Editoriale di Antonio Giangrande
Toghe rosa
Editoriale di Antonio Giangrande
“TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo
processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti
quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla
franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma
quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby,
colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i
suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo,
Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il
finanziatore.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è
stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella
che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si
sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro
di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da
giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le
ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre,
Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di
avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza
di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura
perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I
giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti
alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa
compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo
stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo
per violazione delle indagini difensive. Il collegio presieduto da Anna
Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da
sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale
formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D’Elia e dal presidente
Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al
pm le carte per valutare l’eventuale falsa testimonianza per le
dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che
hanno sfilato davanti alla corte. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua
sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato
l’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter
Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort
portate alle feste dell’ex premier.
Dici donna e dici danno, anzi, “condanno”.
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la
Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati
e tutti i suoi testimoni?
Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto
anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1. Anna Maria Gatto si ricorda
per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le
confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il
giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma:
“Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”.
“Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai
presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La
teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto,
presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose,
condannò in primo grado a 2 anni l’ex ministro Aldo Brancher per
ricettazione e appropriazione indebita, nell’ambito di uno stralcio
dell’inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi. Manuela
Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in
primo grado a tre anni di reclusione l’ex ministro della Sanità Girolamo
Sirchia. Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione
Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed
Daki, il marocchino che era stato assolto dall’accusa di terrorismo
internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi e
trasmesso gli atti per far condannare i suoi testimoni??
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e
la D’Elia che già lo aveva processato per la Sme. Giulia Turri, Carmen
D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato
la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo
il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche
qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più
ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di
“comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di
femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su
twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse”
soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole
“quasi più brutte della Bindi”. Per qualcuno il problema non è tanto che si
trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero
intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”,
sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di
genere della condanna.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale
dall’ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell’apertura
del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere
Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due
condanne, una all’ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò
l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona, e nel
novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l’ex consulente Fininvest e
deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti
come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010:
l’arresto di cinque persone coinvolte nell’inchiesta su un presunto giro di
tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle
discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune
delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e
gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna
a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex
primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della
clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica
confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della
prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D’Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere:
nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che
vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la
posizione del premier venne stralciata – per lui ci fu un procedimento
autonomo – insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003
pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti
e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico.
Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di
Milano.
Donna è anche Ida Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: “Ruby è furba di quella
furbizia orientale propria della sua origine”. «E’ una giovane di furbizia
orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come
obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il
sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il
lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di
andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo – ha
proseguito la Boccassini – ha accomunato la minore “con le ragazze che sono
qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi:
extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree,
persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo
nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la
europarlamentare Rossi. In queste serate – afferma il pm – si colloca anche
il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il
presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori,
denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero
Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia
Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva. Patrizia
Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha
corretto il tiro rispetto alla decisione del Ma anche Giusi Fasano per
“Corriere della Sera” ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola.
Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell’esercito
«avversario» finora non l’ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice,
mi occupo di reati…» è la sua filosofia.
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i
testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po’ vedere, no, come
imposteranno…potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni
tra il presidente della Corte d’assise di Taranto, Rina Trunfio, e il
giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è
stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare
l’udienza». Il presidente della corte, tra l’altro, afferma: «Certo vorrei
sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono
coordinati tra loro e se si daranno l’uno addosso all’altro»; il giudice a
latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è
che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice,
il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che
rappresentavano l’accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo
(trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l’assoluzione
del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di
reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo
del loro ufficio segnalando l’amicizia che legava il giudice De Felice alla
sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. La procura di
Lecce ha aperto un’inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre
scorso, ha condannato l’ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno
di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il
procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari,
Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una
richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli
atti alla procura. L’indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime
accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo
aveva condannato. Secondo l’ex ministro il presidente di sezione Luigi
Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero
imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel
mezzo della campagna elettorale. “Si è aperta in maniera ufficiale un’azione
da parte della magistratura barese – aveva detto Fitto – che è entrata a
piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c’era bisogno di fare questa
sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla
consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino – aveva attaccato
Fitto – perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così
clamoroso. Ci sono dei processi – aveva spiegato per i quali gli stessi
componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni
differenti con tre udienze all’anno, salvo dichiarare la prescrizione di
quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio
di avere tre udienze a settimana”. Il riferimento era al processo sulla
missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che
invece aveva avuto tempi molto più lunghi, proprio perché toccava imputati
di sinistra.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da
Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da
questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice
criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La
Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad
un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come
nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato
l’avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. La Romano ha
condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa
testimonianza per la sua testimone.
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito
evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia
posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a
giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile».
Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la
mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini
diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il
lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia
esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione
ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella
Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella
Magistratura Italiana.
L’ammissione delle donne all’esercizio delle funzioni giurisdizionali in
Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come
è noto, l’art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne
all’esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva
espressamente dall’esercizio della giurisdizione. L’art. 8 dell’ordinamento
giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni
giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile
ed iscritto al P.N.F.”. Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea
Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace
ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la
figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si
sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella
funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on.
Cappi); che ” soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot
riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare”
(on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende
affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla
funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e
della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi
della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni
dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione
illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da
ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far
sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua
femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura,
dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che
solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più
corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne
poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali
era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto
richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare.
Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della
partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo
all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono
accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i
requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al
legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per
l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio
dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle
donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu
permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la
precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità
costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che
ben poteva la legge ” tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi,
delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso,
purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza
giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore
della Carta fondamentale perchè il Parlamento – peraltro direttamente
sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che
aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge
n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici
pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche –
approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che
consentì l’ accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi
pubblici, compresa la magistratura. Dall’entrata in vigore della
Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario,
con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state
indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito
il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro
risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo
della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine
giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una
media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno
al 10% -20%” dopo gli anni ’70, al 30% – 40% negli anni ’80 e registrare
un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo
ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788,
per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno
maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso
in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente,
tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso
pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere;
esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle
studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli
uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne
magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile,
almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice
all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema
declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa
imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per
ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per
intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva
loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili
il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i
tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività
professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una
assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata
da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità
complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio,
delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale
di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo
coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere
giornalisti.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3,
che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian
Antonio Stella per “Sette – Corriere della Sera”.
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini
professionali: cosa pensi dell’idea di Grillo di abolire solo quello dei
giornalisti?
«Mi fa un po’ sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non
meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l’utilità dell’Ordine dei
giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un’associazione
seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per
aver dato un esame…».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po’ tu. L’ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di
giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero
cos’era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio…
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il
Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C’era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto
la tesina… Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l’Abruzzo e
io lavorando il tempo non l’avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c’è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a
memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta
per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche
senza essere professionista».
Dr Antonio Giangrande
Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia