Image Image Image Image Image Image Image Image Image Image

TAURIANOVA (RC), MARTEDì 30 APRILE 2024

Torna su

Torna su

 
 

Sarah Scazzi, venerdì quinta udienza d’appello. Finalmente parla Cosima Serrano, ma chi le crede? Sarah Scazzi ed il dibattimento a Taranto. Il processo maledetto nel foro dell’ingiustizia. Il resoconto della giornata da parte dello scrittore Antonio Giangrande, che sulla vicenda ha scritto dei libri

Sarah Scazzi, venerdì quinta udienza d’appello. Finalmente parla Cosima Serrano, ma chi le crede? Sarah Scazzi ed il dibattimento a Taranto. Il processo maledetto nel foro dell’ingiustizia.  Il resoconto della giornata da parte dello scrittore Antonio Giangrande, che sulla vicenda ha scritto dei libri
Testo-
Testo+
Commenta
Stampa

Chi segue le vicende giudiziarie sul delitto di Sarah Scazzi deve tener ben
presente di quale foro si parli. Di quest’aspetto nessuno ha il coraggio di
parlarne e per dovere di informazione prendo su di me questo greve fardello,
prendendo spunto da quanto già è stato pubblicato dagli organi di stampa.

Ad oggi tutto stride con la osanna mediatica sinistroide dell’infallibilità
dei magistrati, ma come emerge dalla relazione fatta per l’inaugurazione
dell’anno giudiziario 2014 dal presidente vicario della Corte d’Appello di
Lecce, Mario Fiorella, il numero di processi proprio a carico di magistrati,
anche tarantini, sono ben 113. Il dato ufficiale si riferisce ai
procedimenti aperti nel 2013 ed il Distretto di Corte d’Appello comprende i
Tribunali di Taranto, Brindisi e Lecce. Come riporta Chiara Spagnolo su “la
Repubblica”, sono stati infatti quelli i numeri degli iscritti nel registro
degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92
sono i magistrati che risultano parti offese. A ben vedere si scoprirà,
certamente, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in
archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese
si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo.
Magistrati giudicandi, ma ingiudicati! Ma non per tutti è stato così.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come
altri casi della città di Taranto. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di
Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice.
Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale
di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per
valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa
testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci
e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Eppure Pietro
Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore
aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a
giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati. Pietro Argentino è il
pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio
accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad
Avetrana.

E poi ancora…andando indietro nel tempo. Corruzione al Palazzo di Giustizia
di Taranto, interessi privati e intrecci poco chiari tra ambienti della
magistratura, della questura e dell’imprenditoria locale. Sono stati
rinviati a giudizio l’ex procuratore capo della Repubblica di Taranto,
Giuseppe Raffaelli, 72 anni, sua moglie Giacoma Bianca De Filippis, 58 anni,
e l’ex sindaco di Massafra (Taranto), il democristiano Orazio Bianco, 55
anni, tutti e tre accusati di concorso in interesse privato. Di corruzione
dovranno invece rispondere l’ex sostituto procuratore Giuseppe Lamanna, 60
anni, e il presidente degli industriali di Taranto, Donato Carelli, 49 anni.
Un altro magistrato di Taranto, l’ex sostituto procuratore Giuseppe Lezza,
47 anni, ha evitato il rinvio a giudizio perché il reato di corruzione
contestatogli, fra gli altri, si è estinto per prescrizione.

Tra le vittime illustri delle campagne scandalistiche giudiziarie, si conta
perfino l’ex procuratore capo della Repubblica di Taranto, Nicola
Cacciapaglia, messo alle strette da alcune rivelazioni televisive che
ricordano il “caso Thomas”, il giudice americano di colore imputato di
molestie sessuali. Anche qui il magistrato è finito sotto processo per abuso
di poteri: l’accusa, secondo il rinvio a giudizio, è di “aver palpato la
spalla e il seno” di una signora contro la sua volontà, “sbottonato i
pantaloni, estratto il membro e facendo forza sulla testa” costretto la
donna “a portare la bocca all’altezza del membro”. Ingloriosa fine carriera
di un alto magistrato, scriveva il 4 febbraio 1993 “Il Corriere della Sera”.
Il Tribunale di Potenza ha condannato a venti mesi di reclusione (pena
sospesa) e al pagamento di una provvisionale di cinque milioni di lire
Nicola Cacciapaglia, 69 anni, procuratore della Repubblica di Taranto
dall’87 al ’90. I giudici lo hanno riconosciuto colpevole del reato di atti
di libidine nei confronti di Anna De Pasquale, cinquantacinque anni,
casalinga, di Taranto. I fatti risalgono al 1989, quando la donna chiese al
magistrato di aiutarla a recuperare una figlia tossicodipendente che
rischiava la prigione. Nell’ufficio del Procuratore, Anna De Pasquale visse
momenti allucinanti: il magistrato non si fermò alle avance, ma le mise le
mani addosso e per poco non la violentò.

La stampa spesso e volentieri, come si vede, ha fatto trapelare qualche
nefanda notizia, di cui si fa scarno riferimento in questa sede, per non
dimenticare, le cui vicende, però, sono analiticamente approfondite nel
libro che parla di Taranto e di quello che non si osa dire.

Corruzione a Palazzo di Giustizia. Sono stati sorpresi mentre si scambiavano
una mazzetta di quattromila euro. Così sono stati presi, in flagranza di
reato, il giudice Pietro Vella e l’avvocato Fabrizio Scarcella. I due sono
stati arrestati il 13 marzo 2012 su ordine di cattura firmato dal gip del
Tribunale di Potenza su richiesta della locale procura della Repubblica che
è competente per i procedimenti a carico dei magistrati di Taranto.

“Toghe sporche sullo Jonio. Se si trattava degli amici, la giustizia a
Taranto poteva diventare strabica. E all’occorrenza anche cieca”, titolava
“La Repubblica”. Da questa accusa si sono difesi due alti magistrati, il
Procuratore Capo Aldo Petrucci ed il Gip Giuseppe Tommasino sospettati di
aver pilotato alcuni procedimenti, approfittando del loro ruolo. Si trascina
dietro una carica dirompente l’indagine condotta dai giudici di Potenza sul
conto di toghe sino a poco tempo fa adagiate su poltrone strategiche del
palazzo di giustizia ionico. Entrambi sono stati assolti.

Spesso però dei magistrati di Taranto si parla del loro operato nel segno
del loro dovere, per alcuni considerato sbagliato.

Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di
Taranto? Si chiede Luigi Amicone su “Tempi”. Siamo stati facili profeti
quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di
“catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita
che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare. Due
numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è
stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di
inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più
grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100
milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati
facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico
caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria.

Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i
delitti di 13 vecchiette, anche loro menati (secondo le testimonianze) per
rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è
suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari,
nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato con prove a
sostegno la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto,
mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro
dell’ingiustizia.

Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto
questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso,
sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico
delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E’ morto
il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il
detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il
serial killer delle vecchiette, trovato impiccato il giorno prima nella sua
cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano
Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si
sia effettivamente suicidato. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti
omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14
omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997.

Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal
settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi,
ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui
si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni –
scrive Alfonso, il padre di Carmela – che il 15 aprile del 2007 è deceduta
volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito
violenze sessuali da un branco di viscidi esseri, ma poi anche le
incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte
con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di
mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto
(convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra
insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno,
né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o
l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio.
Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e,
quindi, poco credibile.

Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora
il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato
a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi
di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un
duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore
tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi
e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito,
riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di
rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone
si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha
registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà
300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si
ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni
analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in
cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di
auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul
terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto
cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime
indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che
lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così
funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per
falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del
massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare
la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci
anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le
sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono – racconta lui –
adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha
capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho
passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la
sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu
schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa,
fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua
colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei
pentiti.

Il Pm era lo stesso per tutti questi procedimenti: Vincenzo Petrocelli.

Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni
Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati
per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in
libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone,
meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella
prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno
portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano
già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo – ha detto
l’avvocato Petrone – che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le
indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per
ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato
di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi. Per la Procura,
che sostiene la tesi della colpevolezza di Sabrina e della madre Cosima per
il delitto e la responsabilità di Michele Misseri solo per la soppressione
del cadavere di Sarah, la ritrattazione della psicologa sono manna dal
cielo, un supporto alle proprie tesi. Da tenere presente una cosa: trattare
come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro rese nell’udienza
preliminare e nella precedente testimonianza in Corte d’Assise o considerare
quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che a rettificare la
dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a liberasi del
fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non incorrendo
così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da
pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle
vite umane dal carcere? Una scelta di carattere pratico o una strategia
difensiva, oppure cedere al rimorso della coscienza? Questa è solo una
considerazione di carattere logico, non una diffamazione nei confronti di
chiunque. Anche perché a Taranto ogni logica, anche giuridica viene
disattesa. Taranto dove i magistrati si sentono anche legislatori.

E poi c’è signor Scialpi ed il 13 maledetto. Cerca di riscuotere la vincita
dal 1981.

Come si fa a sfuggire dai magistrati di Taranto? Non si può!

Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si
sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l’omicidio di
Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola
Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si
respira sull’asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione
delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg
che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede
lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione.
A Taranto, in sostanza, non c’è la tranquillità necessaria per giudicare le
indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che
«turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull’arresto
di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo
la fuga di notizie che l’aveva preannunciato («Fu un tentativo di
linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni
di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni
contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece
ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò
versione più volte, accusò sua figlia dell’omicidio e tornò di nuovo al
primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»).
Per riassumerla con le parole di Coppi: «L’abbiamo sempre detto, in questo
procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c’è
serenità è giusto trasferirlo».

Ma il processo resta a Taranto ed è qui che, nel proseguo in appello,
parlerà Cosima Serrano.

L’avv. di Cosima Serrano, Franco De Jaco, parla ai microfoni di un tv locale
e sottolinea l’innocenza delle due donne condannate all’ergastolo in primo
grado per l’omicidio della quindicenne di Avetrana. «Penso che voglia
confutare, sostanzialmente, tutto ciò che è emerso sino ad oggi – dice
l’avv. Franco De Jaco – Poi sarà creduta o non sarà creduta, questo per lei
è relativo. Vuole liberarsi, sostanzialmente, del fatto che la gente pensi
che lei non voglia rispondere alle cose. Vuole rispondere, però, chiaramente
ci sono delle scelte tecniche che abbiamo fatto noi e che fino adesso le
hanno impedito di assolvere a questo suo desiderio. Adesso lo vorrà
affrontare e lo affronterà. Tanto, voglio dire, alla fine conosce benissimo
lo spirito di questo processo e quindi…» Continua De Jaco. «Be’ vedremo in
una sede terza come si svolgeranno i fatti. Ma assolutamente. Andremo in
cassazione tranquillamente. Tanto l’ho sempre detto: questo è un processo
che si risolve in Cassazione, visto che c’è una pressione mediatica tale che
non c’è serenità in nessuno. Oggi è un’udienza di transizione. E’ stato
nominato il perito. Per cui sarà affidato quest’incarico, poi noi
valuteremo. Penso sempre che ci sia una giustizia, però se questo è lo
spirito, purtroppo dobbiamo affrontarlo. Mi dispiace che due innocenti
stanno in carcere.»

Anche Lillino Marseglia, l’avvocato di Sabrina Misseri, dice la sua ad un tv
locale sull’intenzione di Cosima Serrano di rendere dichiarazioni in aula.
«Ho avuto la netta impressione che volesse rendere delle…non solo delle
sommarie dichiarazioni per rivendicare genericamente la sua estraneità ai
fatti o proclamare la sua innocenza. Credo che voglia fare un racconto
completo di tutta questa vicenda perché non è mai stata sentita. Solo ora.
Ne parlavamo con il collega. Spesso e volentieri gli imputati sono anche
prigionieri delle strategie processuali. Ci sono tanti motivi. Spesso il
silenzio non coincide con la reticenza. Spesso viene imposto per ragioni
diverse. Parlerà. Sicuramente parlerà. E come dicevo prima, non si limiterà
a fare un racconto proprio di maniera, di stile “sono innocente, sono
detenuta senza motivo”. Credo che voglia raccontare i fatti in maniera
articolata e poi dovrebbe essere, comunque, una cosa di sicuro interesse
processuale, perché Cosima Serrano non ha mai parlato».

Il professor Coppi vuole arrivare presto in Cassazione per dimostrare
l’innocenza di Sabrina. «Questo ergastolo è il più grande cruccio della mia
carriera», ha spiegato in un’intervista alla giornalista Ilaria Cavo. «Ci
sto consumando la mia vita, perché sapere che una ragazza di 23 anni – per
me innocente – sta marcendo in carcere con una condanna all’ergastolo, mi
toglie il sonno». «Sabrina è innocente» continua a sostenere Coppi in tutte
le sedi, anche quando si occupa di vicende complesse e complicate come
quelle dell’ex premier Silvio Berlusconi oppure, restando in ambito
tarantino, dell’Ilva, visto che difende delle società della famiglia Riva
(fatto che lo porterà a rinnovare il duello con gli stessi pm e
probabilmente con gli stessi giudici togati della corte d’assise).

«Insomma chiunque abbia riferito fatti e ricordi favorevoli alle tesi
difensive adesso rischia di trovarsi sotto processo» commenta Franco De
Jaco, difensore di Cosima. Su Avetrana una cappa di dubbi, dolore e rabbia.
Mentre a via Deledda, la strada della villetta Misseri, continua il via vai
di telecamere e curiosi.

Dr Antonio Giangrande

Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia