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“Rosso”, il primo libro di Mario Aloe, pubblicato per capitoli da Approdonews

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Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il primo

# Si intitola “Rosso” l’opera prima di Mario Aloe 

“Rosso”, il primo libro di Mario Aloe, pubblicato per capitoli da Approdonews

Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il primo

 

 

Si intitola “Rosso” il primo romanzo di Mario Aloe, 60enne di Amantea, impiegato al Comune con la passione per la scrittura. Rosso come il nome della motonave della società di navigazione Ignazio Messina & C., utilizzata alla fine della sua “carriera”, per trasportare rifiuti tossici e che prima del 1989 portava il nome di Jolly Rosso. Intorno alla Rosso o “nave dei veleni”, come venne battezzata dalla gente, aleggia un velo di mistero e ben 19 anni di indagini. Indagini circa l’ambiguo spiaggiamento della stessa, avvenuto il 14 dicembre del 1990 sulla spiaggia di Formiciche, poco a sud dal centro cittadino di Amantea, che ha portato gli investigatori lontano, fino alla Somalia, sulle tracce dell’ultima inchiesta della giornalista Ilaria Alpi, uccisa nel 1994 mentre si trovava a Mogadiscio come inviata del Tg3, per seguire la guerra civile somala e per indagare su un traffico d’armi e di rifiuti tossici illegali.

Il libro di Aloe

Un fedele servitore dello Stato assassinato ad un passo dalla meta mentre è alla caccia delle navi dei veleni: un intrigo internazionale e il perenne conflitto tra bene e male, amore e crudeltà, dedizione e cupidigia. E’ questo il filo conduttore del romanzo, il cui protagonista è una persona comune, costretta dagli eventi e dalla propria disillusione a scendere in guerra. Totò Zafarone non aspira alla gloria e non vuole essere ricordato dai posteri, ma ha voglia di vivere la sue esistenza, godere dell’amicizia di altri esseri umani, amare ed essere amato. L’etica della professione e l’amore per una donna lo trascinano in guerra, in uno scontro mortale con una potente organizzazione che depreda i mari e i territori del Meridione e della Somalia. Attraverso una scrittura fluida, mai noiosa Mario Aloe riesce ad informare il lettore delle varie vicissitudini legate alla nave Jolly Rosso. «Sebbene l’argomento sia divenuto ostico e impopolare – ha spiegato l’autore – partendo da quei fatti ho scritto un romanzo, la storia di un’indagine giornalistica condotta in Italia e in Somalia, un intrigo i cui protagonisti sono da un lato delle donne e degli uomini coraggiosi, piccoli eroi dimenticati e dall’altro delle organizzazioni possenti e pervasive, impegnate a depredare i territori del sud italiano e del mondo. L’idea che il romanzo possa emozionare per l’impegno civile dei suoi protagonisti, esseri umani normali che operano per contrastare il male – ha concluso – mi da una grande soddisfazione e rappresenta per me una ricompensa adeguata».

I capitolo

13 DICEMBRE 1995
Mappa di affondamenti di navi con sospetti di carichi velenosi
Il caffè era caldo. Lo aveva desiderato da prima di Viareggio, ma non si era fermato, voleva arrivare al più presto.
Finalmente l’autogrill, accese la freccia e si arrestò: Magra ovest. La bevanda gli aveva lasciato un retrogusto amaro in bocca e lo zucchero aggiunto non era servito ad aggiustarla, ma finì di berla.
Era stanco, i muscoli e le ossa gli dolevano, sbadigliò. Si sentiva intorpidito e aveva voglia di dormire, fare una doccia calda e dormire. La stanchezza lo seguiva ormai da tempo, doveva raggiungere il bagno, lavare il viso. La scossa dell’acqua fredda corrente lo avrebbe ridestato allontanando la stanchezza, era un’esperienza fatta tante altre volte ed era, sempre, stato un rimedio miracoloso.
Dopo un viaggio interminabile la meta era vicina. Tra poco avrebbe messo le mani e gli occhi sui registri navali e forse sarebbe riuscito a sapere collegando partenze, carichi, navi. L’indagine avrebbe compiuto un passo in avanti, la speranza era grande come la sua determinazione.
Doveva controllare oltre cento navi, nella cartella aveva segnate già le rotte di molte di esse, ma occorreva essere sicuri ed aveva bisogno di documenti, non poteva più basarsi solo su supposizioni.
L’amaro in bocca era aumentato e non riusciva a capirne il motivo. Non aveva preso altro che il caffè. Tutto divenne sfuocato, la sensazione si trasformò in un nodo alla gola e in un pugno allo stomaco, avvertiva uno strano senso di vuoto mentre ogni parte del corpo aveva sete di aria.
Chiuse gli occhi e sentì la vita allontanarsi.
In un attimo gli passò nella mente la famiglia e l’intera esistenza, come in un film visto al contrario, dall’inizio alla fine, con un’accelerazione fantasmagorica, come se avesse premuto il rewind sulla sua vita.
Gli sembrava di essere in una di quelle scene in cui il corpo viene proiettato nel tempo e precipita in un imbuto, a velocità sempre maggiore, fino a scomporsi in tanti atomi, ma il suo corpo, a differenza di quanto avveniva nei film, rifiutava di ricomporsi.
Le prime immagini si succedettero in maniera nitida, la mamma e i suoi abbracci, il padre ed il sentimento di sicurezza, gli amici, la moglie, i figli: moriva. Lo percepì in un lampo, adesso sapeva. Gli attimi che lo stavano portando alla fine erano densissimi, brevi, ma infiniti. Il tempo si era fermato, la moviola dei pensieri era ancora più lenta di quella dei replay delle scene dei goal o delle azioni dubbie nelle partite di calcio.
Era stato il caffè, non aveva più dubbi. Non ricordava di avere bevuto o mangiato altro, ne era sicuro. Sentiva il dolore riempirgli il torace e il cuore battere all’impazzata. Avrebbe voluto fermarlo, far cessare il malessere e riprendere il controllo del corpo. Sarebbe bastato poco, un atto di volontà per riappropriarsi di se stesso e colmare la distanza che lo separava dalla vita; una sensazione orribile.
I ragazzi avevano ancora bisogno di lui. Con malinconia pensò alla loro vita. Sarebbero cresciuti senza il loro padre, non li avrebbe più visti, non ne avrebbe seguito la crescita, non avrebbe partecipato alle loro gioie, non sarebbe stato presente e di sostegno ai loro dolori, alle loro indecisioni: erano ancora piccoli.
Il panico gli attanagliò la gola e una paura totale, che occupava ogni suo muscolo, gli riempiva l’animo soffocandolo. Voleva gridare, chiedere aiuto, comandare ai propri polmoni di respirare. Era l’aria marina piena di iodio quello che desiderava e il vento, che riempiva la vela della sua barca sferzando il suo volto, era quello che cercava. Perché l’ossigeno dello Stretto insieme alle brezze del suo mare per il quale aveva lottato non arrivava, non gli riempiva i polmoni, gli smuoveva i muscoli? Il mare che aveva cercato disperatamente di difendere perché non gli portava sollievo?
Nel locale poche persone oltre ai due baristi.
Sentiva il discorrere di una giovane coppia, le voci sommesse dei due uomini che erano vicino a lui al banco, percepiva lo sguardo preoccupato di un anziano signore, la sua muta domanda. Non riusciva a rispondere. Le parole non gli uscivano di bocca, la lingua era impastata e anche gli occhi erano vuoti; non poteva chiedere aiuto nemmeno con lo sguardo.
Tentò di riaversi, cercò di controllare il cuore, di respirare: era solo un malessere. Era sicuro che riprendendo coraggio si sarebbe sentito meglio.
Assunta, giovane donna sua sposa e compagna, il calore del suo corpo, il suo sorriso e gli occhi ridenti e parlanti, era là con lui. Era comparsa nei suoi pensieri, ma neanche lei poteva più trarlo in salvo. Comprese che non avrebbe più goduto della sua presenza, non avrebbe più riempito la mente con la sua immagine, non avrebbero più giocato con gli sguardi e sorriso mentre gli occhi s’incrociavano. Assunta… era lungo morire. Alcuni secondi prima aveva solo un gusto di amaro in bocca e adesso il cuore stava per fermarsi, i ricordi diventavano sfuocati.
Era giovane e in buona salute e pensava a sé stesso come
immortale: il tempo della fine non aveva data, non era mai stato presente nella sua testa e la morte non faceva parte del suo futuro. Non aveva mai considerato l’ipotesi di distaccarsi dalla vita, di essere privato dei giorni a venire, colmi dei suoi affetti e del mare, suo padre adottivo. Si sentiva nella pienezza delle forze.
Come avrebbero fatto senza di lui? Subito pensò che sarebbero andati avanti e cresciuti lo stesso e, dopo il vuoto della sua mancanza, sperava avrebbero lentamente messo da parte le angosce, presi e trasportati dal gioco della vita. Era tragico e doloroso sapere che sarebbe andato così, ma lo aiutava il pensiero che una parte di sé avrebbe vissuto nei figli.
Si era fermato, la stazione di servizio era ad appena venti chilometri dalla meta. Il viaggio era stato lungo dalla Calabria e doveva intraprenderlo prima di Natale, prima che tutto scomparisse. Lo percepiva doveva arrivare prima delle feste, sapeva che loro avrebbero fatto sparire i registri; dovevano farlo, era l’unico modo per far perdere le tracce e non consentire a nessuno di risalire a loro.
La pioggia lo aveva accompagnato fin dopo Roma, una pioggia battente che lo aveva costretto a guidare con prudenza, ad aumentare l’attenzione, a consumare energie nervose sfinendolo.
Assunta non voleva che partisse, non riusciva a capire la ragione di tanta fretta. Gli aveva detto di aspettare che ritornasse sereno o almeno che cessasse la pioggia. Il lavoro poteva attendere, la famiglia era più importante.
Era solo, nessuno doveva sapere dei suoi spostamenti. La macchina, una Tipo bianca dell’esercito, viaggiava con una targa di copertura. La prudenza era indispensabile. Il giudice gli aveva suggerito di partire all’improvviso, di non dire niente, di non far sapere dove andava. Gli aveva raccomandato di non portare nessuno con sé. Il pericolo era reale, ma lui non avvertiva nessuna pressione, non vedeva ombre minacciose avvicinarsi e sorrideva delle preoccupazioni di Assunta. L’aveva rassicurata come le altre volte e lei, come al solito si era lasciata convincere dalla sua premura. Il viaggio era sicuro le aveva detto. L’avrebbe chiamata e così aveva fatto durante il percorso. Arrivato in città l’avrebbe richiamata per avvisarla e sentire la sua voce, percepirne la dolce cadenza rassicurante.
Era sicuro delle proprie mosse: li avrebbe inchiodati alle loro responsabilità. I ladri di futuro sarebbero stati fermati e il magistrato avrebbe avuto carte a sufficienza per emettere i primi mandati di arresto.
La rete stava per chiudersi e dentro sarebbero rimasti, oltre ai soliti pesciolini, anche gli squali e sarebbe stato lui a tirarla su: voleva guardarli negli occhi mentre issava la rete. Doveva impedire che lo scandalo continuasse e che i suoi figli e gli altri ragazzi venissero minacciati da tumori e leucemie, li avrebbe fermati.
Gli mancava l’aria, barcollava vistosamente. Cercò di ancorarsi ad una di quelle isole presenti nei bar dell’autostrada.
Scivolò lentamente e crollò a terra.
Adesso le immagini si fissavano nella sua mente, non scorrevano più.
Lo avevano raggiunto ad un passo dalla meta, lo avevano raggiunto e mandato al tappeto: poi il buio e il silenzio.
Al tonfo del corpo sul pavimento seguì il trambusto nella sala.
Il vecchio signore si avvicinò rapidamente e gli sollevò il capo. Si era accostato anche uno dei due baristi.
Cercarono di destarlo, lo scossero prima con delicatezza, poi con forza, gli slacciarono il nodo della cravatta ma non riuscirono a fargli riprendere i sensi.
«Chiama il 118, sbrigati! Sembra essere qualcosa di grave». Così si rivolse al collega rimasto dietro il banco.
Si avvicinarono rapidamente anche i due avventori che erano prima al banco. Con fare sicuro e professionale uno dei due si presentò come medico: «Sono il dottor Anselmi primario del reparto di cardiologia dell’Ospedale Dei Padri Eremiti di Milano. Fate largo, lasciatelo respirare, permettetemi di controllare». Il medico gli sentì il battito.
«Presto, chiamate l’ospedale più vicino, chiedete l’intervento dell’ambulanza. Questo poveraccio deve essere subito ricoverato, prima arriva in un centro attrezzato meglio sarà per lui».
Iniziò a praticare il massaggio cardiaco, lo faceva con grande energia e con ritmo regolare.
«Pasquale corri in macchina, prendimi la borsa. Dai sbrigati». L’amico uscì rapidamente dal locale. Anche la giovane coppia si era avvicinata.
La donna chiese con preoccupazione «Respira?» e dopo una breve pausa «È vivo?».
Il medico continuava il massaggio e non rispose, era troppo impegnato per dedicare attenzione ad altro ed impiegare energie per disperdere la paura che montava nel bar.
La voce della donna divenne pressante: «Dottore, la prego, risponda è ancora vivo?». L’ansia si avvertiva dal suono della voce ed esigeva una risposta, solo una risposta avrebbe placato la paura.
Il compagno gli posò un braccio sulla spalla, con tenerezza: «Fai lavorare il medico. Sarà un malessere passeggero, vedrai che tra poco si riprenderà. A volte la fortuna è amica: menomale che nel bar era presente un dottore. Di solito prima che arrivi qualcuno uno è già morto. Non arrivano mai, sempre in ritardo e solo quando non c’è più niente da fare».
«Cosa hanno detto dall’ospedale – chiedeva l’anziano signore al barista spaurito – Arrivano? Quanto impiegano? Ci vorrà molto?».
Pasquale rientrò nel locale. «Gaetano ecco la borsa con dentro i tuoi strumenti».
«Aprila. Nella sacca piccola trovi una siringa all’interno, sul fondo delle fiale con scritta adrenalina, prendile. Anzi no, faccio io. Tu continua a praticare il massaggio al mio posto. Fai una pressione forte e regolare sul petto, non ti fermare. Mi raccomando ritmo regolare, forte pressione».
Il medico estrasse la siringa, aspirò il liquido dalla fiala e lo iniettò nel braccio.
«Ha un arresto cardiaco. L’adrenalina dovrebbe riattivare il battito. Pasquale continua il massaggio. È questione di un paio di minuti, dovremmo avercela fatta».
Ascoltò il cuore con lo stetoscopio, il suo viso si rabbuiò. Ascoltò di nuovo ed un senso di sorpresa si dipinse sulla sua faccia. «Non si riprende». Estrasse un’altra fiala.
«Lidocaina: proviamo con questa. Comincio a pensare che non ce la farà. Il battito è quasi assente».
Iniettò il nuovo farmaco e riprese il massaggio. Il medico si fermò nel silenzio della sala, la morte pervadeva ogni cosa. Una presenza nuova, angosciante che si annunciava a tutti, li rendeva assenti e spauriti.
«Mi dispiace è morto: arresto cardiaco. Un uomo giovane, apparentemente sano: è stato sfortunato, forse in ospedale lo avrei potuto salvare».
L’anziano signore si chinò sul corpo esanime e chiuse delicatamente le palpebre al morto.
«So che mi chiedevi aiuto e volevi dirmi qualcosa di importante, ma non sono riuscito a capire che le parole non potevano uscire dalla tua bocca. Non ti sono stato utile e ti auguro un viaggio felice nel mondo delle anime sperando che la tua giovinezza non ti trattenga come ombra ancora tra noi».
La donna piangeva lentamente ed il compagno cercava invece di consolarla. I due baristi erano impietriti e non sapevano cosa fare.
«Gaetano, occorre avvisare qualcuno, chiamare la polizia, fare qualcosa. Sei proprio sicuro? È morto? Non puoi fare niente?». L’amico attendeva una risposta impossibile.
Il medico scosse la testa, i suoi cenni negativi fermarono le domande.
«Chissà da dove viene, chi sarà? – pensava la donna – Avrà una famiglia? Forse dovremmo sapere chi è. Avrà dei documenti, dei numeri telefonici. Potremmo avvisare i suoi o sarà solo, senza nessuno».
Una punta di tristezza le penetrò l’animo a questo ultimo pensiero
«Nessuno dovrebbe morire lontano da una mano amica, da una voce cara. Non lo vorrei per me».
Il medico frugò nelle tasche del giaccone e ne estrasse un portamonete e da esso una patente.
«Fragalà Giuseppe nato ad Africo il 12.01.1960 residente in Reggio Calabria, professione commissario di pubblica sicurezza».
«Un commissario – mormorò l’anziano signore – Un calabrese, chissà perché era qua, così lontano dalla sua terra?».
Si sentiva il suono della sirena, sempre più forte e vicino.