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TAURIANOVA (RC), LUNEDì 29 APRILE 2024

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“Rosso”, ecco il sedicesimo capitolo del libro di Mario Aloe

“Rosso”, ecco il sedicesimo capitolo del libro di Mario Aloe

Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il quindicesimo

“Rosso”, ecco il sedicesimo capitolo del libro di Mario Aloe

Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il sedicesimo

 

 

ROMA, INIZIO LUGLIO 1996
Si avvertiva il caldo dell’estate ed un’umidità fastidiosa, che ti appiccicava la camicia sulla pelle e ti conficcava nella testa il desiderio di una doccia ristoratrice. L’acqua, che ti cadeva a cascata sul capo, levandoti insieme al bagnoschiuma anche la sensazione di sporco, la sognavi ad occhi aperti.
Era stato al giornale a programmare il viaggio in Calabria. Ne aveva discusso e concordato le tappe. Telefonate per prendere contatti ed una puntatina fino a Reggio per parlare con la magistrata, quella Bianchi, che aveva lavorato con il commissario Fragalà.
Il giornale era un’oasi di benessere, l’aria condizionata, sparata nei locali, ti procurava uno stato di rilassatezza e non ti faceva sentire il peso del caldo. Fuori, all’aperto, i muscoli diventavano torpidi e la pelle si impregnava dell’umidità della giornata.
Le navi erano scomparse, anche, nei mari del sud, nel Tirreno meridionale e nello Ionio. Aveva ricostruito una mappa: sulla carta una serie di puntini, luoghi di probabili affondamenti.
Giorni di ricerca, articoli sui quotidiani nazionali e locali, reportages da settimanali e mensili, contatti telefonici con ambientalisti e colloqui con esponenti delle commissioni parlamentari avevano fatto crescere oltre ai dubbi anche i fogli dei suoi appunti. Fogli riempiti di indicazioni, riassunti, riflessioni, date: uno zibaldone del malaffare con nomi che spuntavano per poi scomparire come nei giochi di prestigio.
Non vi erano più remore nella sua testa, esisteva una regia ed un piano ben congegnato: le scorie e i rifiuti nocivi erano un grande affare economico e un problema sociale con conseguenti implicazioni politiche.
Ne aveva avuto consapevolezza a Lecco e, dopo, quella campagna di stampa, subdola, denigratoria, cattiva e le foto di Chiara su quei loschi giornali avevano dissipato ogni incertezza.
Era stato vittima di una violenza privata, un’intromissione nella sua esistenza, un furto di sentimenti. Un ricatto ignobile era stato messo in azione; volevano che smettesse, che la finisse di scrivere e lo avevano colpito, violentando la sua esistenza e quella della giovane donna.
Doveva allontanarla, mettere distanza tra sé e Chiara.
Il silenzio l’avrebbe protetta, allontanata dai rischi e ridato a lei giorni e abitudini.
La sera portava il ponentino, ne assaporava il gusto di salsedine che arrivava dal mare, dopo aver percorso la distanza che separava la città dal Tirreno, e si beava del fresco sul viso. Riusciva a percepirlo, a goderne la sensazione tattile camminando tra la folla in via Del Corso.
Al Panteon aveva passato, quasi, un’ora con l’onorevole a discutere, a chiedere, a porre interrogativi e cercare conferme.
Un caffè doppio con panna, come solo là sapevano fare, era stato una scossa di energia pura. La caffeina subito in circolo nelle vene ed una forza nuova lo pervadeva, lo rendeva attento. L’energia era stata recuperata negli anfratti nascosti dei suoi muscoli e dei suoi neuroni.
Anche loro stavamo raccogliendo informazioni. La Commissione parlamentare aveva ascoltato magistrati, investigatori, scienziati ed emergeva un quadro desolante di complicità, di comportamenti irresponsabili, di occultamenti di prove.
Il problema esisteva, ma le strade percorse per smaltire i rifiuti avrebbero causato, col tempo, danni alla salute richiedendo, successivamente, investimenti pubblici ingenti per la bonifica dei siti.
Una corsa verso la distruzione, l’autodistruzione.
La società viveva nel presente, consumava e buttava i rifiuti e questo parossismo divoratore impediva qualsiasi riflessione, non si poneva domande ed evitava il problema. Una Comunità di uomini privi di senso civico, incapaci di guardare oltre il proprio naso ed intenta solo ad accaparrarsi beni, si stava avviando verso l’inferno.
Volevano energia, consumavano energia mangiando carne, guidando auto, innaffiando giardini, riempiendo piscine, illuminando a giorno le notti.
Il politico aveva chiaro il quadro di riferimento ed era stato piacevole discorrere con lui, scambiare idee.
La piazza era, come al solito affollata, un’isola proveniente dal passato. A fianco del gioiello architettonico sembrava che tutto fosse possibile: l’amore, l’amicizia e l’incontro. Gli esseri umani erano invitati, dalla dimensione della città, ad aprirsi, a trovare le strade più semplici per comunicare.
Sebbene quel clima positivo l’aveva trafitto l’osservazione dell’onorevole: «Cosa credi, pensi che tutto questo andirivieni sia possibile senza la copertura di pezzi dello Stato? Non possiamo illuderci, c’è una costante nella storia italiana e ce la portiamo dietro dalla caduta del fascismo: a fianco delle istituzioni legittime operano gruppi ed apparati illegali, pienamente inseriti nella struttura dello Stato, da Gladio, al SIFAR, dalla P2 a questo merdaio con cui abbiamo a che fare ora. Nell’affare sono coinvolti, sicuramente, politici, parlamentari come me, alti funzionari e chissà chi altri ancora».
Era vero, perfettamente vero.
Come potevano le navi partire, come mai nessuno si accorgeva dei carichi che trasportavano e da ultimo come era possibile che le Procure non arrivassero mai a nulla?
Aveva bisogno di comprare qualcosa di leggero, di estivo.
Il suo guardaroba era all’osso; non riusciva, mai, a far durare i capi di abbigliamento, a conservarli o a ritrovarli, come se la sua casa divorasse la roba: spariva di tutto.
Le magliette dell’anno precedente, i pantaloncini, i calzini non sapeva dove fossero finiti. Riusciva a recuperare poco e mancava sempre qualcosa: quella camicia che gli piaceva, quel comodo bermuda, quella maglietta con la quale si sentiva bello.
Alla fine dell’estate li ritrovava, nell’armadio, nello scatolone conservato in cantina proprio quando, alla fine di settembre, metteva via l’abbigliamento estivo.
Le scarpe erano un tormento per i piedi. Un bel paio di sandali era quello che ci voleva. Dei sandali simili a quelli dei frati, fatti per camminare e tenere i piedi a contatto con l’aria, asciutti e liberi.
Li stava cercando e li aveva osservati, senza comprarli, alcuni giorni prima. Adesso aveva il tempo per prenderli: doveva acquistarli. Si fermò ed entrò. I suoi movimenti erano seguiti da vicino.
Dal pomeriggio, appena uscito dal giornale, un uomo si era incollato, come un’ombra, alla sua persona; un’ombra discreta ed attenta che non perdeva nulla dei suoi passi.
Si era fermato a telefonare un paio di volte, ma, subito, aveva ripreso il pedinamento discreto. Si teneva a breve distanza, attento a non scoprirsi: un gatto dietro il topo.
L’autobus da Piazza Venezia portò Salvatore in prossimità di casa. Lo attendeva una serata di relax, l’agognata doccia, un buon libro e un sonno ristoratore.
Aveva desiderio di sognare, di avere delle visioni oniriche che lo liberassero dalla voglia di riavere Chiara, di sentirla, di accarezzarla.
Un bel sogno e l’amore con una sconosciuta, una donna senza passato e futuro, che emergesse dalla sua mente a fargli compagnia e, poi, per incanto con la sveglia, scomparisse. Un volto come tanti, anonimo e senza storia, frutto di decine di fisionomie, incrocio di tanti tratti e rappresentazione finale del genere femminile.
Non doveva chiamarla: era suo dovere allontanarla. Ogni passo fatto insieme avrebbe rappresentato un pericolo ed un possibile attentato all’integrità della vita della donna.
Impiegò, come al solito, un bel po’ ad aprire la porta. Prima la ricerca della chiave giusta e, dopo, numerosi tentativi, entrando lo stupore: era tutto sottosopra. Cassetti aperti, carte per terra, abiti gettati alla rinfusa, libri spiegazzati, la scrivania sgombera di tutto.
Il caos si era impadronito della sua casa, un caos causato da una mano che cerca, che rovista dappertutto e non lascia al suo posto niente.
La sensazione che provava passò dallo stupore allo sconcerto e poi alla rabbia per ritornare allo stupore.
Cosa volevano da lui, cosa cercavano nel suo appartamento, che segreti volevano carpire? Lui non aveva segreti perché quello che sapeva era di dominio pubblico, lo potevano
leggere sul suo giornale, oppure, se desideravano, potevano chiederglielo di persona.
Volevano impaurirlo, mettergli pressione, tenerlo in tensione, oppure pensavamo che avesse scoperto qualcosa di compromettente.
Erano giunti nella sua tana, si erano intromessi, entrando, nel suo santuario domestico e gli dicevano urlando che nulla poteva impedire loro di seguirlo, averlo e colpirlo in qualsiasi momento.
Sì, sentiva paura: una sensazione che gli occupava la pancia e gli contorceva l’imboccatura dello stomaco e poi gli saliva per l’esofago fino ad impastargli la bocca.
Aveva la lingua secca.
Si riscosse. Andò al frigo, l’acqua! La prese per berne un sorso dalla bottiglia.
Le sue carte erano per terra in una visione sconfortante.
Mancava qualcosa?
Cominciò a raccogliere i fogli, a rimettere al loro posto i libri.
Non aveva nulla da celare o segreti da nascondere. Si sbagliavano.
Invece no, se avevano cercato, pensavano che lui qualcosa sapesse.
Forse gli sfuggiva qualche particolare che, se assemblato agli altri, gli avrebbe chiarito il meccanismo dello smaltimento e lo avrebbe fatto risalire ai vertici dell’organizzazione e a capo del complotto.
Loro sapevano e lui no: doveva riprendere il controllo di se stesso.
Era giunto il momento di fare la doccia, al resto avrebbe pensato dopo.
Entrò nel bagno, anche qui, avevano rovistato. L’armadietto degli asciugamani era aperto come il cassettino dei prodotti da pulizia. Per terra il dentifricio, lo spazzolino, i rasoi e il suo dopobarba era stato versato sul pavimento.
Credevano che lui sapesse e conservasse traccia della loro trama.
Si sentiva sfinito mentre apriva l’acqua e la miscelava: un po’
più calda, ora era troppo e allora, un po’ di quella fredda, fino a raggiungere il perfetto equilibrio del calore e farsi carezzare dal getto continuo.
La schiuma? Doveva lavarsi da tutta quella lordura, non lasciare traccia delle cattive sensazioni che avevano indotto nel suo animo ed instillate sulla sua pelle.
Non aveva mai, prima di allora, avvertito l’odore delle emozioni, adesso lo sentiva forte, provenire da se stesso, riempire, in maniera sgradevole, il suo naso creandogli nausea.
Chiuse gli occhi. L’acqua scorreva, gli accarezzava la pelle, gli inondava gli occhi fino a farglieli bruciare e chiudere.
Erano dei fottuti bastardi, dei professionisti del terrore.
La schiuma scendeva dal suo corpo e sentiva il benessere che ritornava con il senso di pulizia: non l’avrebbero avuta vinta.