Taurianova, l’appello disperato di Sergio Carrozza marito di Ionela Radu affetta da Sla, all’assessore regionale Capponi, “io malato oncologico, ma le scrivo con il cuore in mano per la sofferenza di mia moglie”
Lug 31, 2025 - redazione
Preg.mo Assessore alle Politiche Sociali della Regione Calabria, Dottoressa Caterina Capponi, mi chiamo Sergio Carrozza e sono nato e risiedo a Taurianova, in provincia di Reggio Calabria. Le scrivo con il cuore in mano e, al contempo, con il peso di una sofferenza che non trova più voce né pace, Sono un malato oncologico, colpito da una patologia al pancreas e al fegato tra le più aggressive e dolorose, al punto da richiedere incessanti e stremanti trattamenti chemioterapici. Sebbene la mia condizione sia ormai segnata e in rapida evoluzione, non è per me che ho deciso di scriverle. Questa lettera nasce infatti dal bisogno urgente e disperato di richiamare la sua attenzione su una sofferenza ancora più grande, più silenziosa e più crudele, vale a dire quella riguardante mia moglie, che risponde al nome di Sabina Ionela Radu. Da anni Sabina è intrappolata in un letto, prigioniera di una malattia che — giorno dopo giorno — le ha tolto ogni capacità di movimento, ogni possibilità di comunicare, di respirare senza l’ausilio dei macchinari e di nutrirsi senza l’intervento esterno.
Si tratta della Sclerosi Laterale Amiotrofica, ossia una delle più spietate tra le patologie a carattere neurodegenerativo. La SLA non le sta lasciando scampo: ha spento la voce, ha bloccato le membra, ha compromesso ogni funzione vitale, trasformando la nostra casa in una stanza di ospedale e la nostra vita in un’attesa straziante, logorante e — peggio ancora — consumata nel silenzio dell’abbandono. Giorno e notte — istante dopo istante — mia moglie combatte con la morte. E io, che dovrei esserle accanto con tutte le mie forze, mi trovo indebolito, sfiancato da una malattia che non sembra voglia darmi tregua, costretto a lottare su due fronti: quello del dolore fisico e quello di una battaglia quotidiana contro la più crudele indifferenza. Le chiedo, con la massima umiltà ma anche con la forza della disperazione, di ascoltare questo accorato grido. Non voglio pietà. Voglio solo che mia moglie sia presa in considerazione: che la sua condizione sia finalmente e integralmente riconosciuta. Che qualcuno nelle Istituzioni si faccia carico del suo dolore — e del mio — e ci aiuti a vivere ciò che resta con dignità. Sento di affermare con amarezza e rabbia queste parole, alle quali non posso non aggiungere che l’Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria non può più fingere di ignorare. Essa è, infatti, da tempo pienamente a conoscenza del quadro devastante — peraltro clinicamente documentato e sotto gli occhi di tutti — in cui mia moglie è costretta a sopravvivere. Eppure, a fronte di questa consapevolezza, la stessa ASP, malgrado fosse a conoscenza diretta della nostra situazione, ha avuto il coraggio — oserei definirlo arrogante e disumano — di negare a mia moglie quanto le spetterebbe per diritto e per dignità. Le è stata sì riconosciuta l’idoneità al Fondo per la Non Autosufficienza (FNA) , ma senza alcun rispetto dei tempi di erogazione. Inoltre abbiamo ricevuto oggi, 30 luglio 2025, in seguito a lotte e attese l’accredito di una somma solo parziale, senza alcuna spiegazione. In proposito ho inviato una PEC con gentile richiesta di chiarimenti.
Una scelta di avvilente non riconoscimento che grida scandalo, abbandono e brutalità istituzionale. Una decisione che equivale a voltare violentemente le spalle a una donna condannata all’immobilità, a una persona che non può più parlare per difendersi, che non può più chiedere aiuto con la propria voce e che — di conseguenza viene ignorata, deliberatamente, come se non esistesse. Negare quei fondi non significa soltanto rifiutare un sostegno economico, ma condannare mia moglie a un’agonia quotidiana fatta di mancanza di sollievo, tutele e umanità. Significa, più propriamente, privare Sabina dell’assistenza domiciliare continua di cui ha disperatamente bisogno per continuare a restare in vita. A dispetto di tutto ciò si ha il coraggio di comunicare alla collettività di aver conseguito risultati nell’ambito di importanti provvedimenti riguardanti la questione dei Cargiver familiari, decantando l’iniziativa — a carattere politicamente regionale — con toni enfatici e assurdamente ipocriti. A rendere ancora più insopportabile questa spirale di abbandono vi è un ulteriore e gravissimo fatto: la stessa ASP non ha — ad oggi — autorizzato nemmeno le sedute di logoterapia, regolarmente e opportunamente prescritte dal Prof. Volante. Anche questa è da considerare — senza altro — come una prepotente negazione del diritto costituzionale alla salute. Un disconoscimento consapevole, che pesa come un marchio infame su chi ha il dovere di garantire cure e invece le rifiuta senza riguardo alcuno. Un diritto sacrosanto, calpestato e mortificato con il complice beneplacito della Regione Calabria, che assiste inerte — come spettatore muto e implacabilmente distaccato — al graduale disfacimento di una vita umana.
Mi chiedo, alla luce di quanto detto, quale coscienza può reggere il peso di una simile scelta? Quale mano ha firmato quel diniego, abbandonando insensibilmente una creatura inerme, inchiodata al suo persistente dolore? Questo intollerabile respingimento, concernente la possibilità di usufruire del sostegno economico garantito dai fondi per la non autosufficienza, oggi mi costringe — con dolore e a pari misura vergogna — a fare ciò che mai avrei voluto, cioè licenziare le due collaboratrici domestiche che, con sacrificio e notevole senso del dovere, avevo assunto con la massima regolarità contrattuale per garantire a mia moglie un minimo di assistenza dignitosa. Una decisione, questa, che va definita straziante, non solo perché sottrae a mia moglie il supporto di cui ha assolutamente bisogno, ma anche perché priva come un’ulteriore e insopportabile beffa — del diritto al contributo del premium Care dell’INPS, che com’è noto richiede l’esistenza di contratti attivi per l’erogazione del beneficio. Anche per tale motivazione ci troviamo di fronte a una spirale di ingiustizie che si alimenta da sé, come un meccanismo malvagio che punisce chi tenta di far valere i propri diritti nel rispetto delle regole.
Oggi io non posso più farcela. Oggi, con le esigue forze che mi restano, non grido per me, ma per mia moglie Sabina, perché nessuno — in un Paese che voglia definirsi civile dovrebbe essere lasciato morire così. In silenzio. Da sola. Nell’indifferenza delle Istituzioni. Sento per tutto ciò di avanzare — con tutta la forza della mia disperazione — una richiesta che non può più essere elusa, differita o sepolta nel silenzio della burocrazia: è assolutamente urgente e indispensabile un immediato aumento delle ore di assistenza degli Operatori Socio Assistenziali (OSS), unica ancora di sopravvivenza per mia moglie in una situazione ormai al limite dell’inumanità. Non si tratta di una mera richiesta di natura organizzativa, ma a questo punto di una questione di vita o di morte. Non è più sostenibile lasciare che una malata di SLA — totalmente immobilizzata — affronti le sue giornate senza il necessario supporto umano e sanitario. Pretendo — sì, oggi pretendo, perché non si può più solo supplicare che questo provvedimento sia debitamente raccolto e concretizzato con la massima e assoluta urgenza.
Mi auguro — e con questo appello mi aggrappo a un filo sempre più sottile di fiducia — che questa ennesima richiesta non venga gettata nel girone dell ‘indifferenza, come è già accaduto per le tre precedenti comunicazioni inviate tramite PEC alla Regione Calabria, incredibilmente rimaste tutte senza riscontro alcuno. Quanto ancora dovremo resistere prima che qualcuno si degni di rispondere? Quanto ancora dovrà soffrire mia moglie prima che sia riconosciuto il suo diritto a vivere con un minimo di decoro? Mi chiedo, con una rabbia che non riesco più a contenere, dunque con orrore crescente e senza più alcuna fiducia nell’ascolto delle Istituzioni: si vuole, forse, attendere che mia moglie muoia? Che si spenga lentamente nel suo letto, senza l’assistenza minima che le spetta, consumata dalla patologia e dall’abbandono? Sì, perché a questo punto appare chiaro che l’inerzia, il silenzio e il disinteresse — elevati a strutturale sistema — non sono più semplici omissioni: sono piuttosto una forma di complicità. Una forma malignamente burocratica, volta a creare le condizioni perché accada un vero e proprio omicidio, consumato a colpi di rimpalli, ritardi, PEC ignorate e diritti negati. Non si tratta più solo di inefficienza: si tratta, ancora prima, di una scelta. Una scelta cinica e calcolata, che affida non alla malattia, ma alla bruta indifferenza delle istituzioni il compito di “risolvere il problema”, cioè di far morire mia moglie, affinché la sua voce, la sua presenza, la sua disperata richiesta di aiuto cessino per sempre di essere una scomoda realtà per chi dovrebbe tutelare la sua esistenza. E in questo atroce crimine non si impugna un’arma da fuoco, perché la mano che infligge la morte è fredda, calcolatrice, è quella che sceglie con cinica determinazione di non vedere e di non sentire, di restare immobile, lasciando morire una persona non per caso o errore, ma con la crudele volontà di un abbandono pianificato e spietato.
Preg. ma Dottoressa Caterina Capponi, concludo questa mia accorata lettera ricordando che la dignità — intesa come qualità costitutiva e inviolabile dell’essere umano — è posta dalla nostra Costituzione alla base valoriale della democrazia. E il principio cardine che dovrebbe guidare ogni scelta pubblica, ogni atto amministrativo e dunque ogni forma di assistenza. In questa prospettiva, la persona ammalata, devastata nel corpo ma viva nello spirito — ancor più se fragile e completamente dipendente come mia moglie Sabina — dovrebbe trovare pieno riconoscimento dei propri diritti soggettivi, senza condizioni, senza ritardi e non di meno senza umiliazioni. E invece devo amaramente constatare che, in terra di Calabria, il rispetto per la dignità della sofferenza non solo risulta essere assente, ma è finanche reso subordinato, umiliato e calpestato da un sistema che sembra aver disimparato cosa significhi appartenere alla dimensione umana. Qui, con mia moglie Sabina, la dignità è sacrificata — ogni giorno, ogni ora — sull’altare dell’incuria cronica, della paralisi amministrativa e dell’indifferenza istituzionale. È sepolta sotto cumuli di carte, affondata nei meandri della burocrazia più ottusa, più lenta e dunque più inumana. E tradita da ogni funzionario che rimanda, da ogni ufficio che tace, da ogni protocollo che si fa scudo per non vedere. E come — in definitiva — se il dolore non avesse alcun valore. Come se la sofferenza — pur evidente, pur certificata, pur gridata — non fosse abbastanza per meritare ascolto, rispetto e i dovuti e consequenziali interventi. E un insulto all’essere umano, una ferita alla coscienza collettiva, una vergogna che nessuna giustificazione potrà mai coprire. Eppure, nonostante l’umiliazione, la fatica, il dolore e il senso di abbandono che ormai ci sovrasta, voglio ancora sperare. Detto in altre parole, voglio credere che ci sia da qualche parte la volontà concreta di ascoltare questo grido e di agire. Voglio confidare — con quel che mi resta del senso della fiducia — in un suo intervento rapido e umanamente risolutivo. Lo devo a mia moglie. Lo devo alla sua sofferenza muta, alla sua esistenza che resiste oltre ogni limite. Con rispetto, ma con estrema urgenza, le affido queste parole come si affida un ultimo appello prima che sia troppo tardi. Un appello il cui contenuto mi sembra doveroso rendere partecipe anche agli organi di stampa.
Taurianova, 30 luglio 2025
Sergio Carrozza