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TAURIANOVA (RC), VENERDì 19 APRILE 2024

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Parliamo un po’ della Giustizia italiana. La Giustizia dei paradossi L’Opinione di Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie

Parliamo un po’ della Giustizia italiana. La Giustizia dei paradossi L’Opinione di Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie
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Sui media la Giustizia ha sempre un posto in primo piano nella loro
personale scaletta, ma non sempre sono sinceri.

Parliamo del premier Matteo Renzi che, in occasione del 25 aprile 2016,
celebra la “liberazione” dai pm con una lunga intervista a Repubblica. Il
nocciolo del suo pensiero è tutto raccolto in poche frasi: “I politici che
rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Dire che tutti
sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l’opposto
di ciò che serve all’Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. Una
politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo
della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la
sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano. Adesso la priorità
è che si velocizzino i tempi della giustizia”.

Poi, invece, si legge che sono stati denunciati i pm del caso Renzi: “Omesse
indagini sulle spese pazze”. Depositata l’accusa contro i pm che hanno
archiviato il caso delle spese di Renzi: “Non hanno voluto indagare”, scrive
Giuseppe De Lorenzo, Martedì 05/01/2016, su “Il Giornale”.

Parliamo del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che parla, tra le altre
cose, di riforma della Prescrizione. Andrea Orlando. Primo guardasigilli non
laureato che nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di
ebbrezza, scrive Federico Altea su “Elzeviro” il 27 febbraio 2014.
Quaranticinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma
è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito
di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente
nei Giovani turchi. In un’intervista al Foglio si disse favorevole al
carcere duro. Non è di un politico “esperto” né di un tecnico intrallazzato
che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un giurista serio che
conosca e riformi completamente il sistema penale e civile e restringa il
più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il
sistema giuridico. Una persona che abbia le competenze per riformare il
sistema penitenziario. Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in
ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in
giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere.
Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero
della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré
predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette
guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Da questo c’è da desumere che
possa pendere dalle labbra degli esperti e tecnici interessati.

Parliamo delle toghe. Diceva Piero Calamandrei: “L’avvocato farà bene, se
gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici
quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri”. “I
magistrati – diceva ancora Calamandrei – sono come i maiali. Se ne tocchi,
uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato
così, è una corporazione”. Il giudice rappresenta il funzionario dello
Stato, vincitore di concorso all’italiana, cui è attribuito impropriamente
il Potere dello iuris dicere. Ossia di porre la parola fine ad una
controversia, di attribuire ad uno dei contendenti il bene della vita
conteso nel processo giurisdizionale, di iniziare e/o far finire i giorni
della vita di un cittadino in una struttura penitenziaria. Il giudice è per
sé stesso “un’Autorità”: ossia un Pubblico Ufficiale. L’avvocato, invece,
non lo è. La considerazione è così banale, tanto è ovvia. L’avvocato è solo
un esercente un servizio di pubblica necessità, divenuto tale in virtù di un
criticato esame di abilitazione.

Il processo non può essere mai giusto, come definito in Costituzione, se
nulla si può fare contro un magistrato ingiusto giudicato e giustificato dai
colleghi, ovvero se in udienza penale l’avvocato si scontra contro le tesi
dell’inquirente/requirente collega del giudicante.

La magistratura in Italia: ordine o potere? Secondo la classica
tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono
in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al
Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura. Questo al tempo
della rivoluzione francese. Poi il diritto, per fortuna, si è evoluto. In
Italia la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere dello
Stato (Potere, nel vero senso della parola), infatti per poter parlare
tecnicamente di Potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi
dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio. Nelle moderne
democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello
di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico
affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad
essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento
(potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo). In effetti l’art. 1
della Costituzione, nei principi fondamentali, recita: “La sovranità
appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione”. Per rendere chiaro il concetto è sufficiente comprendere che
nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri,
lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura,
quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere –
in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad
esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la
funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e,
soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi
deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur
quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta
costituzionale. A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione –
della quale i giudici si dichiarano spesso i soli difensori – parla, non a
caso, di Ordine Giudiziario e non di Potere. Difatti il Titolo Quarto della
Carta costituzionale riporta scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima,
“Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa
l’art. 104 Cost.: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e
indipendente da ogni altro potere…”. Di questo, però, la sinistra politica
non se ne capacita, continuando ad usare il termine Potere riferito alla
magistratura, smentendo i loro stessi padri costituenti. Se fino alla fine
degli anni Ottanta, quando vi erano veri politici a rappresentare il popolo,
questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992
– vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della
politica, ovvero quando la politica ha usato l’arma giudiziaria per arrivare
al potere – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella
Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare,
talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento
e del Governo: un vero colpo di Stato. Non possiamo dimenticarci quando un
gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si
presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un
legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il
finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando
in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che
l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista,
giacobina e corporativa racchiusa nelle parole “resistere, resistere,
resistere…”! E poi i magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine
di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte
della politica. E che dire, poi, di alcune sentenze della Corte di
Cassazione? Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica,
la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il
senso e la portata delle leggi stesse, se non addirittura inventarsi nuove
norme, come per esempio “il concorso esterno nell’associazione mafiosa”: un
reato che non esiste tra le leggi. Per non parlare, poi, della mancata
applicazione della legge, come quella della rimessione del processo in altri
fori per legittimo sospetto di parzialità. Spesso la Magistratura si difende
affermando di non svolgere nessuna attività politica, ma si smentisce perché
all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono delle vere e
proprie correnti. Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? E
poi, per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale
magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata
contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche
l’ordine giudiziario? E perché, questi stessi, i più animosi tra le toghe,
inducono i politici a loro vicini ad adottare leggi giustizialiste ad uso e
consumo della corporazione? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad
applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur
mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di
organo giudicante, scelgono di fare politica, arrivando addirittura a
candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi
dalle funzioni giudiziarie?

Parliamo infine delle vittime della malagiustizia. Si parla poco, ma
comunque se ne parla, inascoltati, del problema degli errori giudiziari e
delle ingiuste detenzioni, così come della lungaggine dei processi. Così
come si discute poco, ma si discute, inascoltati, del problema dei
risarcimenti del danno e degli indennizzi, pian piano negati. Delle vittime
della malagiustizia si parla di un ammontare di 5 milioni dal 1945. Ogni
anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Almeno a
guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha
pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di
ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi
tre mesi del 2016. Queste vittime della malagiustizia li vedi, come
forsennati, a raccontare perpetuamente sui social network, inascoltati, le
loro misere storie. Sono tanti, come detto 5 milioni negli ultimi 60 anni.
Poi ci sono i parenti e gli affini da aggiungere a loro. Un numero
smisurato: da plebiscito. Solo che poi si constata che in effetti nulla
cambia, anzi si evolve, con ipocrisia e demagogia, al peggio, spinti dai
media giustizialisti che incutono timore con delle parole d’ordine:
“Insicurezza ed impunità. Tutti dentro e si butta la chiave”. Allora vien da
chiedersi con un intercalare che rende l’idea: “Ma queste vittime
dell’ingiustizia a chi cazzo votano, se vogliono avere ristoro? Sarebbe il
colmo se votassero, da masochisti, proprio i politici giustizialisti che
nelle piazze gridano: onestà, onestà, onestà…consapevoli di essere italiani,
o che votassero i politici giustizialisti che, proni e timorosi, si offrono
ai magistrati. Quei magistrati che ingiustamente hanno condannato o hanno
arrestato le vittime innocenti, spinti dalla folla inneggiante e plaudente,
disinformata dai media amici delle toghe! Sarebbe altresì il colmo se le
vittime innocenti votassero quei politici che stando al potere non hanno
saputo nemmeno salvare se stessi dall’ingiusta gogna.

Se così fosse, allora, cioè, si fosse dato un voto sbagliato a destra, così
come a sinistra, con questo editoriale di che stiamo parlando?

Dr Antonio Giangrande