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“Rosso”, ecco l’undicesimo capitolo del libro di Mario Aloe

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Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco l’undicesimo

“Rosso”, ecco l’undicesimo capitolo del libro di Mario Aloe

Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco l’undicesimo

 

 

GIOVEDÌ 16 MAGGIO 1996
Si trovava davanti allo specchio, uno specchio grande, capace di contenere la sua immagine per intera e di rimandare indietro, anche, elementi della stanza: una parte di armadio, le tende del balcone, un pezzo di letto. Lo aveva comprato grande perché, fin da piccola, le era piaciuto guardarsi e parlarsi: lo trovava intrigante e le permetteva di conoscere come era fatta e non solo fisicamente.
Dentro, ora, vedeva se stessa: il viso, occhi, capelli ancora spettinati e arruffati dalla notte. Era sola, non c’era altro: una superficie silenziosa riempita soltanto dalla propria figura.
Batté le palpebre più volte, come per ridestarsi, per richiamare, con un cenno, ricordi, sensazioni o meglio ancora emozioni.
Si esaminò gli occhi e li vide fermi e smarriti.
Dov’erano? Sapeva che erano là, con lei, incapaci di ridere, di ravvivarsi, di parlarle. Aveva desiderio di sentirli. La sua anima era muta, non in grado di staccarsi dall’immagine nello specchio: era trattenuta da una forza inconscia ed ignota che la bloccava, sebbene l’umore grigio, che proveniva da se stessa, le consigliasse di allontanarsi. Si sforzò di aprire la bocca, di atteggiarla ad un sorriso, mentre, al momento, vedeva soltanto un ghigno.
Aveva dormito male: ancora non riusciva a richiamare sé stessa e si sentiva dispersa in tanti luoghi del proprio passato recente. Sì, un pezzo era rimasto in un sogno lontano, di cui ricordava solo la confusione, un altro era, ancora più distante, fermo alla telefonata che aveva ricevuto la sera prima da Salvatore.
Adesso vedeva il viso dell’uomo emergere nello specchio, al suo fianco. Un volto ridente e i cui tratti la cercavano, la scrutavano fin dentro e la facevano perdere. Avvertiva la stessa, forte ed intensa, ansia che provava, dal vero, quando lui la fissava: un mondo sconosciuto si apriva per lei. Mai le era successo una cosa simile, un’attenzione totale che la scuoteva, fino a farle perdere l’orientamento, a farla vibrare.
«Che vuoi? Fantastichi che io sia disponibile e ai tuoi comandi, che basti che tu faccia un fischio per farmi accorrere: un cane a cui il padrone da una carezza o lancia l’osso. Mi guardi, con quei tuoi occhi che cercano e reputi di riuscire ad ammaliarmi, come in uno spettacolo circense: non sei il mio domatore. Basta che io giri gli occhi dall’altra parte e ti cancello e tu non ci sei più! Ti cancello adesso, non scherzo. Sono forte abbastanza da staccare la spina, tu non mi conosci bene, presumi di sapere chi io sia, invece…».
L’immagine dell’altro sembrava sfidarla: «Provaci, dai da brava, se hai coraggio, provaci! Mandami via ed io mi affaccio nella tua testa, ricompaio sulla tua fronte e poi… tu non hai nessuna voglia di cacciarmi: stai comoda con me. Non farmi diventare un’abitudine, ti annoieresti ed, allora sì, sarei fregato e scordato nei gesti di ogni giorno, nella noia che accompagna la nostra vita e ci fa desiderare le cose consuete e conosciute».
Parlava con lo specchio e parlava per tutti e due. I riflessi che si irradiavano dal vetro parevano reali ed in movimento, non voleva che svanissero ora, che si sentiva presente, tutta intera, ricomposta là e non assente, trattenuta in qualche parte della sua esistenza.
«Tu pensi che io non sia capace di allontanarti, ma noi siamo già lontani: tu nella tua vita a Roma ed io qui nella mia, centinaia di chilometri ci separano. In questo stesso momento, forse, sei con un’altra donna: dici a lei le cose che hai già detto a me, giochi con lei e guizzi nei suoi pensieri aspettando il suo sorriso e concedi ad altre quello che io vorrei solo per me… sì, soltanto per me. Assurdo, sono gelosa davanti ad uno specchio e tu te la ridi beato del fatto che io ti ho dentro di me e non riesco a farne a meno. Ti fa piacere quello che ti confesso: sei felice del fatto che ti sei introdotto nella mia esistenza e non riesco ad allontanarti. Vuoi udire queste parole, dillo! Forse, sei solo nella tua casa e mi stai pensando e, anche tu, avverti questo senso di oppressione nel petto, questa mancanza di respiro causata dalla mia assenza».
I suoi occhi, ora, erano diventati pieni di vita.
«Sono in grado, pure io, di far vibrare le corde del tuo animo sai; hai ragione ho voglia della tua compagnia. Guardami: sono bella, desiderabile, le mie gambe ti piacciono, confessalo. Non mi osservi, sono brutta? Forse sono brutta e non ti piaccio abbastanza». E continuando a voce alta: «Come sei lontano Salvatore, troppo distante, non mi basta il tuo fantasma. Come si fa? Non riuscirò a fermarmi, sebbene il pensiero che tu resti con me mi da l’idea dell’eternità: l’assoluto in un momento. Ridi, ridi di me che sono una sciocca e mi comporto da scema e non avvicinare il muso: non voglio il tuo bacio. Non ti permetterò di mettere la mano dove dici di trovare la mia carne, la forma del mio corpo e le vibrazioni della mia anima: là, nel punto di congiunzione tra gamba e coscia, dietro il ginocchio Non capisco perché proprio lì, eppure mi fa piacere pensare a questa tua fissazione».
Rideva ad alta voce, contenta di se stessa, della propria follia; non si sentiva più scontrosa, offuscata dal buco nero che aveva dentro.
Da sempre, almeno da quando era ragazza, aveva avvertito questo senso di vuoto che la risucchiava dentro di sé, alla ricerca dei perché. Si arrampicava sugli avvenimenti accaduti e si fermava su quanta emozione questi avevano lasciato nel suo spirito.
Gli altri attraversavano la sua mente e prendevano vita: lei parlava per tutti. Gli altri, ognuno con la propria croce, ognuno davanti al davanzale della vita, in attesa del suo arrivo o che lei passasse e desse valore e significato alle cose, come se fosse lei a dare senso al mondo, agli esseri che lo popolavano, come in una fiaba: Chiara nel paese delle meraviglie. Poi, si era accorta che nessuno la aspettava e questa consapevolezza aveva fatto svanire il senso di angoscia, ma non il vuoto che la spingeva a cercare, la metteva nelle condizioni di vedere la propria essenza e di percepire quella degli altri.
Sarebbe andata, anche lei, a Lecco, aveva deciso: Salvatore la intrigava, sebbene sapesse che non si sarebbero fermati, non avrebbero percepito “il battito di ali degli angeli”: per loro c’era solo una serie di presenti, di giornate che non si
sarebbero proiettate nel futuro per annullare la percezione del tempo.
Assomigliavano ai personaggi di due differenti romanzi che anelavano di incontrarsi, ma erano prigionieri delle proprie storie. La trama era già scritta e portava in un’altra direzione: come se Anna Karenina, dell’omonimo romanzo ed il principe Andrei di Guerra e Pace divenissero i protagonisti di un nuovo racconto.
L’idea le piaceva, una nuova storia con due personaggi notevoli, ma era ridicolo il pensiero di metterli insieme in una nuova opera anche se questa, a differenza del racconto, era la loro vita: giusto il romanzo della loro vita.
Voleva andare, nessuno sarebbe riuscita a fermarla, era troppo forte il filo sottile dell’emozione che la spingeva, era un vento impetuoso che faceva volare l’aliante della sua esistenza verso Lecco, in quel luogo c’era lui: il pezzo mancante della sua anima.
Doveva telefonare al lavoro per chiedere due giornate di ferie. Avrebbe trovato una scusa, la prima che gli sarebbe venuta in mente: quattro giorni insieme valevano anche cento bugie. Quello che lui cercava non gli importava? Dell’impresa in cui si era imbarcato non gli interessava niente?
No, lo avrebbe aiutato a prescindere da quello che provava nel petto.
Era preziosa l’opera di denuncia che Salvatore conduceva, rendeva partecipe il pubblico delle schifezze che venivano seppellite nei mari e in tante cave, delle porcherie che venivano lasciate in giro e sperava che quelle persone losche e terribili che avevano messo su il traffico venissero colpite, arrestate, chiuse, per sempre, dietro le sbarre.
La sua coscienza civile urlava dicendole: «Guarda che ci sono anche io e vengo prima di lui. Senza di me non l’avresti nemmeno incontrato e sei sicura che ti voglia o desidera, soltanto, il tuo corpo? Sì, è come gli altri che incontri e che vorrebbero metterti le mani addosso».
Si rendeva conto di avere due anime dentro di sé, incapaci al momento di fare pace. Il treno l’avrebbe portata prima a Genova e, dopo Torino, a Milano; là si sarebbero incontrati nel pomeriggio.
La Stazione Centrale di Milano era affollata di gente ed il piazzale del binario 12 ancora di più per i passeggeri scesi dal rapido appena arrivato da Roma. Doveva aspettare un’oretta per il treno di Chiara e si era avviato verso uno dei bar per bere un caffè: quello del vagone ristorante, una schifezza! La bocca tratteneva, tuttora, un cattivo sapore.
La volta in metallo della stazione gli trasmetteva l’idea di Europa, la città, già nei punti di arrivo, annunciava la sua appartenenza a qualcosa di diverso: ad un’idea che potevi ritrovare a Vienna, a Berlino, a Praga. Per più di duecento anni, nel lombardo-veneto, vi erano stati gli asburgici: il loro governo aveva lasciato impronta indelebile nelle cose e negli stili dei palazzi. In seguito, l’arrivo degli immigrati dal Sud ne aveva addolcito lo spirito, lo aveva reso arioso, aperto, con il sapore del mare sia nelle tante inflessioni della lingua che nei rapporti di tutti i giorni. La città, così, era diventata italiana, crocevia di gente proveniente da tante regioni e luogo della finanza e dell’impresa nazionale: la capitale “morale” si diceva un tempo.
La voce di un uomo lo richiamò indietro da questi pensieri, un giovanottone di 25-28 anni, coi capelli scuri ed il volto abbronzato; un siciliano o un mediorientale.
«Dottore, mi scusi, avrei bisogno di parlarle, le interesserebbe sapere qualcosa su dei bidoni di scorie affondati nel Mediterraneo? Potrei suggerirle qualche idea su alcuni trasporti di materiale nucleare dal Sud Italia in Iraq e raccontarle di un aereo caduto a largo della Sicilia».
L’attenzione del giornalista divenne allarmata ed anche il suo passo frettoloso, come se volesse fuggire, allontanare la voce di chi gli parlava.
Lo sconosciuto avvertì il cambiamento di umore e con fare sicuro e voce piana continuo: «Non si spaventi, ho solo delle informazioni da darle, se è interessato. La seguiamo con molta attenzione e simpatia: lei è una persona valente».
«Tu chi sei, come fai a conoscermi e come sai che sono interessato alle scorie?».
«Abbiamo orecchie grandi e occhi di falco e sappiamo chi

ci può aiutare anche se non è nostro amico. Prendiamo il caffè, ci sediamo, comodamente, e chiacchieriamo: una spia che parla ad un giornalista, una spia amica, guardi il lato comico della storia».
Un sorriso aperto dissipò ogni indecisione. Si sedettero al bar e sorseggiarono la bevanda, dopo averla zuccherata.
«Cosa sai che mi può interessare e in nome di chi parli?».
«Mi segua, noi siamo interessati affinché il traffico di materiale nucleare, verso i paesi arabi, sia bloccato e se non ci riusciamo tramite la diplomazia il suo lavoro può venirci utile costringendo la politica a fermarlo. Un bello scandalo e la cronaca del malaffare: noi le forniamo delle indicazioni, poi, lei fa il giornalista, costruisce le inchieste. Non debbo insegnarle io il suo lavoro, lo sa fare già bene e sta sollevando un putiferio anche senza di noi. Non riesce a rendersene conto ancora, ma sta arrivando al cuore del problema, non sa quante persone sono in agitazione e quante altre, invece, sono in movimento per bloccarla, per rendere inutile quello che ha già scoperto. Cominciano a credere che lei sia un impiccione, un guastafeste e progetteranno di farle del male, e non solo moralmente, mettendo in circolazione maldicenze, costruendo dossier sulla sua vita privata. Io faccio la mia parte e le garantisco che nessuno la minaccerà o sarà in grado di torcerle un capello e questo vale anche per la sua bella amica in arrivo dalla Liguria.
«Non posso lavorare per te e per i tuoi padroni anche se fossi d’accordo con voi e sposassi la vostra causa. Me lo impedisce la deontologia professionale, inoltre credo che non abbiate ragione perché immagino chi siete e di voi non condivido quello che state facendo alla Palestina».
«Mi chiamo Davide e sono nato ad Anzio, la mia famiglia vive in Italia da centinaia di anni: si può dire che, se vogliamo sottilizzare, sono più italiano io di lei. Abbiamo vissuto nei ghetti che ci avete permesso di abitare e, siccome per voi era peccaminoso, ci avete consentito di prestare soldi ad interessi, di commerciare e accumulare denaro. Il male, per la vostra morale, era riconoscibile sulle nostre carni e noi abbiamo parlato italiano, spagnolo, polacco, russo. Adesso, abbiamo
una patria, una terra nostra dove non permetteremo a nessuno di farci del male, di trasportarci in carri bestiame verso il macello mentre la vostra coscienza civile e di cristiani era in vacanza o faceva affari coi nazisti e i fascisti. È nostro dovere fare tutto il necessario per impedire che si creino minacce alla sicurezza del nostro popolo, ognuno di noi deve essere impegnato, fino a donare la propria vita ed io sono qua a fare il mio dovere: sono un combattente».
«Non mi interessa quello che fate. A volte sembra che l’Olocausto abbia creato in voi una barriera che vi impedisce di vedere le sofferenze che infliggete agli altri: un muro spesso dietro al quale vi nascondete, una giustificazione per tutte le vostre cattive azioni. Puoi prendere, questa mia riflessione, come un peccato di lesa maestà e gridare allo scandalo, come di solito fate utilizzando i giornali di mezzo mondo. Rispetto il vostro diritto ad avere una terra, un vostro Stato e che non siate minacciati, ma non vi è attenuante per chi spara su ragazzi, distrugge le case di uomini deboli, taglia gli ulivi e nega il diritto alla vita ad altri esseri. Farò il giornalista, cercherò i fatti, li metterò su carta, ne farò articoli, ma non mi presto al vostro gioco. Ti ringrazio per l’attenzione, ma preferisco che la dedichiate ad altri e mi lasciate in pace: non voglio esser al servizio di nessuno! Ho già un editore che mi paga e mi basta».
«Ricordi, dottore, che l’Italia non ha più centrali nucleari e non è, per sua scelta, una potenza atomica eppure, in qualche parte del sud, viene arricchito l’uranio: voi non lo utilizzate e quindi? La prosecuzione del ragionamento la lascio a lei e, poi, forse quell’aereo portava, all’insaputa di tutti, un carico illegale per i vostri amici arabi? Non ci avevi pensato dottore ed hanno pagato degli innocenti le colpe di chi si nasconde nell’ombra».
Si alzò dal tavolo e, con un sorriso aperto, salutò e scomparve tra la folla.
Davide, un nome falso? L’italiano parlato era perfetto, sicuramente madrelingua. Davide, un nuovo attore sulla scena del suo film, inquietante per le connessioni che richiamava: anche i servizi stranieri entravano, a bandiere spiegate, nella storia.
Era preoccupato per aver invitato Chiara ad accompagnarlo; rischiava di metterla in pericolo?
Il pensiero gli creava disagio, eppure una parte della sua mente non accettava quello che era appena avvenuto: non riusciva a spiegarsi cosa legava il traffico di scorie nucleari e di rifiuti speciali con il commercio di uranio arricchito.
Lo volevano intimorire, portare su una falsa pista richiamando la sua attenzione agli intrighi internazionali nel Mediterraneo, in maniera che non seguisse la “monnezza”.
Lui era lì per il colloquio con l’avv. Lagherio. Dopo tanti tentativi, era riuscito ad avere l’appuntamento per venerdì 17 maggio ed, ora, Davide gli indicava una strada diversa.
Era quello il suo nome ed era veritiera la storia che gli aveva raccontato? Aveva dei dubbi, dei seri dubbi: non tutto combaciava.
Sebbene le voci, che erano circolate, non si era mai accertato che in Basilicata venisse arricchito l’uranio. Al contrario le indagini avevano, sempre, dimostrato l’opposto e poi perché l’Italia doveva aiutare gli arabi, gli americani l’avrebbero permesso? Non era verosimile, neanche, la storia dell’aereo, forse era stato un missile ad abbatterlo, probabilmente, in un gioco di guerra tra caccia della NATO e MIG libici.
Tutto smentiva l’incontro. Decise, per il momento, di mettere da parte ogni dubbio e di non parlarne a Chiara. Desiderava trascorrere con lei quattro giornate senza problemi, ore dedicate a sé stessi, al lago e al lavoro. La professione gli dava questo privilegio; godere dei luoghi senza essere in vacanza e arrivando dove le proprie finanze non avrebbero consentito.
Giunsero a Lecco prima di sera e si sistemarono all’Hotel Napoli, in via Roma, a due passi dal lungolago.
L’avv. Lagherio era stato fermato dalla polizia di confine finendo in un’inchiesta sul traffico illegale di rifiuti. L’uomo era al centro di una fitta rete di interessi, di società di brokeraggio, di gestione di discariche, di esperimenti per il riciclo delle scorie. Non riusciva a comprendere cosa studiassero considerato che non erano impegnati nelle costruzioni di impianti a basso impatto ecologico, eppure sul sito aveva trovato
una bella pagina con un laboratorio ampio e luminoso e tanti omini in camice bianco.
Il prodotto veniva presentato nel migliore dei modi: sterilizzato, pulito ed in grado di risolvere i gravi problemi dell’inquinamento, una speranza per il futuro dell’uomo e delle società civilizzate.
Una galassia composita di società finanziarie, intrecci di partecipazioni di capitali – leader nel suo campo in Italia – era stata messa su in vari paradisi fiscali in maniera da far perdere le tracce. Di lui si sapeva poco e quel poco era seppellito sotto una spessa coltre di bugie, costruite con metodica sistematicità.
L’appuntamento si svolse nello studio dell’avvocato, in Via Leonardo da Vinci, una targa appariscente all’entrata e poi al primo piano uno ufficio vasto.
Fu annunciato e Lagherio lo ricevette nel suo ufficio: una stanza con scaffali pieni di codici, libri di diritto, riviste in inglese, tutto in perfetto ordine. L’uomo amava i particolari. Le rifiniture della stanza erano minuziose e le tende, con disegni geometrici coi motivi ripetuti rispettando millimetricamente la trama, confermavano l’impressione.
L’uomo del mistero, davanti a lui, sembrava uno di quei legali d’affari, curatori di fortune familiari e di investimenti ragguardevoli, capaci di spostare miliardi da una piazza finanziaria all’altra e non un capitano di imprese.
Percepì, all’improvviso, il quadro d’insieme: era perfetto nelle vesti di faccendiere.
«Le rubo un po’ del suo tempo ed approfitterò della sua pazienza. Lei deve essere una persona importante, per raggiungerla ho dovuto sudare le proverbiali sette camicie e attivare tutti le relazioni di un grande giornale. Sono Salvatore Zafarone, l’inviato del quotidiano romano».
«Si accomodi dottore, conoscerà già il mio nome, comunque, per non creare equivoci, mi chiamo Sergio Lagherio, serve a rompere il formalismo che ci separa: sono qui per rispondere alle sue domande. Ho rinviato gli appuntamenti che era possibile rinviare, mentre ho annullato gli altri; sono interessato a fare luce sulle mie attività approfittando della
presenza della stampa nemica. Un alone di perversità sembra che accompagni le mie imprese: traffici di rifiuti, commercio di armi, riciclaggio, spionaggio ed altro ancora. Sono divenuto così la figura perfetta su cui scaricare il marcio e da additare alla pubblica opinione. Non nego di avere delle buone frequentazioni e di conoscere gente importante sia in Italia che all’estero. Non ho fatto, mai, mistero di essere impegnato in un’impresa alternativa per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi».
«Avvocato lei è sospettato di concorrere all’affondamento di navi con presunti carichi pericolosi e molti affermano che sia al centro di un’ampia rete che si muove tra massoneria, mafia, servizi ed affari».
«La ringrazio per l’importanza che dà alla mia persona, mi guardi, mi soppesi; ha, sicuramente, osservato il mio studio: ha ricevuto la sensazione di un uomo che da qui possa fare tutto quello di cui l’accusano?».
Un sorriso aperto si stampò sulla sua bocca, lasciando intravvedere dei denti curatissimi, un sorriso enigmatico e nello stesso tempo disarmante. Da un lato sembrava dire “non riuscirai a comprendere mai quello che sono” dall’altro si rendeva disponibile, si presentava disarmato: una personalità complessa, sicuramente notevole ed in grado di nascondere qualsiasi malefatta.
«La sua Nuclear waste disposal company for slo di cosa si occupa e dove opera?».
«Debbo premettere che la compagnia per lo smaltimento nucleare è presente in 15 paesi e si occupa del problema delle scorie. Al momento, trattiamo rifiuti di seconda categoria e cui tempi di scomparsa della pericolosità sono stimati al massimo in 300 anni. Utilizziamo tecnologia derivante da una ricerca internazionale, finanziata dai paesi più industrializzati del mondo e pensiamo che il livello di sicurezza raggiunto sia elevato».
«Cosa fate nello specifico, come stoccate i rifiuti, come lì conservate, dove lì depositate? Le risposte a queste domande sono dovute alla nostra opinione pubblica».
«Su di me è stata fatta una campagna di disinformazione da parte della concorrenza per screditarmi e non permettere il decollo di questa nuova idea industriale. Le lastre di rifiuti nucleari vengono stipata in contenitori di piombo, che, a loro volta, sono introdotti in capsule da lanciare in mare in zone dai fondali argillosi. I contenitori e le procedure di stoccaggio iniziale garantiscono una tenuta durevole nel tempo e la penetrazione sotto decine di metri di argilla dei fondali fa il resto. Ad oggi, non esistono metodi, con un rapporto prezzano qualità, uguali e che permettono un risparmio notevole.
La tecnologia da noi proposta può eliminare parte delle scorie prodotte dal nucleare civile».
«Non avete pensato che possano insorgere degli imprevisti, quali terremoti sottomarini, che se ne infischiano della vostra sicurezza e riportano in superficie le capsule o altri fattori in grado di sottoporre i contenitori ad usura accelerata. Le forze della natura sono entrate come variabili nei vostri studi?».
«Guardi, la tecnologia è in fase sperimentale. Abbiamo acquistato dei diritti nelle acque territoriali della Somalia e in altre zone costiere di paesi atlantici africani ed abbiamo contatti, diverse decine, con industrie di primaria importanza».
«Avete sottoposto la vostra tecnologia al controllo e alla certificazione di agenzie internazionali, di enti indipendenti? A noi risulta che, nel mondo scientifico, c’è scetticismo se non contrarietà per i mezzi che adoperate».
«L’industria dello smaltimento e stoccaggio di scorie nucleari fa grandi profitti ed applica prezzi esorbitanti, mentre noi proponiamo un abbattimento dei costi di quasi il 70% e lei crede che se ne stiamo, calmi e tranquilli, a vedere svanire centinaia di miliardi di guadagno? Siamo noi gli aggrediti, quelli sottoposti ad attacco da parte di chi gestisce il settore e le campagne di stampa ne sono la riprova».
«Come si combinano questi affari sulle scorie con il commercio di armi in Africa e America Latina? Non dica che sono invenzioni: lei è stato inquisito varie volte e, in più di una, è stato accertato il suo rapporto con i servizi segreti di stati esteri. Le armi servono a pagare le concessioni? Finanziate la guerra per essere liberi di fare quello che volete? Legate a voi regimi corrotti e bande di criminali e li rendete succubi, disponibili alle vostre sperimentazioni».
Il clima era cambiato all’improvviso, si sentiva il gelo scendere nello studio.
«Voglio rispondere, sebbene la sua scortesia: non sono stato condannato in nessun procedimento giudiziario e quindi, ad oggi, sono legalmente e ragionevolmente innocente».
«Il suo nome viene fuori, varie volte, tra la Spezia e Livorno: le discariche, le navi piene di containers ricoperte di polvere di marmo come spiegarli? Anche quelli insinuazioni? Costruzioni della concorrenza?».
«Lei cerca una verità che non posso concederle, anzi, debbo confessarmi che è stato uno sbaglio averle concesso l’intervista, uno sbaglio dettato dalla buona fede a fronte di un tentativo palese di denigrazione. Può bastare e la prego di accomodarsi fuori. Qualsiasi intervista che contenga insinuazioni e falsità sarà perseguita per via legale. Buon pomeriggio».