino, 16 autoveicoli e 37 autocarri.
Sottoposta a sequestro patrimoniale anche la Imest, mentre già nell’ottobre
dello scorso anno era stata confiscata la Comest. Si tratta di sigle attive
in tutta la Sicilia, ma anche in Calabria ed Abruzzo, vincitrici di
parecchie commesse pubbliche per la metanizzazione dei comuni. Beni
riconducibili, secondo gli investigatori, ai fratelli Cavallotti di Belmonte
Mezzagno, paese d’origine del politico Saverio Romani. I fratelli Salvatore
Vito, Gaetano e Francesco. Cavallotti sono, secondo gli inquirenti, legati
alla criminalità organizzata facente capo a boss del calibro di Spera e
Provenzano. Arrestati poi prosciolti nell’operazione Grande Oriente del
1998, nell’ottobre 2011 viene loro confiscato il patrimonio da 20 milioni di
euro. Ora il nuovo sequestro: secondo gli investigatori infatti dopo la
confisca avevano avviato nuove imprese, intestate ai figli, che malgrado il
modesto avviamento commerciale riuscivano ad aggiudicarsi importanti
commesse pubbliche pressoché immediatamente. A Milazzo la Euroimpianti ha
partecipato nel 2009 alla gara di ammodernamento della rete del metano,
insieme alla Eurovega dell’orlandino Mangano.
Da notare che a proposito della mafiosità dei Cavallotti vi è sempre una
sentenza definitiva di assoluzione, mentre gli articoli parlano di atti
adottati dai magistrati inquirenti. Negli articoli, altresì, come sempre
sulle notizie di cronaca, manca la voce della difesa.
Altro esempio di cattiva pratica giornalistica è l’articolo che segue: Così
la mafia sbarca a Novara. Per loro: puttana per i pubblici ministeri;
puttana per tutti….e puttana per sempre. Fa niente se si parla di gente
assolta e, comunque, non ancora condannata dai magistrati. Ma da qualcuno
preventivamente condannata …e come!
Il caso dell’impresa dei fratelli Cavallotti: vicini a Provenzano,
lavoravano in città, scritto da Alessandro Barbaglia. Articolo tratto da
Tribuna Novarese. «E adesso dire che siamo un’isola felice in cui la mafia
non riesce ad arrivare sarà quantomeno complesso. E già perché la Euro
Impianti Plus, la ditta di Milazzo che su Novara (e in mezza Italia) nel
settembre 2011 vinse l’appalto per la manutenzione degli impianti
dell’Italgas da gennaio è stata posta in amministrazione giudiziaria per
sequestro antimafia. Ma dove? A Novara di Sicilia? No no, a Novara casa
nostra. Una cosa non da poco visto che agli imprenditori titolari della Euro
Impianti Plus, i fratelli Gaetano e Vincenzo Cavallotti (già processati e
assolti nel 2010 dall’accusa di concorso in associazione mafiosa perché
ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano), la sezione di prevenzione del
tribunale di Palermo ha confiscato complessivamente un patrimonio da 20
milioni di euro. Un sequestro che ha portato l’intera ditta ad essere posta
in amministrazione giudiziaria, organizzata e gestita, per conto dello
Stato, da uno studio legale di Palermo con clamorosi sviluppi che hanno
avuto risvolti anche su Novara. Ma la Euro Impianti Plus dei fratelli
Cavallotti, che cos’è e come arriva a Novara? Costituita nel 2006 dalle
ceneri di altre ditte finite sotto la lente degli investigatori, la Euro
Impianti Plus arriva a Novara nel settembre 2011 quando, come detto, vince
l’appalto di manutenzione di Italgas. I titolari sono i fratelli Cavallotti:
arrestati nel 1998 nell’ambito dell’operazione Grande Oriente con cui venne
colpita la cosca dell’allora latitante Bernardo Provenzano vennero assolti
in primo grado, condannati in secondo per finire rimandati ad altro giudizio
terminato con una seconda assoluzione nel 2010. Un processo strano: i nomi
dei fratelli Cavallotti comparivano oggettivamente sui pizzini di
Provenzano; secondo l’accusa quei pizzini dimostravano che i Cavallotti
erano complici di Provenzano per conto del quale ottenevano commesse e
appalti in Sicilia forti del loro essere titolari di un’impresa di mafia,
secondo il giudice però i Cavallotti venivano citati nei pizzini
genericamente, e senza che se ne potessero accertare responsabilità, al
limite solo in quanto vittime di racket. Fatto sta che nel 2011 i Cavallotti
con la Euro Impianti Plus vincono l’appalto a Novara per la manutenzione
Italgas. Il primo lavoro di grande visibilità di cui devono occuparsi sulla
città è l’allaccio all’Inps per installare una caldaia a metano in viale
Manzoni. Un lavoro grosso: bisogna chiudere un pezzo di viale Manzoni e
modificare la viabilità. Non solo, in contemporanea, analoghi interventi,
dovevano essere fatti dalla Euro Impianti Plus in largo Don Minzoni e via
Gnifetti. Ed è allora, a marzo, che si scopre quello che è successo a
gennaio in Sicilia e che solo oggi è palese anche a Novara: la Euro Impianti
Plus non può eseguire i lavori direttamente, li fa fare a una ditta del
territorio autorizzata e controllata dall’amministrazione giudiziaria che
ha, di fatto, rilevato il Cda della ditta siciliana. Dopo i sequestri di
gennaio e il passaggio dei beni allo Stato le opzioni erano due: far saltare
la Euro Impianti Plus e tutti gli appalti vinti o assumere la guida della
ditta ricollocando i lavori a imprenditori “puliti” che operavano già sui
territori per conto della Euro Impianti Plus. Su Novara l’amministrazione
giudiziaria opta per questa ipotesi e così la ditta che affittava i
capannoni come base per le Euro Impianti Plus a San Pietro Mosezzo, Edil
Penta’s di Carmine Penta, viene vagliata e considerata idonea (dopo consegna
di tutta la documentazione necessaria e di certificazioni antimafia) per
lavorare come ramo sano nel novarese. Ecco perché i lavori in viale Manzoni
proprio dagli uomini della ditta di Penta vennero eseguiti. Ed ecco che si
scopre come una ditta poi finita in amministrazione giudiziaria per
sequestro di antimafia avesse vinto appalti per lavorare a Novara. Le
indagini delle Fiamme Gialle che hanno portato al sequestro della Euro
Impianti Plus nel gennaio scorso sono partite dall’ennesimo, sospetto,
aumento di capitale (il terzo in poco tempo). L’accusa per i titolari è
stata di trasferimento fraudolento di valori. Da lì è scattato il sequestro.
Resta una considerazione: è questa un’altra dimostrazione di come la nostra
città sappia reagire e scovare le ditte in odore di malavita e sostituirle
con altre sane del territorio? No: a Novara nessuno si è accorto di nulla,
né dello sbarco della ditta dei fratelli Cavallotti né della loro
sostituzione dopo il sequestro antimafia. L’intera operazione è stata
gestita da chi, evidentemente, queste dinamiche le ha viste, le forze
dell’ordine siciliane, e ha sentito una forte puzza. Di gas, ovviamente. Ma
a Milazzo cosa dicono? La Euro Impianti Plus conferma tutta la ricostruzione
dei fatti? E’ effettivamente in amministrazione giudiziaria per ragioni di
antimafia? Se si chiamano gli uffici dell’impresa, dei fratelli Cavallotti
si parla senza alcun problema. “Confermo quello che dice lei: la Euro
Impianti Plus è da gennaio in regime di amministrazione giudiziaria per un
sequestro di beni che ha coinvolto il precedente comitato di
amministrazione”. Quello guidato da Vito e Gaetano Cavallotti?
“Esattamente”. Sequestro avvenuto per ragioni di antimafia. “Io sul tema non
posso dire nulla. L’amministrazione giudiziaria ha rinnovato interamente il
Cda di Euro Impianti Plus e il nuovo corso sta lavorando sui territori
tempestivamente e in maniera eccellente”. Sui territori? Perché oltre a
Novara dove opera la “nuova” Euro Impianti plus dell’amministrazione
giudiziaria? “Novara, San Remo, Chiavari, Carrara, Napoli, Caltanissetta ed
Enna”. Tutti appalti vinti dalla “vecchia” Euro Impianti Plus. Insomma,
tutti appalti vinti dai fratelli Cavallotti. “E’ così”. E non è strano? Non
è strano che una ditta che poi finisce sotto sequestro vinca con Italgas
appalti di manutenzione in tutta Italia? “Io non ci vedo nulla di strano,
per vincere quelle gare bisogna rispettare requisiti e consegnare
documentazioni che vengono vagliate attentamente. Evidentemente se quegli
appalti sono stati vinti è perché c’erano i requisiti”. Poi però il
sequestro di gennaio cambia questa prospettiva. “Del sequestro, ripeto, non
sono autorizzato a parlare. Posso dire che l’intervento dell’amministrazione
giudiziaria ha permesso di portare avanti i cantieri in maniera corretta e
tempestiva nonostante le vicende giudiziarie”. Senta, l’appalto di Novara
quanto vale? “Non posso dirglielo, non sono notizie pubbliche”. Cioè,
importo, numero e la durata di validità del contratto sono notizie che non
possiamo avere? “Non sono notizie di dominio pubblico. Posso solo dire che
questi contratti durano, solitamente un paio di anni”. E a Novara sono
iniziati a settembre 2011? “Questo lo dice lei. Diciamo che l’aggiudicazione
è sicuramente recente”.»
Detto questo: da Bari abbiamo iniziato ed a Bari finiamo l’inchiesta. La
Corte di Appello di Bari ha revocato la confisca delle case di proprietà
delle figlie di Antonio di Cosola, il boss barese capo dell’omonimo clan da
alcuni mesi sottoposto al regime del 41 bis. Accogliendo il ricorso proposto
dal difensore delle ragazze, l’avvocato Giuseppe Giulitto, contro la
sentenza emessa dal Tribunale di Bari (sezione misure di prevenzione) nel
gennaio 2012, i giudici del secondo grado hanno ordinato la restituzione dei
beni alle figlie del boss, mai state coinvolte in indagini sulla criminalità
organizzata. Si tratta di due appartamenti in via Regina Margherita a Ceglie
del Campo, alla periferia di Bari. La Corte di Appello ha infatti ritenuto
che una delle due figlie, oggi 30enne, “sia stata sempre estranea al nucleo
famigliare di suo padre”. Soltanto dopo il 2008, quando è stata confiscata
la casa del boss, Antonio Di Cosola con la moglie e un altro figlio hanno
abitato nell’appartamento di proprietà della giovane. L’altra figlia, di 27
anni, con “reddito lecito e dichiarato da lavoro dipendente”, “nel 2006 si è
allontanata dal suo nucleo famigliare e, dopo essere andata ad abitare con i
nonni materni, ha acquistato da costoro (nel 2007, ndr) l’immobile” mediante
un mutuo bancario. “Non si rilevano – concludono i giudici – indizi
sufficienti che possano far ritenere che i beni oggetto di confisca siano in
tutto o in parte frutto di attività illecite e ne costituiscano il
reimpiego». Del resto, osserva la Corte di Appello richiamando sentenze
della Cassazione, “la disciplina delle misure di prevenzione non ha e non
può avere la finalità di sanzionare i terzi, tantomeno retroattivamente”.
Questo a Bari. A Palermo le colpe dei padri, se di colpe si tratta, ricadono
sempre sui figli.
Dr Antonio Giangrande
Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia