Image Image Image Image Image Image Image Image Image Image

TAURIANOVA (RC), DOMENICA 08 DICEMBRE 2024

Torna su

Torna su

 
 

Senza la mafia, cosa sarebbe l’antimafia? Falcone diceva: “Segui i soldi e troverai la Mafia”. Ora avrebbe detto: “Fai Antimafia e troverai i soldi...”

Senza la mafia, cosa sarebbe l’antimafia? Falcone diceva: “Segui i soldi e troverai la Mafia”.  Ora avrebbe detto: “Fai Antimafia e troverai i soldi...”
Testo-
Testo+
Commenta
Stampa

Le storture di un sistema sinistroide che si inventa l’espropriazione proletaria
illegittima di beni privati ed il foraggiamento statale di Onlus per mantenere amici
e parenti, nascondendosi dietro la demagogia della legalità.

Lunga intervista-inchiesta al dr Antonio Giangrande per capire in esclusiva con verità
indicibili cosa si nasconda dentro un apparato di sistema e dietro la liturgia delle
ricorrenze. Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger,
youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, autore controcorrente
che sull’argomento ha scritto “Mafiopoli. L’Italia delle Mafie”; “Massoneriopoli.
Mafia e Massoneria”; “Castopoli. Mafia, Caste e Lobbies”; “Usuropoli e Fallimentopoli;
ed infine “La Mafia dell’Antimafia.”.

Dr. Antonio Giangrande lei su quali basi può essere ritenuto un fine conoscitore
della materia?

«Anni di studi, approfondimenti e ricerche per guardare il risvolto nascosto della
medaglia. Per questo posso dire che la parola antimafia è lo specchio per gli allocchi,
per subornare gli ingenui per fare proselitismo politico e speculazione economica.
La Mafia siamo noi, se non accondiscendenti con il potere, mentre l’Antimafia è
solo lo Stato (Sic!). L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche
e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste.
La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che
abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi
mai nulla cambierà».

Dr Antonio Giangrande, le scuole non la invitano, in quanto il motto “La mafia siamo
noi” non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati
e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa
per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Come se lo spiega?

«In un mondo dove sono tutti ciottiani e savianiani per convenienza, pronti a spartirsi
il ricavato, mi onoro di essere il solo ad essere sciasciano e come lui processato
dai gendarmi dell’antimafiosità».

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde
il malaffare. In virtù degli scandali, gli Italiani dalla memoria corta, periodicamente
scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà
ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato
che vi lucrano. Cosa ha da dire?

«Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato
citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate
dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola
ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero
la verità, capirebbero che, se ottenessero quello che chiedono, nessuno rimarrebbe
dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei
inneggianti».

La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra comunista per
espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine
di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare e queste manifestazioni
pseudo antimafia, non è che sono propaganda per non far cessare il sostentamento?

«E’ difficile cambiare la situazione, tenuto conto degli interessi in campo. “I
nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati”. Lo ha detto
Maria Falcone in un’intervista a Soul, il programma-intervista di Tv2000, condotto
da Monica Mondo. E dietro la coperta giudiziaria c’è la speculazione. Libera.
Gli attivisti dell’associazione creata da Don Ciotti promuovono il riuso sociale
dei beni confiscati alla mafia. Alcuni di loro gestiscono in prima persona aziende
agricole e agriturismi nati su terreni che un tempo erano nelle mani dei più potenti
boss di Cosa nostra».

Come si diventa associazione antimafia?

«Scrive Federica Angeli l’8 settembre 2014 su “La Repubblica”, Ma chi si nasconde
dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non
ci sia l’ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per
avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo.
Per aprire un “club” antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione
di un’associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle
attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un
semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che
stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d’associazione
presso l’ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all’albo
regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni
e all’anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione
sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso
la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono
iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c’è solo Libera,
il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale.
Infine, le fondazioni: una volta redatto l’atto costitutivo e depositato da un notaio
lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano
a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio
circoscritto. Sull’ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente
dell’Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza
della gestione di alcune fondazioni: “La maggior parte delle attività politiche
si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle
fondazioni che dovrebbero essere trasparenti”. Scandagliando i registri di Regioni,
Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801
sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell’Agenzia delle entrate e hanno
fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre
2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto,
legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro
paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di
tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale “416bis” o “41bis”. Poi
ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all’ombra di quelle grandi
e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti
all’associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati),
oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto
in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime
di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei
vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti
“contro tutte le mafie”».

Prendono e non dichiarano. Quanto è grande quest’arcipelago dei No Profit antimafia?

«Non profit: i tanti Don Ciotti che battono la Mafia Spa, scrive Marco Crescenzi
l’1 settembre 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. Il settore non profit è più forte
economicamente e “fattura” più delle Mafie (leggi l’accurata trattazione e
le fonti citate da Mario Centorrino e Pietro David in Il fatturato di Mafia Spa,
Lavoce.info, ilfattoquotidiano.it. Vedi anche Bankitalia 2012), con un volume di
entrate stimato di 67 miliardi di euro con un’incidenza del 4,3% sul Pil (2012),
simile a quello agricolo e in deciso aumento rispetto ai dati Istat del 2001 che
attestavano tale cifra a 38 miliardi. Una economia “civile” e partecipativa,
con una occupazione in aumento negli ultimi 20 anni che impiega stabilmente oltre
1 milione di persone – superiore al 3% degli occupati in Italia, prevalentemente
giovani, prevalentemente donne, al nord come al sud. Dati ancor più significativi
se accompagnati da una quantificazione del risparmio sociale derivante dalle ore
di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai quattro milioni di volontari. Il
non profit è quindi un potente motore culturale e di economia civile. E’ sul territorio,
può controllare il territorio. In ogni caso, come diceva Falcone: “Gli uomini passano,
le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle
gambe di altri uomini”. Già camminare…Pensi che per farvi fare i cento passi che
separavano la casa di Peppino Impastato all’abitazione del suo carnefice, l’antimafia
si fa pagare 60 euro. 60 centesimi a passo…In questo modo Falcone e Borsellino
si rivolterebbero nella tomba e questo ti fa rimanere l’amaro in bocca.».

L’amaro in bocca?

«Sì. Perché c’è in atto un accanimento mediatico/politico atto ad instillare
nei ragazzi delle scuole la convinzione che l’antimafia di sinistra è portatrice
di verità e legalità e chi non è antimafioso come loro, allora si è mafiosi.
E tutta questa propaganda è sostenuta dai contribuenti italiani».

Lei che conosce tutto il materiale probatorio, spieghi come fa la lotta politica
a speculare sul fenomeno mafioso.

«Sin dalla morte di Falcone e Borsellino si è tentato di tenere fede ai loro insegnamenti:
segui i soldi…troverai la mafia. Il fatto è che proprio l’ingordigia dei soldi
ha fatto degenerare i buoni intenti. E si sono inventati tutti i tipi di sistemi
per fare cassa, dietro il paravento della lotta alla mafia.

Costituzione delle ONLUS. Tante scatole cinesi vuote che però fanno capo ad associazioni
di rilevo sostenuti da media e sinistra. Mafia onlus, scrive Barbara Di su “Il
Giornale” il 16 maggio 2017. La mafia va dove c’è ampio margine di guadagno.
Da sempre hanno un fiuto per gli affari impareggiabile. Che sia droga, prostituzione,
usura, scommesse o pizzo, quando c’è da guadagnare tanto loro non mancano mai.
D’altronde sono ambiti dove l’evasione fiscale è inevitabile e sistematica per
cui il guadagno è triplo rispetto ai tartassati italiani. Non puoi mica far fattura
per la cocaina. Ma di certo sono decenni che non si accontentano delle loro attività
illecite tradizionali e spaziano dove possono trovare guadagni facili con la minima
spesa. E guarda caso ci sta sempre di mezzo il denaro pubblico.

Le Onlus e la speculazione sui migranti. Migranti: le Ong tra volontariato e business.
Quali sono le differenze e i compiti delle non governative, come si distinguono dalle
“sorellastre” governative e da quelle criminali, scrive Nadia Francalacci il 4 maggio
2017 su “Panorama”. Le parole di Zuccaro all’Antimafia. Il 9 maggio 2017 Zuccaro,
procuratore di Catania, è stato convocato in Commissione Antimafia. “È sbagliato
ritenere che la mafia operi dovunque, perché così rischiamo di aumentare l’aurea
di onnipotenza”, ha detto. “Non ritengo ci siano rapporti diretti tra le organizzazioni
criminali che controllano il traffico di migranti e le nostre mafie locali”, ma “c’è
una massa di denaro destinata all’accoglienza che attira gli interessi delle organizzazioni
mafiose e dico questo sulla base di risultanze investigative”. Appunto. Mafia Capitale,
Buzzi: “Con immigrati si fanno molti più soldi che con la droga”. Uno dei settori
in cui la “cupola” era più influente era quello delle politiche sociali: Luca Odevaine,
membro del Tavolo di coordinamento nazionale sull’immigrazione, al telefono spiega:
“Avendo questa relazione continua con il Ministero, sono in grado un po’ di orientare
i flussi”. Il braccio destro di Carminati: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli
immigrati?” Scrive Marco Pasciuti il 2 dicembre 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. I
clandestini? Valgono 20 milioni. Succede a Isola Capo Rizzuto, dove c’è il centro
d’accoglienza più grande d’Italia. Ora ha 1500 posti, con la ripresa estiva degli
sbarchi diventeranno 2000. Aumentando il business che gira intorno ai migranti, scrive
Gianfrancesco Turano l’11 aprile 2013 su “L’Espresso”. Cantone e migranti: nei Cara
bandi costruiti per escludere concorrenza. Il presidente dell’autorità anti corruzione
in commissione racconta anni di lavoro, situazioni in cui false onlus create da pregiudicati
ospitavano migranti in cantine. Considerare l’accoglienza un’emergenza è ridicolo,
è questione di organizzazione”, scrive Caterina Pasolini il 18 maggio 2017 su “La
Repubblica”. “Quello per il Cara di Mineo “ci sembrò un bando costruito per escludere
la concorrenza”, era “il classico bando costruito su misura”, addirittura “mancava
soltanto che indicassero anche il nome del vincitore” e “quando sollevammo i dubbi
ci fu un vero e proprio fuoco di sbarramento contro il nostro provvedimento, che
fu oggetto anche di attacchi in alcune audizioni parlamentari. Valuteremo l’ipotesi
di commissariamento del Cara di Crotone”. Lo ha detto il presidente dell’Autorità
nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone, in audizione presso la commissione parlamentare
di inchiesta sul Sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione. “Attualmente
il bando è ancora commissariato, non ce n’è uno nuovo”, ha aggiunto facendo un
quadro della situazione nazionale, passando da realtà regionali che hanno visto
coinvolti appalti, situazioni mafiose, sfruttamento di lavoratori, organizzazioni
del terzo settore. E ripete come ci sia bisogno di fare appalti divisi per capitoli
per evitare situazioni “patologiche” e la necessità di controlli “. Parla con puntualità,
del lavoro fatto dall’Autorità anti corruzione. Racconta delle ispezioni al Cara
di Catania che ancora prima di Mafia Capitale avevano evidenziato “che il settore
servizi sociali, medaglia di quel volontariato così forte in Italia, era stato macchiato
da interessi. ‘Ndrangheta, assalto ai fondi Ue e all’affare migranti; 68 arresti.
Coinvolti un sacerdote e il capo della Misericordia. Operazione della Dda di Catanzaro
contro il clan Arena che controllava il Cara più grande d’Europa. Le accuse: associazione
mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegali di armi, malversazione ai danni
dello Stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture. Al sacerdote 132 mila
euro in un anno per “assistenza spirituale”, scrivono Alessia Candito e Fabio Tonacci
il 15 maggio 2017 su “La Repubblica”. Don Scordio, da eroe antimafia alle manette.
Il prete simbolo della lotta ai clan prendeva 132mila euro per assistere i migranti,
scrive Andrea Cuomo, Martedì 16/05/2017, su “Il Giornale”. Quando Gratteri elogiava
don Scordio, scrive Stefano Arduini il 16/05/2017, su “Vita”. Il magistrato che ha
lanciato l’operazione Jonny contro il clan Arena che controllava il Cara di Crotone
nell’ottobre del 2013 dava alle stampe un libro sui rapporti fra chiesa e ‘ndrangheta
nel quale fra i religiosi citati come esempi positivi compariva don Edoardo Scordio
oggi fermato e accusato di crimini gravissimi insieme all’ex governatore della Misericordia
di Isola Capo Rizzuto.

La gestione dei beni confiscati. Beni che spesso sono stati illegittimamente sottoposti
a confisca e mai restituiti. Libera, da gestione dei beni confiscati a finanziamenti
alle coop, ecco tutti i fronti della guerra interna all’Antimafia. L’attacco del
pm anticamorra Catello Maresca all’associazione fondata da Don Ciotti è solo l’ultimo
capitolo di una lunga querelle. Al centro della polemica c’è la torta da 30 miliardi
dei beni sequestrati alle associazioni criminali: l’accusa di Maresca, che ricalca
quella del prefetto Giuseppe Caruso, è che vengono amministrati dalla galassia legata
a Libera “in regime di monopolio”, scrive Giuseppe Pipitone il 19 gennaio 2016 su
“Il Fatto Quotidiano”. L’ultimo attacco è arrivato da Catello Maresca, stimato
pm anticamorra, che ha accusato Libera di aver acquisito “interessi di natura economica”.
“Gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa
antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”, è stato
il j’accuse del magistrato, che ha ricevuto a sua volta la promessa di una querela
da parte di don Luigi Ciotti. Due mesi prima l’associazione guidata dal sacerdote
torinese era invece finita sotto il fuoco incrociato delle polemiche dopo l’addio
di Franco La Torre, il figlio di Pio, il senatore del Pci assassinato da Cosa nostra,
ideatore della legge che introduce la confisca dei beni ai boss mafiosi. “Mi hanno
cacciato con un sms, don Luigi è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario”,
aveva detto La Torre, lamentando una carenza di democrazia dentro Libera, dove “qualcosa
non va nella catena di montaggio”. Sono solo gli ultimi due fronti aperti intorno
all’associazione fondata nel 1995 dal leader del Gruppo Abele, ma sono anche gli
ultimi due episodi di una violenta guerra intestina esplosa nel mondo dell’Antimafia.
Il casus belli? 30 miliardi di beni confiscati a Cosa nostra – Prima ci sono state
le querelle tra la stessa Libera e il Movimento 5 Stelle per la questione della spiaggia
di Ostia, le dimissioni da direttore dell’associazione di Enrico Fontana a causa
di un incontro con due politici finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale, le indagini
che hanno colpito alcuni tra i principali presunti frontman delle legalità tra magistrati
e imprenditori e una torta da trenta miliardi di euro che sembra essere diventata
il vero casus belli della faida a colpi di accuse e veleni che ha travolto la galassia
dell’antimafia. A tanto ammonta il valore che hanno oggi i beni sequestrati dallo
Stato alle associazioni criminali: un vero e proprio tesoro, che immesso nel mondo
delle coop e delle associazioni antimafia sembra averlo corroso dall’interno. Appena
un anno fa, il ministro Angelino Alfano aveva nominato Antonello Montante tra membri
del comitato direttivo dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che gestisce
10.500 immobili, più di 4.000 beni mobili e circa 1.500 aziende. Poi dopo essere
finito indagato per concorso esterno a Cosa nostra, il numero uno di Confindustria
Sicilia si è autosospeso dalla carica. Ed è proprio all’interno dell’Agenzia
dei beni confiscati che si consuma il primo strappo sul fronte della lotta a Cosa
nostra: è il 5 febbraio del 2014 e il prefetto Giuseppe Caruso, all’epoca al vertice
dell’Agenzia, viene ascoltato dalla commissione Antimafia. E in quella sede ribadisce
le sue accuse agli uomini d’oro, e cioè gli amministratori giudiziari, sempre
gli stessi, nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati in cambio di parcelle
a sei zeri. “Queste sono affermazioni gravi. Se non sono sue, signor prefetto,
lei deve fare una smentita ufficiale molto seria e vedersela con il giornale e con
i giornalisti”, lo redarguì la presidente di San Macuto Rosi Bindi, accusandolo
di delegittimare le istituzioni con le sue affermazioni. La rivincita per Caruso
arriverà solo un anno e mezzo dopo, quando l’inchiesta della procura di Caltanissetta
su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale
di Palermo, svela l’effettiva esistenza di un cerchio magico fatto di favori e
prebende all’ombra dei beni confiscati ai boss. In quei giorni era stato lo stesso
Luigi Ciotti a lanciare l’allarme: “L’antimafia – aveva detto – è ormai
una carta d’ identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo
quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Adesso, invece, è
proprio Libera ad essere finita al centro delle polemiche, con la Bindi che anche
in questo caso ha difeso a spada tratta il sacerdote torinese, definendo “ingiuriose”
le parole di Maresca. Una è l’accusa principale che viene rivolta a Libera: essersi
trasformata da associazione nata per guidare la riscossa della gente perbene contro
Cosa nostra a holding che gestisce bilanci milionari, progetti, incarichi, finanziamenti.
E in effetti, basta dare uno sguardo ai numeri per rendersi conto che oggi Libera
è molto cresciuta: a vent’anni dalla sua fondazione, è ormai una galassia che
raccoglie oltre 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai
boss e ha un fatturato che supera i 5 milioni di euro all’anno. “È stata un’importante
associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un
ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in
maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo
pericolosa”, è uno dei tanti passaggi della discussa intervista del pm Maresca».

Ma è la mancanza di fondi economici per operare a far sì che l’antimafia tende
a delinquere per sostenersi? Cosa si inventa l’apparato di sinistra per sostenere
l’antimafia per speculare economicamente e politicamente sulla mafia?

«L’antimafia è un pozzo senza fondo dove la politica di sinistra arraffa a mani
basse. Pioggia di milioni sull’antimafia. Non sono i valori morali che li spingono,
ma quelli monetari. Ed i migranti sono uno strumento per arraffare ancora di più.
Antimafia s.p.a. Gli espedienti di approvvigionamento economico sono: I Pon Sicurezza,
la gestione dei beni confiscati, i finanziamenti alle Coop, i finanziamenti privati
e pubblici, il 5Xmille. Così la legalità è diventata un business. Centinaia di
migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni.
Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”.
La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici,
scrivono Lidia Baratta e Luca Rinaldi il 13 Maggio 2016 su “L’Inkiesta”. I più
gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia
intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie
un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono
magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo,
e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo
Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni
e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati
e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello
di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale
del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a
sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo.
Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti,
attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli,
tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione
delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle
associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi. In nome dei progetti antimafia
si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto
alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e
comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare
a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand. «Spesso
si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un
profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a
qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare
per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi»,
ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante
una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e
comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create
un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete
delle graduatorie degli insegnanti precari… Mi si dice che per far questo c’è
bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è
etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata
uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia».
Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno,
finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania,
Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della
legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti
e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”.
A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei
paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio
per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale
sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati
nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377
milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra
il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”.
Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel
2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno
precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle
richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale.
Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine
di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari».
Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi
il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro.
Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre
56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni. Ma anche i processi per
mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte
civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno
per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo
nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale”
di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket
italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto,
al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a
casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività
che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare
se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito
in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio
contro le mafie”. Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa
del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio
Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza
passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l’ufficio legale, si legge sempre
nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari
delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Il problema, però, è che
in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà
a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio),
e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime
di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare
soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti.
Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla
lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia
Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era
arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta
alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali)
in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere
per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare
i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo
paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale
avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze.
Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei
soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto».
Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere
che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare
scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie
attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio
che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa». Ma non
è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese
di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione
Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il
2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi
soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per
il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono
finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore
Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere
con cui sono stati elargiti i soldi pubblici. Lo scorso febbraio, poi, il Corriere
della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti,
nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere
salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua
auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione
promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro.
Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti
di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli
e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto
poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta
e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente
ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare
i bilanci, l’associazione non ha risposto. Anche la Corte dei conti più di una
volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza.
Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione,
definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo
di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre.
Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei
soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto».
L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto
di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a
molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato
di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo
cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati
alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare
le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico
di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero
della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione,
da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione
dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia
se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio.
Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali,
ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una
nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli
uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino
canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo
che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde,
proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato
alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati
rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano
pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa
antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati.
In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia. Per non parlare
dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle
misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare
gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato,
per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40
e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe
attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli
al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra
l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo
degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009
e di fatto mai entrato a regime. Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato
Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro»,
affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito. Fino a qualche
tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno
grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano
a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli
per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo
dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta
al crimine organizzato, in toga e non. Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio
di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni
dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano
coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex
paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa,
e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms».
«Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora»,
specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma
il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è
mai arrivato. A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca.
In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla
gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore
lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in
atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna».
D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia
fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte
le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro,
e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate.
La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione
parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia:
«Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che
non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo
difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015
ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della
Dda partenopea. E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia
circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare
convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche.
E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono
accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano
Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti
della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta
studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le
associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia».
Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella
sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti
associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di
svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti,
alle famiglie malavitose»».

Vediamo per favore le voci d’incasso. Una per una?

«I PON SCUOLA. Punto forte del proselitismo antimafioso di sistema. Il regime elargisce
fondi per far parlare, nelle aule ai ragazzi ingenui, oratori omologati e conformati.
L’antimafiosità non si può permettere di inculcare nei giovani la verità sullo
stato delle cose e farli evolvere nel futuro. Per gli “onesti” di sinistra bisogna
crescere automi, affinchè ideologie vetuste siano sempre contemporanee. Quanto costa
la scuola d’antimafia. I finanziamenti del ministero, scrive Salvo Toscano Giovedì
16 Giugno 2016 su Live Sicilia. Follow the money, diceva Gola Profonda in Tutti gli
uomini del Presidente. Segui i soldi, una lezione che i grandi investigatori in prima
linea contro la mafia fecero propria tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta,
per infliggere colpi durissimi ai boss. Oggi, quasi per un beffardo contrappasso,
il tema del “seguire i soldi” torna d’attualità, tra le polemiche, quando si
parla d’antimafia. Soldi, tanti soldi piovuti su un sottobosco variopinto che sotto
diverse forme ha beneficiato di un ingente flusso di denaro pubblico. Stanziato di
certo con le migliori intenzioni. Un tema, quello della “antimafia spa”, di cui
s’è parlato non solo nei commenti e negli editoriali che predicano il ritorno all’antimafia
“scalza” (la definizione è di Claudio Fava), ma anche nelle sedi istituzionali.
La commissione Antimafia dell’Ars, ad esempio, ha avviato un’indagine sui contributi
statali, regionali ed europei incassati dalle associazioni antiracket e antiusura
in questi anni per capirne meglio l’utilizzo. Un’indagine “per verificare i contributi
pubblici percepiti, il fatturato delle aziende confiscate gestite e l’utilizzo dei
fondi del Pon sicurezza” che è ancora alle prime battute, spiega il presidente
Nello Musumeci. Ma anche l’Antimafia nazionale ha affrontato il tema. La commissione
parlamentare presieduta da Rosy Bindi da tempo ha avviato una serie di audizioni
per scandagliare il variegato mondo dell’antimafia. Tra le altre audizioni quella
del giornalista Attilio Bolzoni, che, sentito dai commissari di San Macuto, dopo
essersi a lungo soffermato sulla Confindustria siciliana analizzando criticamente
la sua svolta “legalitaria”, ha allargato il discorso al “mondo associativo
e all’antimafia sociale”, che “sopravvive fra liturgie e litanie e soprattutto
grazie a un fiume di denaro – diceva Bolzoni ai commissari –. Tutto ciò che
conquista lo status di antimafia certificata si trasforma in milioni o in decine
di milioni di euro, in finanziamenti considerevoli a federazioni antiracket, in uno
spargimento di risorse economiche senza precedenti e nel più assoluto arbitrio”.
Lo “spargimento di risorse economiche” passa, spiegava il giornalista, anzitutto
dai Pon, i Programmi Operativi Nazionali di sicurezza del Ministero dell’interno.
E poi dal Ministero dell’istruzione, che, ha “distribuito milioni e forse anche
decine di milioni a scuola e che poi smistava quelle somme ad associazioni sul territorio
sulla base di legami e patti”, diceva Bolzoni. Proprio quell’audizione ha spinto
il Ministero dell’Istruzione a rispondere con una dettagliata missiva inviata alla
Commissione Antimafia dal direttore generale Giovanna Boda, in cui veniva descritta
nel dettaglio l’attività di sostegno economico a iniziative per diffondere la cultura
della legalità nelle scuole. Tanta roba, più di quattro milioni all’anno. Destinati
a iniziative di grande respiro come le commemorazioni del 23 maggio ma anche a piccoli
progetti portati avanti dalle scuole. Somme che sono però poca cosa rispetto alle
più ingenti risorse gestite con analoghe finalità dal ministero dell’Interno, tra
le quali, appunto, quelle del Pon Legalità che per la programmazione 2014-2020 ha
una dotazione di 377 milioni. Insomma, tra Roma e Palermo l’Antimafia istituzionale
vuole vederci chiaro sull’ombra del business che si è affacciata sull’antimafia
dei movimenti, una galassia che in questi anni è cresciuta a dismisura, assumendo
in certi casi le sembianze della holding, dell’ufficio di collocamento o magari della
claque per l’icona del momento. La prima puntata del viaggio nel mondo del denaro
destinato all’antimafia parte quindi proprio dal Ministero dell’Istruzione, che sul
tema offre tempestivamente informazioni precise e molto dettagliate. E utili a evitare
generalizzazioni. I soldi alle scuole. In totale per l’anno scolastico appena concluso
il Ministero della Pubblica Istruzione ha stanziato più di quattro milioni. Di questi,
3,4 milioni sono stati erogati attraverso un bando pubblico per il finanziamento
di 1.139 progetti educativi sul tema della promozione della cittadinanza attiva e
della legalità realizzati su tutto il territorio nazionale. La media degli stanziamenti
quindi è di circa 3mila euro per progetto. L’anno precedente per questa stessa voce
c’era ancora di più: 4 milioni e 200mila euro. La parte del leone la fanno le scuole
siciliane che quest’anno si sono accaparrate più del 16 per cento delle risorse
disponibili (seconda la Campania). I soldi vanno alle scuole che a loro volta li
utilizzano per le attività finalizzate a diffondere la cultura della legalità,
che magari coinvolgono vari attori del territorio – è qui che possono entrare
in scena varie associazioni antimafia, antiracket e via discorrendo –, sotto il
monitoraggio e il controllo del Miur. I progetti sono i più svariati e riguardano
argomenti legati alla promozione della legalità con il coinvolgimento degli studenti.
Le stesse scuole possono attingere a loro volta, oltre che ai fondi del Miur, anche
a finanziamenti di altri ministeri (come il Viminale) o regionali o degli enti locali
(per quelli che ancora hanno qualche spicciolo da spendere). I bandi. A questi 3
milioni e mezzo si aggiungevano nel 2015 altri 840mila euro che attingono a un altro
capitolo di bilancio. Di questi, 100 mila euro hanno finanziato un altro bando pubblico
per sostenere attività in accordo con associazioni impegnate sul campo dell’educazione
alla legalità in tutta Italia, assegnando a ciascuna delle realtà selezionate piccoli
stanziamenti compresi tra i quattro e i settemila euro. Tra i beneficiari le fondazioni
Rocco Chinnici e La Città Invisibile (7.200 euro per creare un’orchestra che coinvolge
i bambini delle aree a rischio dell’hinterland catanese), l’Auser di Augusta e l’Acmos
(7.470 euro per attivare laboratori didattici sul gioco d’azzardo all’interno di
beni confiscati). I restanti 740 mila euro di questa voce (“Spese per iniziative
finalizzate a promuovere la partecipazione delle famiglie e degli alunni alla vita
scolastica. Spese per il sostegno del volontariato sociale”) vanno alle attività
di interesse nazionale organizzate dalla Fondazione Falcone (490mila euro) e Associazione
Libera (250). Queste le cifre del 2015, quest’anno il contributo alla Fondazione
Falcone è sceso a 400mila euro e quello a Libera a 150mila euro. I protocolli d’intesa.
Le somme impegnate dal ministero per le attività realizzate insieme a Fondazione
Falcone e Libera (740mila euro nel 2015, 550mila nel 2016) sono stanziate in base
alle convenzioni che danno attuazione ai protocolli d’intesa sottoscritto dal Miur
con questi due soggetti. La convenzione con Libera, l’associazione fondata da don
Luigi Ciotti, finanzia la Giornata della Memoria delle vittime delle mafie, che si
celebra ogni anno in una città diversa il 21 marzo con partecipazioni da tutta Italia
e la presenza di migliaia di studenti. I fondi per la Fondazione Falcone finanziano
le iniziative del 23 maggio e gli altri eventi analoghi organizzati per tenere viva
la memoria del magistrato ucciso a Capaci (quest’anno oltre a Palermo erano coinvolte
altre sei “piazze” in Italia). “Facile dunque comprendere che non si tratta
di generose elargizioni a favore di Associazioni che non hanno alcun obbligo di rendicontazione”,
ha scritto al riguardo il Ministero alla Commissione Antimafia. “Come vengono dunque
spesi i soldi? Per assicurare l’organizzazione, la sicurezza, il ristoro di tutti
i partecipanti – si legge nel documento del Miur –. Se si calcola quindi circa
20.000 partecipanti (per il 23 maggio, ndr) lo stanziamento prevede un costo persona
pari a circa 25 euro (analogo il costo per persona per l’iniziativa di Libera, ndr)
che devono coprire rimborsi spese, pranzo e merenda, allestimenti stand, palchi,
sicurezza, stampe, eccetera”. Le manifestazioni del 23 maggio hanno coinvolto negli
anni decine di migliaia di studenti italiani avvicinando generazioni alla conoscenza
dei valori incarnati da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Abbiamo cercato di
portare avanti un movimento culturale che coinvolga tutti i giovani d’Italia –
spiega Maria Falcone, sorella di Giovanni e da sempre anima della Fondazione – per
portare avanti i valori nei quali hanno creduto Giovanni, Francesca, Paolo. Ai ragazzi
il messaggio della legalità arriva più forte grazie all’accostamento di queste
figure. E il ministero ha sempre creduto in questo lavoro, a prescindere dal colore
politico”. E lo stesso ministero ricorda nel documento sopra citato come Falcone
e Borsellino si fossero espressi sulla sfida “culturale” che la mafia impone
alla società. Le altre attività nelle scuole. Il ministero della Pubblica Istruzione,
inoltre, realizza altre attività per diffondere la cultura della legalità nelle
scuole in forza di convenzioni sottoscritte con vari soggetti, dal Csm all’Autorità
Anticorruzione, dalla Federazione Nazionale della Stampa all’Anm. Sulla base di queste
carte d’intenti, gli esperti dei partner del ministero vanno gratuitamente nelle
scuole per parlare agli studenti di legalità. Anche le convenzioni possono avere
dei costi: il Miur nella sua lettera all’antimafia allega a titolo d’esempio la convenzione
con l’Università di Pisa per la realizzazione di un “piccolo Atlante della Corruzione”,
progetto che ha un costo di 35mila euro.

I PON SICUREZZA. La pioggia di milioni sull’Antimafia. Ecco i fondi del Pon Sicurezza,
scrive Domenica 17 Luglio 2016 Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Seconda puntata del
viaggio sui finanziamenti destinati all’antimafia. La fetta più grossa è quella
gestita dal ministero dell’Interno. Una valanga di soldi. Che innaffiano il prato
sempre verde dell’antimafia. Un campo diventato ricco negli ultimi anni. Grazie a
diverse fonti di finanziamento. Tra le quali spiccano le ingenti risorse del Pon
sicurezza gestito dal ministero dell’Interno. Che in questi anni ha finanziato con
quelle somme, oltre a diversi interventi per potenziare la sicurezza del territorio,
anche, indirettamente, la galassia dell’antimafia organizzata, quella dell’associazionismo.
Con le ingenti risorse del Pon, infatti, oltre a campetti da calcio e piscine, si
sono finanziate iniziative legate all’utilizzo dei beni confiscati, vini, cartoni
animati, botteghe della legalità, fiere. Un mese fa avevamo intrapreso il viaggio
nel vasto mondo dei soldi dell’antimafia partendo da quelli erogati dal ministero
dell’Istruzione. La seconda puntata si affaccia ora su risorse ben più cospicue.
Quelle, saldamente nelle mani del ministero dell’Interno guidato da Angelino Alfano,
del Programma Operativo Nazionale per la Sicurezza. Per il quale è in rampa di lancio
la nuova programmazione settennale. Per questa nuova tornata in ballo ci sono 377
milioni di euro. A tanto ammonta la dotazione del Pon Legalità 2014/2020, che è
stato presentato nel marzo scorso. Un tesoro che sarà gestito dal Viminale. Così
come quello ancora più cospicuo della precedente programmazione. Ottenere informazioni
dal ministero dell’Interno sul tema non è stato facile. Sono state necessarie un
paio di email, altrettante telefonate e una lunga attesa per riuscire a sapere, alla
fine, dall’ufficio stampa che le informazioni sul Pon si possono trovare sul sito
Internet del Pon (sicurezzasud.it). Punto. Un flusso di informazioni menofluido rispetto
al ministero dell’Istruzione che ha messo tempestivamente a disposizione di Livesicilia
in tempi stretti tutti i dettagli delle somme stanziate per le iniziative su legalità
e antimafia che coinvolgono gli studenti (leggi l’inchiesta). Per le ben più abbondanti
somme gestite dagli Interni, che hanno distribuito a soggetti istituzionali una pioggia
di finanziamenti destinati anche al variegato universo delle sigle “legalitarie”
e antimafia, bisogna quindi districarsi tra i tanti documenti pubblicati sul ricco
sito Internet del Pon Legalità 2007-2013. Il programma ha portato in dote per Calabria,
Campania, Puglia, Sicilia addirittura 852 milioni, tra fondi europei e nazionali.
L’ultimo rapporto annuale di esecuzione pubblicato è quello relativo al 2013. Al
31 dicembre di quell’anno il totale delle spese ammissibili certificate sostenute
dai beneficiari del Programma, che sono tutti soggetti istituzionali, ammontava a
poco meno di 500 milioni, che corrispondono al 58% della dotazione finanziaria complessiva.
Gli ultimi rilevamenti della scorsa primavera, scriveva a marzo il Sole24Ore, davano
gli impegni di spesa all’86,3 per cento, un po’ indietro rispetto alla media dei
fondi strutturali. I fondi sono destinati a finanziare una serie di voci legate alla
legalità, tra cui anche quelle che mirano a tutelare la sicurezza dei cittadini
o quelle che puntano a “realizzare iniziative in materia di impatto migratorio”
(ad esempio a Ragusa a marzo di quest’anno sono partite le attività all’interno
del Centro Polifunzionale d’informazione e servizi per migranti finanziato dal
Pon con un importo di 1.950.000 euro) o ancora quelle rivolte ai giovani per diffondere
la cultura legalità. Per questa voce, ad esempio, è stato varato negli scorsi anni
un programma specifico rivolto alla Sicilia con un milione e mezzo a disposizione,
che ha finanziato tra l’altro il progetto “In campo per la legalità” per creare
un cento di aggregazione giovanile a Catania (oltre 800mila euro l’investimento),
due centri analoghi sui Nebrodi a Torrenova e San Fratello (nel locale che ospita
la biblioteca intitolata al nonno di Bettino Craxi), la manutenzione straordinaria
di un campo polifunzionale e della piscina comunale di Racalmuto (372mila euro, l’impianto
non è ancora entrato in attività) e nello stesso comune dell’Agrigentino la “valorizzazione
e ampliamento della capacità ricettiva del teatro comunale “Regina Margherita” (intervento
effettuato ma il teatro ancora non funziona perché mancano una serie di misure sulla
sicurezza della struttura). Tra le attività realizzate nel 2012 il rapporto mette
in evidenza la partecipazione ai campi estivi nei beni confiscati di Libera, la partecipazione
al Prix Italia, la partecipazione con uno stand alle celebrazioni del 23 maggio a
Palermo. Sempre nel 2012 è stato finanziato con poco meno di 100mila euro un progetto
per dare vita a un centro di aggregazione giovanile a Lentini (Siracusa) per contrastare
fenomeni di dipendenza. Tra i beneficiari istituzionali dei finanziamenti c’è l’Ufficio
del Commissario straordinario antiusura ed antiracket, che sostiene la galassia di
associazioni antipizzo proliferate negli ultimi anni in giro per l’Italia. Sul sito
del Viminale l’ufficio del Commissario antiracket ne accredita 120, e quasi la metà
ha sede in Sicilia. Una per esempio ha visto la luce nel 2014 a Castelvetrano, in
provincia di Trapani, nel paese d’origine di Matteo Messina Denaro. Un battesimo
sostenuto dal Pon attingendo alle ricchissime risorse messe a disposizione per questo
genere di iniziative. Nel giorno del battesimo dell’associazione di Castelvetrano
ne nasceva un’altra a Ragusa e pochi mesi prima ne erano sorte altre due, a Vittoria
e Niscemi. Per il solo progetto “Consumo critico antiracket: diffusione e consolidamento
di un circuito di economia fondato sulla legalità e lo sviluppo” c’è un tesoretto
da un milione e mezzo: beneficiario è l’Ufficio del Commissario straordinario
del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura in partenariato
con l’associazione Addiopizzo. È attingendo a questi fondi ad esempio che si finanzia
la Fiera del consumo critico di Palermo. Ma gli interventi finanziati nell’ambito
del Pon spaziano da quelle relative al vino prodotto sui beni confiscati e gestiti
da Libera Terra alla coproduzione di un cartoon sulla vita di Padre Puglisi. E ancora
al riutilizzo dei beni confiscati. Come quello nel centro storico di Corleone un
tempo appartenente alla famiglia Provenzano in cui nel 2010 è stata inaugurata la
Bottega della Legalità, dove commerciare i prodotti delle cooperative che lavorano
nei terreni confiscati alla mafia. Per l’inaugurazione si fecero vedere a Corleone
i ministri Alfano e Maroni, vertici delle forze dell’ordine, sottosegretari e l’immancabile
Don Ciotti. Ora si apre la stagione dei nuovi fondi. La prima dopo la crisi d’immagine
dell’antimafia organizzata, che proprio sull’utilizzo dei ricchi fondi di cui ha
beneficiato ha collezionato pagine imbarazzanti. Tanto da attrarre su di sè l’attenzione
delle commissioni Antimafia di Roma e Palermo.

Hanno il monopolio e dettano legge. Le ultime parole famose. Parla il leader della
Fai: “La normativa per costituirle non va bene”. Il Commissario straordinario: “Alcune
non ci convincono. C’è chi ci marcia”. Antiracket, rischi truffe per le associazioni.
Grasso: “I controlli sono insufficienti”, scrive Francesco Viviano l’1 novembre 2007
su “La Repubblica”. “Alcune associazioni antiracket non ci convincono molto e sono
sotto osservazione”. La traduzione di questa affermazione, fatta dal Prefetto Raffaele
Lauro, Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative
antiracket ed antiusura, è che attorno ad alcune di queste associazioni “c’è chi
ci marcia”. Perché il business è davvero grosso. Basti pensare che tra gennaio
ed agosto scorso il Commissario straordinario antiracket ha erogato 17 milioni e
431 mila euro per le vittime dell’usura e del racket. Ma c’è un altro dato che fa
riflettere. Sempre da gennaio ad agosto scorso, più della metà delle domande presentate
da “vittime” del racket e dell’usura, sono state respinte. Su 214 richieste, 111
hanno avuto risposta negativa. Non solo ma alcune associazioni antiracket sono nel
mirino delle magistratura. Un esempio per tutti, quella di Caltanissetta il cui presidente,
Mario Rino Biancheri si è dovuto dimettere per un ammanco di 100 mila euro dalle
casse dell’associazione. E la Procura ha avviato un’indagine indagando Mario Rino
Biancheri. Il boss Antonino Rotolo, per esempio, nelle conversazioni intercettate
dalla polizia, suggeriva ad un estorto di iscriversi all’antiracket così non avrebbe
avuto problemi.

Tano Grasso, che sta succedendo dentro e fuori le associazioni antiracket? I fondi
fanno gola a molti e qualcuno ci specula sopra. E’ così?

“Il punto è che è inadeguata la normativa per il riconoscimento delle associazioni;
oggi la norma prevede che cinque o sei persone si mettono assieme e fanno un’associazione
purché non abbiano precedenti penali e chiedono il riconoscimento in prefettura”.

Qual è il ruolo delle associazioni e quali “vantaggi” hanno?

“Nel sud Italia sono 80, complessivamente circa 200 e chi ottiene il riconoscimento
viene iscritto nell’albo prefettizio e questo consente di accedere a dei fondi per
iniziative e progetti. Però il problema è che l’associazione antiracket è una
cosa delicatissima perché è una struttura che dovrebbe gestire la speranza e la
sicurezza delle persone perché sono nate per garantire la sicurezza. Tutti quelli
che hanno denunciato non hanno mai subito un atto di rappresaglia”.

Ma, come teme il prefetto Lauro, c’è qualcosa che non va in alcune associazioni?

“Ripeto, la norma per la loro costituzione è assolutamente inadeguata, non basta
un controllo formale sui requisiti personali, un’associazione ha senso solo se tu
muovi le denunce, li accompagni dalle forze dell’Ordine e li assisti in tribunale”.

Invece?

“Io posso parlare per quelle che aderiscono alla Fai (Federazione Antiracket Italiane)
di altre non so anche se ho sentito dire che alcune associazioni, almeno fino ad
ora, si occupano di fare convegni ed altre attività… Bisogna vedere cosa fanno
le associazioni, quante costituzioni di parte civile hanno fatto, quante persone
hanno fatto denunciare. Sono elementi di valutazione importantissime”.

Ci sono associazioni che fanno pagare un po’ troppo l’iscrizione agli associati,
alle vittime del racket, alcune anche 400 euro.

“Le associazioni che aderiscono alla Fai sono composte tutte di volontari e le nostre
fanno pagare quote veramente minime, dai 10 ai 30 euro ma tutti i servizi sono gratis
e molte nostre associazioni non navigano certo nell’oro. La Fai, per esempio, ha
un bilancio di 5-6 mila euro l’anno”.

Il rischio della truffa c’è? Ci sono vittime od associazioni che non sono del tutto
trasparenti? Il numero delle richieste di risarcimento da parte di presunte vittime
che è stato respinto dal Commissario per l’Antiracket è superiore di quelle accolte.
Questo lascia pensare che non tutto è perfettamente in regola.

“Il rischio della truffa potrebbe esserci ma il controllo, e lo dimostrano appunto
le richieste di risarcimento respinte, è minimo”.

Ma la realtà è un’altra. Palermo, un audio scuote i 5 stelle: “Forello dettava
legge sui soldi di Addiopizzo”. Un ex socio del comitato racconta a Nuti e ad altri
deputati di parcelle e affari. La registrazione finisce sul web. L’ira del candidato:
“Solo falsità”, scrivono Emanuele Lauria e Claudio Reale l’8 maggio 2017 su “La
Repubblica”. Un audio di trenta minuti che mette in circolo nuovi veleni nella campagna
elettorale dei 5 stelle. Viene rilanciato da alcuni profili Twitter, finisce su YouTube,
riaffiora in un numero imprecisato di punti dell’universo del web. Dentro, ci sono
accuse pesanti nei confronti del candidato sindaco Ugo Forello e del suo modo di
gestire Addiopizzo, l’associazione da lui presieduta sino all’anno scorso. C’è
il racconto della vita di una delle organizzazioni antimafia più attive, fatto da
un insider, da un ex socio fuoriuscito con altre 18 persone nel 2009. A parlare è
Andrea Cottone, attuale componente dello staff della comunicazione di M5S alla Camera.
E attorno a lui, in una stanza di Montecitorio, ci sono Riccardo Nuti e i deputati
palermitani a lui vicini. Siamo nel luglio del 2016, i cosiddetti “monaci” sono
già in allarme per la possibile candidatura di Forello. E chiedono a Cottone dettagli
(e documenti) sull’attività dell’avvocato leader di Addiopizzo. Il giornalista
è puntiglioso. Parla dell’influenza che, nella fase iniziale, sul movimento avrebbe
esercitato l’ex commissario antiracket Tano Grasso (“Un fantasma che muove tutte
queste persone”), parla soprattutto dei compensi che Forello e un paio di legali
a lui vicini avrebbero percepito nei processi innescati dalle testimonianze degli
imprenditori taglieggiati. Parla di “un circuito meraviglioso” per il quale “si convincono
gli imprenditori a denunciare, si portano in questura e gli avvocati diventano automaticamente
uno fra Forello e Salvatore Caradonna”. Poi Addiopizzo si costituisce parte civile
“e viene difesa da quell’altro”. Poi come parte civile i vertici dell’associazione
chiedono i rimborsi “e se li liquidano loro stessi”. “Geniale”, commenta la deputata
Chiara Di Benedetto. Gli altri deputati annuiscono, mostrano di trovare conferma
ai loro sospetti. Al centro di quello che sembra una specie di interrogatorio di
Cottone da parte dei parlamentari finisce anche la gestione definita “poco trasparente”
dei fondi (un milione di euro) del Pon Sicurezza. E quel presunto conflitto di interessi
degli esponenti di Addiopizzo, presenti sia nel comitato del ministero degli Interni
che gestisce il fondo per i risarcimenti agli imprenditori estorti sia appunto nei
collegi difensivi degli imprenditori stessi: una doppia presenza che era già stata
avvistata in commissione antimafia nel 2014 e che farà poco più avanti parte di
una denuncia pubblica del deputato Francesco D’Uva. “Nessuno ha pensato di denunciare
queste cose? Perché Addiopizzo non si può toccare”, dice Giulia Di Vita. Il clima,
fra i “nutiani” è di insofferenza crescente. E diventa rovente con la considerazione
che gli esponenti di Addiopizzo avevano nel frattempo invaso M5S: “Noi rappresentiamo
un involucro da riempire”, commenta Nuti. E quasi con sorpresa, durante il dibattito,
i deputati “scoprono” di avere molti rappresentanti di Addiopizzo nei propri
staff. “È un fatto molto grave”, ancora Nuti. “Siamo stati scalati”, fa notare Cottone.
L’ex capogruppo si mostra preoccupato per il fatto che, di lì a poco, l’assemblea
dei grillini palermitani avrebbe scelto Forello o uno del suo gruppo come candidato
sindaco. Ecco l’invito a Grillo a intervenire per bloccare l’assemblea e procedere
invece con il voto online. La situazione sarebbe esplosa in autunno, con il caso
delle firme false, l’inchiesta e le sospensioni di Nuti, Di Vita e Claudia Mannino.
La campagna elettorale di M5S è partita con un movimento spaccato. Ora, qualcuno,
ha messo in rete l’audio che imbarazza Forello e il suo gruppo. Chi l’ha registrato?
Chi l’ha diffuso? La seconda domanda ha una risposta: fra coloro che l’hanno
pubblicato c’è Alessandro Ventimiglia, iscritto al meet-up “Il Grillo di Palermo”,
storica roccaforte dei “monaci”. Ieri la notizia della registrazione aleggiava
sull’iniziativa di Forello per lanciare i candidati nelle circoscrizioni. A margine
della kermesse, il candidato sindaco sbotta: «Un mucchio di falsità». Valerio
D’Antoni, uno degli avvocati di Addiopizzo, entra più nel merito: “Pur avendo
ottenuto il riconoscimento del risarcimento, Addiopizzo non ha mai incassato un euro.
È stata riconosciuta solo la compensazione delle spese legali, stabilita dalle sentenze”.
Solo bugie, insinuazioni, mascariamenti? Di certo per i 5 stelle è un’altra grana
in piena campagna elettorale.

Antiracket, i conti non tornano, scrive Arnaldo Capezzuto il 19 gennaio 2014 su “Il
Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per
gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione
di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote
per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri
studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni.
Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e
proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per
non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come
sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime
incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici
e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto
nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa
giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate
e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non
si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è
nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è
come dire Italia.

Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero
i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica
alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I
giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono,
interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni
quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni.
Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze
ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia”
come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente
in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte
dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici
partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo
i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina
Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia.
Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo
Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo
del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket
e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente
capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra
– secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà
operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il
sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico
non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un
illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti
sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S.
Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività
contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura,
alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate
a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi
e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare
e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente –
la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato
per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica
certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola
di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.

Corte dei Conti di Napoli indaga sull’assegnazione «arbitraria» di fondi Ue ad
associazioni antiracket. Presunte violazioni nel trasferimento di circa 13,5 milioni
a favore di poche associazioni antiracket che sembrano aver ricevuto i fondi senza
un bando pubblico. Alcune delle associazioni escluse avevano già denunciato in una
lettera alla Cancellieri la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo,
scrive Angela Camuso il 14 gennaio 2014 su “Il Corriere della Sera”. Un nuovo
scandalo investe i professionisti dell’Antimafia. Dopo i casi clamorosi di Rosy
Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia
che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi
pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici
contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della
legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati
da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo
Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli
ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles
solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008
con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora
sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket
Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex
Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità
di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il
prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad
oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania
Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare
i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre
associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” – risulterebbero
avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse
ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un
bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il
solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia
i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977
euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle
Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni
ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente
autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria
Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a
Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo
di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria
infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano
le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare,
prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso
la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni
diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione
dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari,
secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero
e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza
di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in
termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte
delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal
solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe
in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni
principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni
“La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera
al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro
il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni
casi di nomine politiche ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere
dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse
elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket
Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…”
insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive
polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa
locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti
sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni
che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti
sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti
in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto
illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore
delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque
funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

Lecce, truffa sui fondi per le vittime: presa la presidente di un’associazione antiracket
Maria Antonietta Gualtieri. Arrestato un funzionario comunale. Trentadue le persone
indagate: fra loro c’è anche l’assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi.
Al setaccio una convenzione del 2012 con il Viminale, scrive Chiara Spagnolo il 12
maggio 2017 su “La Repubblica”. Una bufera giudiziaria si abbatte sull’amministrazione
comunale di Lecce nel giorno in cui si avvia la presentazione delle liste elettorali
per le elezioni dell’11 giugno. Un’inchiesta della guardia di finanza su presunti
illeciti in alcune attività dello Sportello antiracket ha portato all’arresto della
presidente dell’associazione, Maria Antonietta Gualtieri, e di un funzionario dell’ufficio
Patrimonio del Comune di Lecce, Pasquale Gorgoni (già coinvolto nell’inchiesta sulle
assegnazioni delle case popolari). Le ipotesi di reato – contestate nell’ordinanza
di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo su richiesta dei sostituti procuratori
Massimiliano Carducci e Roberta Licci – sono corruzione e truffa e riguardano le
azioni di un presunto sodalizio criminale che sarebbe capeggiato proprio da Gualtieri.
Un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici è stato emesso nei confronti
dell’assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi, candidato al consiglio
comunale in una delle liste che sostengono il candidato sindaco del centrodestra
Mauro Giliberti. Proprio nelle ore in cui la guardia di finanza stava notificando
le ordinanze del gip, a Palazzo Carafa era in programma la presentazione ufficiale
dei candidati. In totale sono quattro le ordinanze di custodia cautelare (tre in
carcere e una ai domiciliari) disposte dal gip, sette le misure interdittive dai
pubblici uffici e 32 sono le persone indagate. Sequestrato anche l’equivalente di
somme indebitamente percepite dal ministero dell’Interno, pari a 2 milioni di euro.
Secondo la ricostruzione degli investigatori, nel 2012 Gualtieri avrebbe stipulato
convenzioni con il Viminale per istituire tre Sportelli antiracket a Lecce, Brindisi
e Taranto. Le indagini hanno accertato che tali strutture in realtà non sono mai
state operative, avendo come unico obiettivo l’indebita percezione dei fondi pubblici
destinati alle vittime di racket e usura. Documentati la fittizia rendicontazione
di spese per il personale impiegato; l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti
afferenti l’acquisizione di beni e servizi; la rendicontazione di spese per viaggi
e trasferte in realtà mai eseguite; la falsa attestazione del raggiungimento degli
obiettivi richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero
di denunce raccolte. Un altro capitolo dell’inchiesta ha riguardato le presunte collusioni
con pezzi dell’amministrazione comunale di Lecce. A partire dal funzionario Gorgoni,
che avrebbe fatto carte false per far sì che alcuni lavori di ristrutturazione dell’ufficio
dello Sportello antiracket venissero pagati dal Comune anziché dal commissario Antiracket.
L’obiettivo – secondo la tesi investigativa – era agevolare il costruttore che ha
effettuato i lavori e che avrebbe poi avuto un occhio di riguardo per il funzionario
pubblico per altri interventi eseguiti nella sua abitazione. Anche le ristrutturazioni
eseguite all’ufficio dello Sportello antiracket di Brindisi sarebbero state viziate
da anomalie, relative a false certificazioni di interventi mai ultimati da parte
di dipendenti comunali. Ad aggravare ulteriormente la situazione di Gualtieri c’è
il fatto che avendo appreso che alcuni suoi collaboratori erano stati convocati dalla
finanza per gli interrogatori, li avrebbe istruiti sulle versioni da fornire al fine
di cercare di nascondere i numerosi illeciti commessi al fine di ottenere indebitamente
i soldi del Fondo antiracket, sottraendoli al loro legittimo utilizzo.

Il Quotidiano di Puglia scrive: Gli arrestati finiti in carcere sono Maria Antonietta
Gualtieri, presidente dell’associazione antiracket di Lecce, Giuseppe Naccarelli,
ex dirigente del settore finanziario del Comune di Lecce, e Lillino Gorgoni, funzionario
di Palazzo Carafa. Agli arresti domiciliari è finita invece Simona Politi, segretaria
dell’associazione antiracket. Tra le sette misure interdittive c’è il divieto di
ricoprire cariche pubbliche per l’attuale assessore al Bilancio del Comune di Lecce
Attilio Monosi, in procinto di candidarsi alle elezioni amministrative con Direzione
Italia, e che proprio alcuni giorni fa aveva inaugurato il suo comitato elettorale.
Stessa misura per l’avvocato Marco Fasiello, uno dei legali dell’associazione antiracket.

IL BUSINESS DELLE COSTITUZIONI DI PARTE CIVILE E LE DENUNCE INVENTATE. Le convenzioni
con il Viminale ed i fondi elargiti dal PON-Sicurezza sono parametrati a seconda
degli obbiettivi raggiunti e richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi
utenti e numero di denunce raccolte. Da qui le storture e la speculazione sui procedimenti
penali attivati dalle associazioni antimafia per poter godere dei benefici: più
denunci più incassi dal Fondo POR e dalle relative costituzioni di parte civile
nei processi attivati.

IL POZZO SENZA FONDO DEL 5XMILLE ALLE ONLUS AMICHE. Da Wikipedia. Il PM anticamorra
Catello Maresca e il prefetto Giuseppe Caruso hanno duramente criticato le attività
di Libera, sostenendo che esse, aldilà della parvenza di legalità e onestà, siano
semplicemente mirate alla spartizione dei proventi che derivano dal sequestro dei
beni mafiosi. Secondo alcuni infatti, Libera si è trasformata da associazione antimafia
a holding economica che gestisce bilanci milionari, progetti e finanziamenti in regime
di monopolio. Anche il modo con cui vengono amministrati i beni sottratti alla mafia
è stato criticato per la sua scarsa trasparenza e per il fatto che i progetti vengono
vinti dalle solite associazioni legate a Libera. Questa cosiddetta Holding economica
ha i suoi contatti politici e sindacali a sinistra. E da sinistra si attingono maggiormente
i proventi del 5xmille anche su intervento dei CAF o in base ad una massiccia campagna
promozionale mediatica e di visibilità. L’associazione “Libera” è un coordinamento
nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso
la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. Libera, Bilancio Consuntivo al 31/12/2015:
5 per mille € 700.237».

Come si spendono i soldi ricevuti dallo Stato e pagati dai contribuenti italiani?

«La giornalista Alessia Candito, sotto scorta e minacciata dalla ‘Ndrangheta, ha
pubblicato sul Corriere della Calabria la contabilità dal 2011 al 2014 dell’associazione
della Musella, legata al Liceo Piria di Rosarno, salito alle cronache nazionali grazie
al libro “Generazione Rosarno” di Serena Uccello. Nell’articolo della Candito si
parla di “Magliette in numero sufficiente a vestire un reggimento, fiori costati
quanto lo stipendio annuale di un impiegato di discreto livello, compensi e rimborsi
a familiari, e poi hotel, viaggi, ristoranti e qualche gadget elettronico di troppo
di cui è oggettivamente difficile spiegare la continenza”. E si conclude scrivendo
che: “Analizzando la contabilità, gonfiata dalle iniezioni di liquidi degli enti,
ma che in quattro anni fa registrare meno di una decina di donazioni di soci, non
si può non notare come la maggior parte dei finanziamenti arrivati nel corso degli
anni sia stata spesa in viaggi, hotel e ristoranti”».

Come si può concludere questa lunga intervista-inchiesta?

«Che l’antimafia può deviare in palesi illegalità. Ma è il loro mantenimento
legale che dà da pensare e riflettere su come l’illegalità si purifichi in base
all’ipocrisia generale. Non è che non bisogna combattere la mafia. Il problema
è che è marcio il Sistema. Per speculare, inoltre, non bisogna vedere la mafia
dove non c’è e criminalizzare un intero popolo: il meridione in Italia; l’Italia
all’estero. Alla fine bisogna dire una cosa. L’antimafia deve essere di Stato.
Se lo Stato abdica è volontariato. Il volontariato se tale è, necessariamente deve
essere gratuito. Ergo: non vi può essere volontariato di Stato».