Inclusione senza vetrine: Reggio Calabria e il coraggio di dire ciò che manca davvero
Dic 05, 2025 - redazione
Brain Mredicine
di Giuseppe Foti, educatore psichiatrico
la pubblicazione di questo pezzo arriva all’indomani della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità. Una ricorrenza importante, certo, ma che negli ultimi anni rischia di essere sempre più una vetrina: tanti slogan, tante foto, tanti eventi ben confezionati, e troppo poco lavoro concreto sul campo. Reggio Calabria non fa eccezione, e proprio per questo è necessario dirlo con onesta – senza accuse gratuite, ma senza nascondere ciò che non funziona.
Negli ultimi mesi la città parla molto di inclusione. E l’autismo, finalmente, ha ricevuto un’attenzione che per troppo tempo è mancata. È una conquista. Ma quando un tema diventa improvvisamente centrale, il rischio è che la narrazione superi la sostanza: si finisce per correre dietro all’onda mediatica, senza consolidare una comprensione reale della fragilità. E altre condizioni – motorie, psichiche, sensoriali, cognitive – restano sullo sfondo, quasi fossero meno “presentabili” o meno capaci di attirare consenso.
Non si tratta di fare classifiche del dolore. Si tratta di ricordare che la disabilità è un insieme di vite, non un’etichetta unica da esibire nei giorni dedicati.
Premi, progetti e convegni: la distanza tra la carta e la città.
Il recente premio conferito al progetto ASP-Comune sul Welfare è un esempio perfetto di questa distanza. Nessuna polemica contro l’impegno delle persone coinvolte, che c’è e va riconosciuto. Ma una cosa è certa: la carta non cura. Un progetto, per quanto scritto bene, non rimuove una barriera architettonica, non garantisce un servizio quotidiano funzionante, non cambia linguaggio discriminante che ancora ritroviamo nella scuola, nei corridoi degli uffici, perfino al bar.
La realtà urbana parla chiaro: marciapiedi impraticabili, servizi discontinui, spazi pubblichi ancora pensati per “chi ce la fa”, più che per chiunque. Nel frattempo, convegni e tavole rotonde si moltiplicano. Alcune utili, altre rischiano di diventare celebrazioni dell’ego istituzionale: “siamo attenti”, “siamo sensibili”, “siamo presenti”. Ma l’inclusione non si misura in quante sedie si riempiono a un evento. Si mistura in quante persone riescono a uscire di casa, muoversi, lavorare e vivere senza dipendere da qualcuno.
L’inclusione lavorativa non basta se non cambia lo sguardo della città.
Negli ultimi anni si è investito molto sull’inserimento lavorativo delle persone fragili. È un passo importante, fondamentale. Ma se non si lavora anche sulla testa delle persone, quella conquista rimane fragile.
Puoi accompagnare una persona verso l’autonomia, puoi costruire un percorso professionale serio, puoi fornire gli strumenti per muoversi nel mondo del lavoro… ma se il contesto continua a leggere la fragilità con una lente paternalistica, quella persona verrà vista prima come “disabile” e solo dopo come individuo.
L’indulgenza non è rispetto.
La pietà non è inclusione.
E l’autonomia non è un regalo: è un diritto.
Ecco perché il lavoro più urgente non è solo urbanistico o amministrativo: è culturale. Bisogna cambiare linguaggio – nelle scuole, nei media, nei servizi pubblici. Bisogna educare i più giovani a un paradigma diverso, non più assistenziale ma paritario. Bisogna smettere di trattare la fragilità come un problema da gestire e iniziare a vederla come parte della comunità.
L’inclusione reale sarà raggiunta quando la presenza di una persona fragile in un luogo di lavoro, a scuola o in un ufficio pubblico non richiederà spiegazioni, non susciterà stupore, non verrà caricata di significati speciali. Quando smetteremo di usare l’etichetta prima del nome.
Competenza e contraddittorio: i due pilastri dimenticati.
Parlare di disabilità richiede competenza. Non solo tecnica – quella è necessaria ma insufficiente – bensì cultura, etica, relazionale. Chi lavora in questo campo deve comprendere non solo la condizione, ma la persona, la famiglia, la rete sociale, il modo in cui la città facilita o ostacola.
Allo stesso modo, le politiche funzionano solo se accettano il contraddittorio. Un dibattito senza confronto reale è una scenografia. Se si vuole costruire qualcosa di serio, bisogna ascoltare chi vive la fragilità, chi la affronta ogni giorno nei servizi, chi la conosce per esperienza e non solo per formazione. Senza domande critiche e senza la possibilità di dire “questo non funziona”, nessun progetto è credibile.
Reggio Calabria: il momento di scegliere che città vuole essere.
Queste riflessioni non nascono per oscurare, ma per stimolare un salto di qualità. Reggio Calabria ha un capitale umano enorme: famiglie che non mollano, associazioni radicate, professionisti preparati, cittadini che sanno vedere oltre la retorica. Ma tutto questo rischia di restare disperso se la città continua a confondere l’inclusione con la rappresentazione dell’inclusione.
La sfida è semplice da enunciare e difficile da realizzare: passare dalle vetrine alla sostanza.
Meno annunci, più risultati.
Meno eventi, più processi continui.
Meno retorica delle fragilità, più politiche che riconoscono la persona.
La diversità è una ricchezza, non un ornamento da mostrare a dicembre. Se la città saprà accettare questa verità senza difese, allora potrà davvero iniziare un percorso serio di inclusione. Altrimenti resterà intrappolata nella solita narrativa: grandi parole, poca realtà.
La scelta, oggi, è tutta lì.



