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“Rosso”, ecco il diciottesimo capitolo del libro di Mario Aloe

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Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il diciassettesimo

“Rosso”, ecco il diciottesimo capitolo del libro di Mario Aloe

Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il diciottesimo

 

 

IL GIUDICE BIANCHI
Un bel casino, le urla si erano sentite in ogni angolo d’Italia, anche i Tg nazionali avevano ripreso la notizia.
Si era impegnato, attingendo ad ogni sua risorsa mentale, distillando, sapientemente, cronaca, emozioni e buoni sentimenti e li aveva gridati forte, più che poteva.
Sarebbero arrivati inviati dei quotidiani più importanti, delle televisioni e il lavoro giornalistico avrebbe portato all’attenzione della nazione questo lembo di terra.
Non potevano più ignorare il problema, evitare di parlarne, anche il Parlamento si sarebbe mosso, forse una commissione d’inchiesta, oppure un viaggio d’indagine di una di quelle già funzionanti, persino l’Antimafia sarebbe scesa qui.
Che baccano: aveva la mazzetta dei giornali comprati prima di partire, pure quelli, che non riportavano la notizia in prima, vi avevano dedicato, all’interno, almeno una pagina.
Era diventato definitivamente famoso.
Vivere in una valle piena di veleni: cronaca di quando ti uccidono la sorella e il fratello con le scorie, fenomenale, sì fenomenale: non potevamo più sottrarsi, far finta di niente.
Vedeva la processione di politici ed autorità, le audizioni in Prefettura, gli incontri coi magistrati ed i sindaci: bingo!
Alfonso, Filomena e tutti gli altri avrebbero potuto chiedere giustizia, la loro voce, adesso, aveva orecchie costrette ad ascoltare.
L’espresso per Reggio Calabria correva sulla litoranea.
Chiara mancava, ne avvertiva l’assenza e sentiva un buco al centro dell’anima, un baratro che inghiottiva ogni energia e ragionamento.
Il suo profumo era ancora nelle narici e ne gustava il sapore sulle labbra, stringendole cercava di trattenerne la fragranza.
Alla fine, l’avrebbe chiamata, sarebbe ripreso, come d’incanto, il dialogo tra loro con uno sguardo.
Si illudeva: non c’era futuro!
La partita era diventata mortale, lo avvertiva.
Era rischioso toccarlo ora e controproducente, ma, se la minaccia si avvicinava al cuore dell’intrigo, poteva ritenersi al sicuro?
Ragionevolmente doveva considerarsi con un piede nella fossa.
Il treno saliva sul viadotto e sotto Pizzo Calabro, Vibo Valentia e un mare immenso, dai colori cangianti e dal richiamo di fiaba.
Perdersi, questa sarebbe stata la prospettiva migliore per la sua esistenza, lasciarsi alle spalle tutto ed essere dimenticato, non più appartenente a questa vita.
Era possibile inventarsi un’esistenza nuova, poche cose, forse in Micronesia: un puntino nel Pacifico, irrintracciabile.
Mediterraneo di Salvatores gli scorreva negli occhi insieme all’Egeo fatato ed infinito, il mare di Ulisse e delle Sirene: sì, alla fine, si sarebbe perso, un granello di sabbia nell’infinito.
La Giudice Bianchi l’aspettava al Palazzo di Giustizia di Reggio. Una donna magistrato, una figura centrale nel campo dei buoni.
Si era interessato alla sua vita, aveva raccolto notizie, tra la carta stampata e gli addetti ai lavori, fino a farsi un quadro di riferimento della sua personalità e del suo agire.
In magistratura giovanissima, appena dopo la laurea e l’esame di stato aveva vinto il concorso ed era stata distaccata in tribunali di periferia in Puglia distinguendosi per le indagini sulla Sacra Corona e, poi, Reggio Calabria.
Una donna brillante ed attraente, una figlia del sud, anche nell’aspetto, con la pelle scura, i capelli neri su un corpo piccolo e ben fatto.
Dedita al lavoro, estranea a quella corrente dei giudici protagonisti dello spettacolo mediatico, sempre pronti per le interviste e le piazze televisive, non rilasciava interviste.
Era riuscito ad avere l’appuntamento senza dover penare, fare la trafila. Al telefono, ne aveva ascoltato la voce calda e percepito la disponibilità totale a parlare con lui, quasi come se aspettasse la sua chiamata da tempo, come se fosse meravigliata che arrivasse solo adesso, in ritardo.
Strana sensazione: lui cercava l’incontro, ma avvertiva nella voce del giudice una richiesta: “Salvatore Zafarone era ora che chiamassi, che ti facessi vivo. È scritto che le nostre strade devono incontrarsi”.
Aveva aspettato due giorni per rimettere assieme le storie incontrate per l’Italia e ricondurre ad unità la trama.
Scese alla stazione di Reggio Calabria Centrale e si avviò verso Piazza Castello ed il Tribunale.
Non prestava più attenzione a quello che avveniva intorno a lui, non gli interessava se lo seguissero e chi fosse sui suoi passi. Si considerava un bersaglio bene in vista e non opponeva più resistenze mentali all’eventualità di essere ucciso.
In campo aperto era questo quello che sentiva di fare, in campo aperto con le proprie paure, ma con la voglia di arrivare sulle trincee nemiche, conquistare nuovi territori.
Avevano assassinato il commissario Fragalà e, tra poco, lui avrebbe incontrato il suo capo, le avrebbe raccontato del suo peregrinare, di Lagherio, di Davide, del tentativo di investirlo a Lecco e della misteriosa uccisione del suo investitore, delle storie raccolte sul Tirreno.
La città era stata completamente ricostruita dopo il terremoto del 1908. La sua architettura risentiva della semplicità delle linee del moderno: non metteva in mostra la complessità della storia urbanistica dei centri italiani.
Al Tribunale salì al primo piano e percorse il lungo corridoio per metà.
Aveva dato il suo nominativo in portineria e, dopo la conferma, lo avevano fatto salire.
I controlli erano stati discreti.
Non percepiva la sensazione di stato di assedio, di un baluardo circondato dal nemico eppure il nemico era dovunque, forse anche in questo edificio.
Una giovane donna lo aspettava sulla porta di un ufficio: la giudice Bianchi, meno alta di quanto aveva immaginato.
Una donna di 163-165 centimetri di statura, ben proporzionata, in gonna e camicetta, dalla bellezza mediterranea con occhi ardenti dal colore del carbone, tizzoni rifulgenti su un viso tondo.
«Prego, si accomodi dottore Zafarone. Seguo le sue imprese e la conosco dalle foto. La aspettavo da tempo, ma lei era impegnato nella caccia ai cattivi…».
Sorrise facendogli strada nell’ufficio e indicandogli la sedia dove accomodarsi.
Una stanza scarsamente arredata con la scrivania piena di fascicoli.
«Guardi è come la immaginavo, sembra uscito dai suoi articoli: il cavaliere senza macchia».
«Mica sono don Chisciotte, lei mi ricaccia nella sfera dei dilettanti, ma io sono un giornalista e non ho certo l’accuratezza del magistrato, né è mia intenzione averla».
Colpita, come nelle battaglie navali, ma non affondata, anzi solo sfiorata, perché riprese con un risolino sulle labbra: «Ha ragione, spetta a noi scoprire i malvagi. Penserà che ne abbiamo i mezzi e che basti pronunciare le parole giuste perché il braccio della legge raggiunga e prenda i malvagi».
«Non sono così sprovveduto e comprendo che non è semplice raggiungere dei risultati specialmente quando l’illegale compenetra la società legale».
«Noi agiamo in una terra di confine, sappiamo che lo Stato viene percepito come un’entità lontana mentre le ‘ndrine sono presenti nella vita di ogni giorno».
Non era stato difficile avviare la discussione, sembrava che tra loro avvenisse la continuazione di un discorso interrotto, che già si fossero scambiate opinioni ed idee. Si sentiva a suo agio e non aveva bisogno di chiedere, di forzare la discussione per sapere.
Della donna non avvertiva la lontananza e l’estraneità: movimenti, inflessioni della voce, gestualità rappresentavano per lui un fatto usuale, familiare.
«Mi chiamo Marcella, il cognome già lo sai…». Era passata, con tranquilla disinvoltura, al tu, come se fosse normale e che le formalità dell’inizio fossero state una forzatura pronta a scomparire. « Mi hanno mandata in questa procura ed io faccio il mio lavoro. Applico le mie conoscenze ed il mio sapere alle funzioni assegnate. Non credo di fare di più, di andare oltre il dovere di servire la Comunità e mi considero
una donna fortunata per essere riuscita ad avere una funzione importante. Per noi donne è difficile e questo è un posto difficile. Tu sei meridionale, come me, cresciuto con il retaggio di una cultura incapace di liberarsi dalle clientele, dalle contiguità con il malaffare e di affermare il valore della libertà e puoi capire quello che voglio dire».
Salvatore era giunto a Reggio per sapere delle scorie e dei fascicoli aperti e si trovava invischiato in uno scambio esistenziale.
«Giudice non capisco cosa sta succedendo in questa stanza, mi sento accerchiato dalla tua cordialità: io sono qua per aggiungere un altro capitolo al racconto dello smaltimento delle scorie tossiche e trovo te, uno dei maggiori esperti del problema, che mi parli della vita, del lavoro, della diversità femminile. Apprezzo, ma vorrei capire».
«Salvatò hanno assassinato Fragalà e pensano che possa scordare o che lo voglia fare. Hanno lasciato una famiglia senza guida, stroncato una giovane vita ed io prenderò esecutori e mandanti: questa prima verità la puoi appuntare sul tuo taccuino. Non ci siamo fermati, abbiamo raccolto prove, intercettato telefonate, messo al lavoro commissariati in tutta Italia, anche la Guardia Forestale ci ha dato una mano. Siamo riusciti a ricostruire l’intreccio finanziario delle società di Lagherio ed abbiamo incontrato lungo la strada un pezzo dello spionaggio e il generale Fringuello. Il nome non ti dirà niente, ma si tratta del capo del reparto finanziario. I soldi delle operazioni segrete passano dalle sue mani. Non sappiamo, ancora, il livello di coinvolgimento nella trama ma, capirai, che la sua presenza, fa fare un salto alle indagini…».
«Un salto nel nulla Marcella, non riuscirete, mai, a ricostruire i passaggi, ad avere le prove per potere spiccare i mandati di arresto».
«Ti sbagli, abbiamo i riscontri di parte delle transazioni bancarie e sulle carte la firma del generale. Diversi miliardi movimentati con destinazione Lugano. La rogatoria internazionale per l’accesso alla banca svizzera è pronta, ma abbiamo rimandato la richiesta perché si sarebbero accorti di noi e non voglio farmeli scappare proprio adesso. La politica non pote131
va mancare in questa trama e l’onorevole Contatto, si proprio lui, fa parte della cricca. Loro sono sempre al governo, non gli interessa se sia di destra o di sinistra, sono sempre presenti».
«Sei proprio brava, siete riusciti a beccarli finalmente. Non so come hai fatto, ma hai dovuto adoperare mezzi ed uomini per arrivare a questo risultato e questo ti espone a possibili infiltrazioni».
«Il mio gruppo di lavoro è fatto di servitori dello Stato, non tutto è nero da queste parti e il bene e il male, sebbene convivano, tante volte sono separati e tanti uomini e donne sebbene le loro debolezze sono dalla parte del bene in maniera eroica: della gente normale che fa il suo lavoro e detesta la corruzione e la prevaricazione. Se riuscirò a fermare questo traffico sarà un bel risultato e farò, anche io, un bel passo in avanti. Credo in quello che faccio e penso che come procuratore della Repubblica riuscirò a fare ancora di più».
«Alla faccia della sincerità, ecco che le aspirazioni vengono fuori, messe al servizio dei buoni, ma sempre voglia di arrivare è».
«Sono a pochi metri dal traguardo e sono anche ambiziosa, ma non metterei al servizio della mia ambizione niente di truffaldino, non aderirei a cordate che fanno strage della legge e minano la legalità, rendendo problematica la crescita civile di questa terra. Salvatore, noi amiamo questi luoghi, queste patrie: io e te le amiamo, sebbene la nostra indifferenza quotidiana lasci capire il contrario. Cerchiamo di fare bene il nostro mestiere e ci sentiamo responsabili delle azioni che produciamo».
«Marcè, ma tu cosa vuoi da me? Mi devi dire cosa vuoi che io faccia perché comprendo che mi stai chiedendo qualcosa e cerchi di costringermi a farlo».
«Un pentito, ho un pentito che ha raccontato la sua verità: legami tra ‘ndrine, massoneria, finanza ed apparati dello stato in un quadro desolante di degrado civile e di sopraffazione umana. Non riesco, ancora, a risalire negli apparati dei servizi e non ho individuato i referenti nelle logge massoniche: tu mi servi a creare casino, a seminare paura, a sparigliare il gioco. Ho bisogno che tu scriva, riporti le informazioni che ti ho
fornito in questo colloquio, indichi il nome del politico, i suoi legami con la ‘ndrangheta e la massoneria. Un racconto degli scambi di favori, della circolazione del denaro pubblico per finanziare le società di Lagherio e infine devi lasciare intendere che, dietro a tutto questo, c’è una mente che guida l’intrigo e che è annidata all’interno dello Stato. Sono gli stessi di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, dell’Italicus, della Stazione di Bologna, sono loro che hanno messo su questa operazione di inquinamento diffuso delle nostre regioni».
«E poi cosa succede giudice? Chi confermerà i fatti? Sarò accusato di aver inventato la storia, riempito i sospetti di prove senza fondamento… una cagnara dagli esiti scontati».
«Io non ti smentirò, farò subito arrestare Lagherio, inoltrerò la rogatoria internazionale per sapere cosa si nasconde in Svizzera, manderò in Parlamento la richiesta di arresto per l’Onorevole Contatto… Lasceremo la mossa successiva a loro. Voglio proprio vedere quali saranno le azioni che intraprenderanno per uscire dal pantano in cui li stiamo cacciando e come faranno a nascondere le loro brutte facce. Ti farò mettere sotto scorta, non temere».
«Ho già una scorta personale fornitami gratuitamente dal Mossad e non c’è bisogno di farmi seguire da un corteo di protettori. Sì, il Mossad è interessato a stroncare il traffico di materiale radioattivo verso il vicino oriente. Mi hanno raggiunto a Milano: Davide, un loro uomo, è la mia ombra e non so bene quanti altri suoi amici con lui. Hanno già provveduto a far fuori chi aveva tentato di investirmi».
I suoi occhi neri avevano la profondità dell’abisso, trattenevano la luce che ricevevano proiettando soltanto i pensieri che voleva condividere, rendendoli evidenti, così, agli altri. Appariva padrona delle proprie emozioni e dei campi emotivi che si creavano intorno a lei, come se lei stessa riuscisse ad indirizzarli.
Marcella era una presenza inquietante e, al contempo, una sorella che ti chiede di aiutarla a superare l’esame o a interessarti del trasloco della sua casa.
Non potevi rifiutare: avresti avuto un senso di colpa perenne e lei te lo avrebbe ricordato, sadicamente, per sempre.
«Siamo a questo punto, non solo le nostre spie, ma anche quelle straniere. Aiutami Salvato’».