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“Rosso”, ecco l’ottavo capitolo del libro di Mario Aloe

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Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco l’ottavo

“Rosso”, ecco l’ottavo capitolo del libro di Mario Aloe

Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco l’ottavo

 

 

FIRENZE, 20 DICEMBRE 1995
Bello il contatto di una mano che la cercava, la tastava, si poggiava lievemente sul suo seno e qui trovava riposo come il viandante nell’ostello, dopo un lungo viaggio, un rifugio sicuro.
Chi la cercava doveva essere affamato, un mendicante che l’indigenza spinge agli angoli della strada a chiedere, senza vergogna, con voce indecisa e tremante.
Un estraneo a cui non poteva negare la dimora del proprio petto, il calore della propria pelle.
Lo voleva stretto a sé, sentiva, forte, la necessità di aderire al suo corpo, di coglierne i movimenti, di sentirne le titubanze.
Chi era la persona che le stava accanto e di cui sentiva il respiro regolare scorrerle nei capelli: un respiro caldo e rassicurante che accompagnava il suo risveglio donandole questo strano senso di pace e di inquietudine.
Si trovava nella condizione di non sapere niente, di non essere sicura di nulla: conosceva il suo nome e poi…
Non c’erano né poi né prima: si sentiva una sciocca adesso, un essere felice a cui il battito delle ciglia del compagno suscitava contentezza.
Doveva bastarle. Era stata bene con lui: avevano cenato, riso e si erano guardati con desiderio distogliendo gli occhi per poi ritornare a parlare, a sondarsi e a riempire il loro animo del desiderio dell’altro.
Un gioco delizioso, in cui il suono delle parole arrivava come musica perfetta, in grado di raggiungere le profondità dello spirito per risalire nei tratti del viso e nei movimenti delle mani.
Una serata di gioia!
Le barriere che si frapponevano alla comunicazione erano state abbattute, d’incanto, senza difficoltà e le poche volte che era sorto un moto d’imbarazzo, una smorfia o il cenno della testa erano bastati per superarlo.
Come era avvenuto questo miracolo non lo sapeva e nemmeno le interessava saperlo: tentava adesso di trattenere l’emozione, di non disperderla con domande frutto della morale.
Non sentiva nessuna colpa e, poi, per essere colpevole ci voleva il peccato e lei si sentiva pura.
Avevano fatto l’amore.
Cosa c’era di strano, era naturale tra una donna ed un uomo e lei era attratta da Salvatore, non innamorata, ma attratta: una sensazione fisica la sua, senza spiegazione e ragione, in grado di accenderla.
Pensò al fuoco, alla fiamma che divampa: Salvatore era il suo accendino. Uno scatto ed ecco la fiammella; uno sguardo e il suo essere diveniva un rogo; le parole dell’altro la tramutavano in un incendio il cui fulgore l’uomo poteva percepire.
Si tirò le coperte, fin sopra le spalle, avvertendone il calore.
Era bello stare nel letto a
chiedersi, a
guardare la stanza e la luce del mattino che filtrava dalle tende, ad aspettare, senza sapere che cosa.
Era là per impegno civile e militanza, le era andata dietro volentieri e, ora, cosa sarebbe successo: si sarebbero alzati, avrebbero girovagato e poi?
Non doveva fare così. Basta! Occorreva fermarsi, non domandare al giorno cosa sarebbe successo.
Era bello stargli vicino, posò la mano sulla sua ad avvolgerlo in una carezza lenta, a tastarlo per trattenerlo, per assaporarne la pelle, assaporarne l’animo.
Voleva fermarlo, sì voleva fermarlo, la vita voleva che fosse quella, trattenuta in un letto di albergo a Firenze insieme a quell’uomo.
No, non doveva fare così: si sarebbero alzati e guardati e, forse, non avrebbe, più, trovato in lui la sua immagine, gli occhi dell’uomo non l’avrebbero più riflessa.
«Avverto inquietudine nella stretta della tua mano, un tocco dubbioso pieno di incertezza. Sono qui incollato al caldo del tuo corpo e, per il momento, non ho nessuna intenzione di lasciarti. Si sta troppo bene, attaccato a te, sentendo le vibrazioni del tuo corpo. È presto, stiamo nel letto se voi parla60
mi, raccontami qualcosa: mi piacciono le favole».
«Io sono una bambina, come te, e le favole le amo ascoltare».
«Sei tu la mia favola: un racconto lento. Non ti muovere, non voglio perdere le parole e non permetterò che la strega cattiva porti via questa gioia».
Stettero accucciati l’una stretta all’altro.
Driin, drriinn, driin: il telefono ruppe l’incanto.
L’uomo cercò la cornetta sul comodino e l’attaccò all’orecchio.
«Il pezzo ha colto nel segno: c’è un putiferio e sei stato ripreso da tutte le agenzie. Totò, hai fatto meglio di quello che speravo, sei riuscito, in breve, ad individuare la trama dell’intrigo. Ti ho fatto dare la prima pagina».
Piergiorgio era un fiume in piena, l’entusiasmo era sincero e la soddisfazione per il lavoro svolto evidente.
«Ho finito, nel pomeriggio ritorno a Roma. Parleremo quando arrivo, ti racconto tutto. Ho potuto contare sull’aiuto di un gruppo di persone valorose, sì, valorose perché ci vuole coraggio a sfidare questo mostro cresciuto nel malaffare e negli intrighi».
Riattaccò e cercò la mano della donna trovandola irrigidita, offesa, come se, d’improvviso, avesse ricevuto un trauma, un’offesa mortale. Senza accorgersene l’aveva allontanata. Era stato qualcosa nella telefonata a turbarla, ma cosa?
«Non sapevo che saresti partito subito. Sia chiaro non voglio trattenerti, né mi sono fatta illusioni su di noi. Non mi devi nulla ed io non ho diritti da accampare».
L’aveva offesa, non riusciva mai a rendersi conto che gli altri c’erano e l’universo non finiva con lui.
«Ti chiedo scusa, sono stato uno stronzo…».
«E di cosa dovresti scusarti, abbiamo solo scopato: non hai carpito questa nottata, l’ho voluta anch’io».
«Chiara non allontanarti, non negarmi la tua anima, non mettere un telo sui tuoi occhi. Sono troppo indurito e tu mi hai sciolto: non negarti, ti prego».
«Non amo essere pregata dagli uomini. Bravo, l’articolo ha avuto la prima pagina così, anche, noi abbiamo raggiunto il
nostro obiettivo. Da ora in poi non potranno più fare finta di niente, saranno costretti a controllare i traffici del porto. La tua presenza ha portato qualcosa di buono e non pensare che il buono sia tu stesso. Sei come gli altri, parli e poi, quando hai ricevuto, ti allontani. Mi hai avuto, ma, per fortuna, non hai avuto la mia anima. Mi illudo, di tanto in tanto, e non guardarmi con gli occhioni grandi: io non allevo bambini e non sarà certo l’aria infantile che hai stampata in faccia a farmi ricredere».
«Sì, il pezzo era buono, ma io l’ho scritto per te. Tu mi hai costretto ad indagare e collegare, hai rotto l’indugio che era in me. È stato il desiderio di esserti vicino, di vedere il mondo coi tuoi occhi che mi ha obbligato a mettere da parte l’indolenza scendendo in guerra, in guerra perché per me non finisce qua. Andrò avanti. Mi potrai ignorare, non mi permetterai di vederti più, ma io combatterò questa guerra fino in fondo e tu mi hai insegnato che ne vale la pena. Se pena ci sarà, la accetterò come un rischio da affrontare e conseguenza da subire. Non voglio la tua attenzione come “eroe”, desidero il tuo interesse di donna, Chiara, di donna».
Era ritornato come il giorno prima, riusciva ad impossessarsi di lei, a farla sentire viva: forse era vero che non voleva ferirla.
«Dobbiamo uscire! Voglio il giornale, chissà la gioia dei miei amici, finalmente un risultato. Dai mettiamoci in movimento per il resto si vedrà».