Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il decimo
“Rosso”, ecco il decimo capitolo del libro di Mario Aloe
Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il decimo
20 MARZO 1996 ORE 06:00. TIRRENO INFERIORE
San Michele Arcangelo, oltre ad essere patrono della Polizia di Stato è anche protettore della ‘ndrangheta, viene invocato nei rituali di iniziazione.
«È un bel motoscafo nuovo, a chi lo avete fregato? Spero che non abbiate fatto casini ‘uagliù e non ci ritroviamo una denuncia per furto con complicazioni successive. Certe volte sono le cazzatelle che causano i guai maggiori: una pista, un magistrato impiccione, di quelli che non si fanno i cazzi propri e trovano quello che non devono assolutamente trovare. Sapete che, se dovesse succedere, non potrei correre il rischio di lasciare in giro degli stronzi la cui puzza attirerebbe gli sbirri. Toglietevi quel sorriso imbecille dalla faccia e non illudetevi di potermi sfuggire: saprei io stesso dove trovarvi o farvi raggiungere da qualche amico con le mani lunghe. Le conoscete le mani lunghe che arrivano dappertutto, frugano anche nei taschini dei pantaloni ed appena scovano i vermi li schiacciano. Sicurezza e discrezione dovete tenere e sia chiaro che farete quello che vi dico».
Bastava per mettere le cose in chiaro e far comprendere che gli dovevano obbedienza cieca: se avesse comandato loro di buttarsi a mare lo dovevano fare.
«Don Peppe, di un amico nostro, un medico, un ginecologo dell’ospedale, amico nostro e di don Mimmo è la barca. Non ci sarà denuncia di furto, né altro. Lo teniamo il medico, ha tutto da perdere a parlare. Sappiamo di lui gli aborti clandestini fatti, i soldi presi e lui conosce i favori che ci deve per averlo tolto dagli impicci per il vizio che ha di mettere le mani addosso a ragazze minorenni. Lo abbiamo salvato varie volte, protetto dalle famiglie. Lo teniamo stretto, nelle mani, il bastardo. La barca la possiamo prendere quanto vogliamo, senza nemmeno avvisarlo, e se trova il molo vuoto, immagina che la abbiamo noi, ma non saprà neanche che la stiamo usando adesso: è di turno all’ospedale stamattina».
Aveva parlato il più anziano dei tre uomini che lo accompagnavano.
Si erano lasciati alle spalle il porto da quasi cinque minuti e navigavano, in direzione nord-ovest, ad una velocità di quasi 15 nodi marini.
Un gruppo composito a guardarlo da fuori, apparivano quattro persone, ognuna presa da sé stessa e nel contempo riflettevano, come su uno specchio, tratti della loro anima, i caratteri predominanti delle loro personalità.
Non era raro che, nella tensione di un’impresa e nell’attesa dell’azione che stava per avvenire, ognuno lasciasse trasparire di sé un’immagine veritiera e che i veli delle apparenze si rompessero.
Chi aveva parlato era un uomo di rispetto, certo delle proprie azioni, sicuro che quello che faceva era giusto e sacrosanto ed intento a compiere il proprio lavoro.
Dei tre era, sicuramente, il capo, un picciotto d’onore, ormai nell’organizzazione da diversi anni, esperto e ben addestrato. Lasciava intendere di essere pronto, ma anche vigile ed attento a quello che lo circondava, alle reazioni degli altri.
Il ragazzo muscoloso, coi capelli tagliati a zero, aveva degli occhi opachi, che non riflettevano la luce, sembravano non contenere emozioni, se non una gelida lama di crudeltà, che avanzava e trafiggeva tutto: persone e cose.
Non era interessato a compiere nulla se non godere nell’infliggere dolore, non aveva riferimenti se non la selvaggia gerarchia degli animali. Lui, al momento, si trovava ad obbedire ed in cambio non voleva denaro, ma la possibilità di esercitare la violenza e di avere in suo potere degli altri uomini. Da bambino aveva, certamente, ammazzato gatti con le pietre e affogato lucertole. Un tipo pericoloso, ma, nello stesso tempo, da tenere con la frusta, al proprio posto.
Il terzo, sui 22 anni, aveva lo sguardo indeciso, un gregario che si trovava là per caso o per aver seguito, una volta sola, qualcuno e essere stato coinvolto in qualcosa di più grande di lui.
In un altro contesto sarebbe diventato un bravo commercialista, intento a frodare il fisco o un impiegato in qualche Comune a rubare sugli appalti. Dei tre era il meno affidabile: avrebbe sicuramente tradito alla prima occasione per raggiungere un proprio vantaggio o per evitare il carcere.
Era lì perché non sapeva dire no, era lì perché aveva bisogno della cocaina, era lì, con loro, perché non sapeva in quale altro luogo essere.
La barca avanzava sul mare appena increspato dall’onda, il vento era sceso e le condizioni generali del tempo erano buone.
La costa si allontanava velocemente lasciando il posto alla visione dei monti del Pollino e verso sud, molto lontano, del monte Cucuzzo. La neve copriva le vette e, sotto i raggi del sole del mattino, aveva una lucentezza di un biancore immacolato: una visione mozzafiato che non interessava le persone sulla barca.
I loro pensieri inseguivano desideri disparati, percorrevano strade mentali differenti e non avevano spazio per percepire il paesaggio, godere del mare e del suo profumo, inebriarsi del silenzio e della pace che accompagnava la giornata nascente.
Il silenzio era estraneo alle loro anime.
Avrebbero impiegato una quarantina di minuti per raggiungere la nave. Sul navigatore avevano impostato la rotta, il punto di arrivo era a circa 15 miglia marine dalla Calabria. Li avrebbe raggiunto un peschereccio per prelevare l’equipaggio e trasportarlo a Maratea e da quella stazione, su un treno, i marinai sarebbero scomparsi per sempre.
Si accostarono alla nave dopo aver segnalato il loro arrivo. Fu calata una scala lungo la murata ed un carrello per il materiale da portare sopra. Le operazioni di imbarco furono veloci e sul ponte trovarono ad attenderli il comandante, Lazar Ganchev, un bulgaro dall’italiano difficile e dai modi spicci e burberi.
«Capitano siamo arrivati in perfetto orario e pronti a fare il lavoro. Accompagnateci nella stiva ed indicateci il posto giusto per collocare le cariche in maniera da fare un bel buco, sotto la chiglia, consentendo un rapido affondamento di questo vostro gioiello. Mi raccomando tenete gli uomini lontani da noi, non vogliamo rompipalle e spioni tra i piedi».
Sulla poppa si affaccendava un’umanità varia, fatta da arabi, africani e europei orientali, una piccola babele messa insieme dall’armatore in base al principio del massimo risparmio: paghe misere e qualche regalo dopo aver fatto il lavoro.
«Fra un’oretta giungerà il peschereccio per imbarcarvi – don Peppe continuava a parlare – e vi porterà a terra. Sapete voi cosa fare poi, nella borsa, che vi ho consegnata, ci sono i biglietti del treno e quelli per l’aereo per voi ed ognuno dei vostri uomini con un bel pacco dono fatto di tanti soldini.
Avrete il tempo di controllare mentre noi lavoreremo per far calare a picco la carretta: non rimarrete scontento del regalo che vi abbiamo portato». Gli batte una pacca sulla spalla sghignazzando.
Avanzarono nel cuore della nave verso un luogo della stiva che il capitano indicò.
«In questo punto la carena, se bucata, presenta le condizioni migliori per permettere un rapido afflusso di acqua. Un bel buco qui e un altro nella paratia successiva e la nave va a fondo nel giro di 30 minuti, giusto il tempo per essere lontani.
«Don Peppe – era il ragazzo con la testa rasata – Lasciate fare a mia, sistemo tutto e poi collego il timer. Quindici chili di C4 per locale, sistemati nei punti indicati e faremo due botti magnifici, che apriranno buchi larghi alcuni metri. Lo stesso esplosivo lo ho già usato per tirare giù un pilone della superstrada, un lavoro perfetto e vi assicuro che qua succederà la stessa cosa».
«Fate fare a lui – era il più anziano a parlare – Francuzzo sa il suo mestiere e, finora, non ha mai sbagliato. Ha buttato giù di tutto dalla serranda alla palazzina. Un lavoratore perfetto e quante macchine saltate in aria: sempre un bello spettacolo ha saputo fare».
«Auguriamoci che continui e non sbagli proprio adesso, ci tengo ad uscire intero da questa bagnarola e anche voi tre la pensate come me».
«Sìì don Peppe, sì – l’impiegato colse al volo l’opportunità di apparire spiritoso – Anche noi non vogliamo essere parte del botto, dico bene don Peppe».
Il lavoro durò una quarantina di minuti; il C4 attaccato alla carena, i fili collegati al timer: era rimasto solo da posizionare le lancette sull’ora dello scoppio, lo avrebbero fatto dopo. Francuzzo aveva coperto l’esplosivo con dei materassini di gomma piuma per attutire il rumore dell’esplosione.
Ritornarono sulla poppa, il peschereccio era ormeggiato a fianco della nave e l’equipaggio si stava imbarcando: solo il capitano li aspettava. Non avrebbe dato il segnale di soccorso, in questo caso, non c’era l’assicurazione da recuperare, non dovevano lasciare nessuna traccia dietro di loro. Il carico era
stato pagato profumatamente e la nave rientrava nel prezzo.
Francuzzo ritornò giù a innescare le bombe con l’esplosione programmata per le 10:15. Mancavano solo 15 minuti, il tempo necessario per scendere sulla barca ed allontanarsi a distanza di sicurezza.
Erano in mare, a circa tre miglia dalla nave, quando le cariche esplosero e nel giro di pochi minuti li investì la prima onda sollevata dal C4, una serie di onde lunghe che li fecero ballonzolare, poi l’acqua ritornò quiete.
Dopo circa dieci minuti di navigazione verso terra guardando nel binocolo don Peppe vide che la nave era quasi tutta dentro l’acqua. Si fermarono ed aspettarono che scomparisse completamente.
Il lavoro era fatto: potevano rientrare in porto.