Pagina di diario di Bartolo Ciccardini scritta durante i giorni del rapimento Moro
Quel terribile 16 marzo 1978
Pagina di diario di Bartolo Ciccardini scritta durante i giorni del rapimento Moro
E’ la mattina di giovedì 16 Marzo. Sto preparando un discorso di dissenso
alla Camera: avremo in giornata le dichiarazioni dl nuovo Governo ed io
voglio spiegare la mia posizione e quella dei miei amici, che si sono
battuti perché risultasse chiaro che questo governo non si sarebbe basato su
una maggioranza politica, ma su una tregua tra le forze politiche, per un
programma rigoroso di chiara e necessaria emergenza, a tempo limitato: fino
alle elezioni del Presidente della Repubblica. Fra pochi minuti queste idee,
attorno alle quali abbiamo faticato per mesi, per le quali ho rifiutato di
accettare qualsiasi eventuale designazione al Governo da parte dei colleghi
parlamentari, faranno parte di un lontano passato.
Squilla il telefono. E’ un funzionario della Direzione del Partito: Ligato.
On riconosco la sua voce, perché piange: “A nome del Segretario del Partito,
sono stato pregato di informare i membri della Giunta che questa mattina è
stato rapito il Presidente Moro. Il Segretario la prega di recarsi subito a
Piazza del Gesù”.
Resto di sasso. Mi volgo verso un vecchio amico, Feliciani, che è passato
chiedere notizie sulla soluzione della crisi. Non so come dirglielo. Mi
domanda se mi sento male. Sono assalito dall’incredulità; e se fosse uno
scherzo atroce?mi attacco al telefono e chiamo Piazza del Gesù: la notizia è
vera.
Un lungo periodo storico della nostra Repubblica si chiude definitivamente,
un altro se ne apre, dal volto irriconoscibile. Tutto quello che pensavo,
che pensavamo fino a cinque minuti fa è vecchio di dieci anni.
Una guerra è stata dichiarata. Quando finirà, sarà, come dopo tutte le
guerre, tutto diverso.
Corro in Piazza del Gesù. La gente staziona preoccupata sulla piazza.
Arrivano delegazioni dei Partiti, di Sindacati a portare solidarietà. Le
notizie sono ancora confuse: ci si rende però conto che siamo di fronte ad
una azione militare possente e precisa.
Mi rendo conto che non abbiamo, nel nostro Partito, un piano di
mobilitazione straordinario: il nostro grande pregio è la spontaneità ed il
radicamento della coscienza popolare del Paese. Questo pregio potrebbe
diventare una debolezza nei prossimi giorni. Per ora, la Direzione si
riunirà alle tre. Vado a vedere che succede alla Camera.
Alla Camera è in corso la riunione dei Capigruppo. Bisogna votare presto la
fiducia al Governo e chiudere subito la lunga crisi. Fare presto, perché ci
sia un Governo pronto a tutte le evenienze. Avevamo in programma una
riunione di deputati per discutere della situazione politica. Decidiamo di
non farla. Cade da sé ogni opinione critica nei confronti di questo Governo:
bisogna fare presto.
Nessuno sa che cosa si proponevano le Brigate Rosse, ma questo l’hanno
ottenuto: che il dibattito politico sulla crisi passasse in secondo piano.
Fra i colleghi degli altri partiti c’è preoccupazione e sgomento. Forse
hanno riflettuto prima di noi, che siamo ancora sotto shock, sulle
conseguenza politiche dell’enorme vuoto che si è creato con l’assenza di
Moro. Fra i democratici cristiani c’è rabbia.
Abbiamo appena finito di leggere un libro di pseudostoria della D.C. in cui
il primo partito d’Italia viene presentato come un’accozzaglia di fascisti e
di mafiosi, in cui Moro viene additato al disprezzo, piuttosto che alla
critica storica.
Abbiamo tutti negli occhi la scena finale di “Todo-modo”, il film in cui
Moro, impersonato da Volontà, viene ucciso. La carica di livido odio di un
film come “Forza Italia” forse ispirerà oggi consensi alle B.R. e fischi
agli oratori democratici cristiani nelle assemblee scolastiche e nei comizi
di solidarietà. Come non sentire la rabbia: quelli che si dolgono oggi con
noi, non hanno tollerato (e spesso qualcosa di più) tutto questo?
Qualcuno non resiste e lo dice: “Ci avete legato le mani. Avete disposto la
ridicolizzazione dei servizi segreti, la destabilizzazione, anche
psicologica, delle forze dell’ordine”.
“Ancora ieri negli accordi di Governo, insistevate s questa strada, mentre
la D.C. subiva decine di attentati ai sui dirigenti, centinaia di sedi
distrutte”. L’aria è tesa, scoppia qualche discussione aspra. Non ci sono
notizie.
In aula lo spirito di Parlamento prende il sopravvento. Quando entra il
Presidente Ingrao tutti, spontaneamente, si levano in piedi. Noto che ogni
volta che in Parlamento c’è qualcosa di storico, sembra di essere in chiesa
ad una cerimonia religiosa.
Oggi, purtroppo, c’è quel sommesso silenzio che precede le funzioni funebri.
Si va avanti: la lettura del verbale della seduta precedente, suona come una
stanca nota di formalità superata.
Andreotti si impone il dovere di leggere almeno una parte del programma
preparato. Lo esige il rispetto del Parlamento. Tuttavia si vede che per lui
è un dovere faticosissimo: gli saltano le righe, le frasi che legge sono
lontanissime. Anche lui sembra oppresso da una formalità fori luogo.
Nell’aria tesa si spargono notizie incontrollate: altri morti, altre bombe.
Poi si saprà che non è vero.
Ma fra i banchi ci sono momenti di irritazione e di impazienza. Come in
chiesa non si applaude. Neppure quando s parla di Moro. Questa cerimonia
senza applausi ci pesa sul cuore. Anche il Governo ci appare come orfano.
Nell’intervallo ci scambiamo alcune impressioni e perfino i primi commenti
politici. La prima impressione è questa:che l’accaduto spinge verso quel
Governo di emergenza con i comunisti che abbiamo appena rifiutato;
obiettivamente dà una spinta politica ai comunisti ed indebolisce la nostra
resistenza. E’ quindi importante appoggiare con forza questo Governo,
respingere ogni strumentalizzazione dell’accaduto, mobilitare il partito.
Alle tre si riunisce la Direzione. I capi della D.C. arrivano silenziosi, si
salutano in silenzio ed aspettano. In questo momento non voglio tradire
neppure in minima parte il riserbo delle cose dette in Direzione. Non tanto
per quello che è stato detto (tutti se lo possono immaginare) ma per un
senso di serietà e di rispetto per questo sfortunato partito. Dirò solamente
che tutti sono consci che non è in gioco solo la vita di un uomo, ma lo
Stato in Italia, cioè l’Italia stessa. E ragionano di conseguenza!
Dirò due sole note umane: Donat Cattin è venuto malato da Torino: dice cose
durissime per il suo sentimento; “con il cuore che sanguina”, di fronte al
dovere.
Gui, amico di Moro, da lui difeso, che ha subito un agguato forse
altrettanto grave (e non basterà mai che risulti innocente, come
limpidamente sta dimostrando il processo dell’Alta Corte), si preoccupa lui
della salvezza dello Stato e delle istituzioni.
La riunione è breve, scarna.
Appello al Paese, mobilitazione del partito, senza intralciare il lavoro
delle forze dell’ordine; la Direzione siede in permanenza; difesa dello
Stato e dei suoi principi.
Giungono le prime notizie, non giornalistiche. La esecuzione del colpo
dimostra che c’è un’impostazione di alta scuola di guerra ed un
addestramento lungo ed accurato. Non si tratta di un attentato, ma di una
minuscola battaglia, dove sono state attentamente rispettate le teorie
classiche di guerra. I potrebbe dire che il colpo va addirittura al di là
della guerriglia.
L’obiettivo appare chiaro ed accuratamente studiato: destabilizzare
l’Italia.
Oggi l’Italia è il punto più debole dell’equilibrio europeo e l’Europa è il
punto più debole nell’equilibrio dei blocchi. Aprire un focolaio in Italia,
in Europa, tra i blocchi. E’ un’operazione di politica estera. Il giorno, la
persona, il modo, sono scelti alla perfezione. Si mette in discussione un
risultato raggiunto, che era già di per sé in equilibrio precario e che
poggiava proprio su Moro.
Si sostituisce alla tregua un’atmosfera di guerra civile. Si colpisce la
D.C. che appare come l’asse portante e la garanzia di questo precario
equilibrio. Se la D.C. ripetutamente colpita e questa volta “al cuore”, non
regge , il gioco è fatto. A chi conviene gettare l’Italia come una bomba
innescata nella polveriera internazionale? Si fanno ipotesi: ci si accorge
che può convenire a molti. Conviene forse ad un’Europa orientale, che teme
il disgelo, l’antistalinismo, l’eurocomunismo e l’influenza liberale di
un’Europa unita.
Per quelli, una guerra civile in Italia potrebbe rappresentare dieci anni di
ritardo ai problemi posti dal patto di Helsinki.
Altra ipotesi: ci potrebbe essere interesse, su una prospettiva di frizione
dei blocchi, a mettere fuori combattimento la posizione strategica
dell’Italia. Forse c’è un interesse del terrorismo internazionale,
professionistico, finanziato ed addestrato perché serva molte cause, a
dimostrare che il terrorismo paga, che lo Stato è impotente. Allora la
scelta dell’Italia potrebbe essere dettata dalla poca efficienza dello Stato
italiano, più che da ragioni politiche. Potrebbe essere, forse, l’interesse
di alcune potenze sorgenti a spostare l’attenzione dagli attuali focolai,
ad un nuovo focolaio. Ipotesi di una giornata drammatica. Ma il risultato è
sempre logico. Per colpire la pace, colpire l’Italia che si è lasciata
sorprendere con la sua debolezza. Per colpire l’Italia, colpire la D.C. nel
suo uomo più prestigioso e più determinante in questo momento.
Parla Zaccagnini. Ancora pochi minuti fa era pallido, sconvolto, distrutto.
Dove ha trovato la forza, l’energia, con cui improvvisa il discorso?
Improvvisa e la sua voce si indurisce lì dove il suo cuore vorrebbe piangere
Parla La Malfa. L’Italia non si salva se non si dichiara guerra alla guerra.
Parla di pena di morte! Questo solleverà le ipocrite proteste di quelle
vergini scandalizzate, che non hanno mai provato scandalo quando la pena di
morte veniva decisa, sentenzionata ed eseguita da tribunali
pseudorivoluzionari su decine di agenti, di carabinieri, di giudici e di
avvocati.
Prala Berlinguer. E’ preoccupato. Questa vicenda potrebbe far crollare o far
trionfare la su linea: ma la sua stima per Moro è sincera.
Mentre si studiano le ipotesi e si ascoltano i discorsi (non giungono
notizie) ci accorgiamo che si fa strada in noi una convinzione non
confessata.
Mi dice Pratesi (un cattolico passato con i comunisti): ci vorrebbe La Pira,
con le sue suorine. Vuol dirmi, forse, che solo la preghiera, un miracolo
può salvare Moro? I non credenti parlano soltanto di “un colpo di fortuna”
della polizia.
“Lo Stato dunque sarà umiliato fino in fondo? Sceglieranno la strada di una
trattativa umiliante ed inutile? A che cosa ci dobbiamo preparare?”.
In questo momento non oso, per iscritto, ripetere quello che ci siamo
lucidamente detti a voce, quello che ci siamo preparati ad affrontare. Il
nostro cuore spera, la nostra ragione dispera.
Parlo con un ministro (chiedo scusa ancora per una necessaria discrezione):
“Mi dispiace, tutto è cambiato. Ora non possiamo più permetterci neanche un
errore. Siamo inermi e bisogna ricostituire subito la difesa dello Stato.
Troppi errori e ritardi per i servizi segreti., anche in questi giorni.
Troppi errori, demagogici ed inutili, nel campo delle forze dell’ordine,
della giustizia”.
“Altri innocenti pagheranno questi errori?”
Ci diciamo che anche il Partito, la Democrazia Cristiana, non può più
procedere con i sistemi di dieci anni fa. Siamo sotto il mirino: giocare
alle correnti (come ancora si fa e si vorrebbe fare) è assurdo. Bisogna
togliere ai folli il Partito, che non è un giocattolo, per i loro giochi. E’
troppo prezioso ed importante per la democrazia italiana.
Chi non si rende conto di questo è complice dell’attacco alla D.C., di
questo attacco che viene da molto lontano.
Votiamo la fiducia al Governo: in tutta l’Italia si svolgono importanti
manifestazioni di solidarietà. La giornata è finita.
Il nostro mestiere di deputati ci ha allontanato per un poco dalle emozioni
del Paese. La sera, la televisione ci getta addosso l’immagine di un’Italia
che aspetta qualcosa da noi. E’ l’Italia buona e coraggiosa dei momenti
difficili: non bisogna tradirla.
16 Marzo 1978
Bartolo Ciccardini