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Morte di Lea Garofalo: «Cosco uccise per odio». Il pg esclude le motivazioni “mafiose”

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Secondo il pm Tatangelo Carlo Cosco uccise la donna non per motivi inerenti la criminalità organizzata per un forte odio che provava per l’ex che l’aveva abbandonato

Morte di Lea Garofalo: «Cosco uccise per odio». Il pg esclude le motivazioni “mafiose” nell’omicidio

Secondo il pm Tatangelo, che sostiene l’accusa nel processo a carico di Carlo Cosco, l’ex compagno di Lea Garofalo uccise la donna non per motivi inerenti la criminalità organizzata per un forte odio che provava per l’ex che l’aveva abbandonato. E la sua confessione sarebbe diretto solo ad ottenere una pena più mite

 

CROTONE – Carlo Cosco, l’ex compagno di Lea Garofalo, accusato di aver ucciso e bruciato il corpo della testimone di giustizia calabrese, dopo anni di silenzio «ha confessato» nelle scorse udienze «solo per limitare il danno», ossia per escludere la premeditazione e un «piano omicidiario coltivato per anni» parlando di un «raptus d’impeto». Lo ha spiegato il pm di Milano Marcello Tatangelo, applicato come sostituto pg, nel corso della requisitoria del processo d’appello che si concluderà nel pomeriggio.Lea Garofalo, la testimone di giustizia calabrese sequestrata e uccisa a Milano nel novembre 2009, venne ammazzata da Carlo Cosco, che fece sparire il corpo bruciandolo, perchè quest’ultimo, suo ex compagno, «nutriva un odio profondo verso di lei che l’aveva abbandonato e soffriva del disonore tipico degli ambienti criminali mafiosi». Lo ha spiegato nella requisitoria del processo d’appello il pm Marcello Tatangelo, chiarendo che la Procura non ha mai contestato l’aggravante della finalità mafiosa. In primo grado, nel marzo del 2012, per l’omicidio di Lea erano arrivati sei ergastoli: per Carlo Cosco, per i suoi due fratelli Vito e Giuseppe e per Carmine Venturino, Massimo Sabatino e Rosario Curcio. Poi lo scorso luglio, Venturino ha iniziato a collaborare con i magistrati e ha raccontato come e perchè era stata uccisa la donna. Il pentito ha spiegato, in sostanza, che Lea, che aveva raccontato in passato fatti di sangue di una faida di ‘ndrangheta, venne strangolata da Carlo e Vito Cosco e poi lui e Rosario Curcio fecero sparire il corpo, non sciogliendolo nell’acido come si era detto nel processo di primo grado, ma bruciandolo e gettando i resti in un tombino di un capannone a Monza. Il collaboratore ha anche aiutato gli investigatori a ritrovare i resti di Lea. Nel corso di una perizia disposta d’ufficio dai giudici in appello non si è riusciti ad estrarre il dna dai resti, ma il pg Tatangelo ha spiegato che le parti del cadavere che sono state ritrovate sono certamente di Lea e «lo ha accertato anche una perizia sulla dentatura». Poi nelle scorse udienze dell’appello è arrivata la confessione, a distanza di oltre tre anni dai fatti, di Carlo Cosco che però ha escluso un omicidio premeditato e ha parlato di un «raptus» perchè temeva che la donna non le facesse più vedere la figlia Denise, 21 anni, che con le sue dichiarazioni ha dato un impulso forte alle indagini e che è parte civile contro il padre. «Non abbiamo mai contestato l’aggravante mafiosa, malgrado le sollecitazioni della stampa e della parte civile – ha chiarito il pg – perchè siamo convinti che in questo omicidio c’è una compresenza di fattori come il dolore di Cosco di essere stato abbandonato, il disonore, l’odio profondo che nutriva per questa donna sin dalla fine degli anni ’90». Il pentito Venturino, invece, sentito in aula, ha raccontato che l’ omicidio venne deciso dalle cosche della ‘ndrangheta che diedero l’autorizzazione a Cosco, che anche per la Procura è «un appartenente alla ‘ndrangheta». Il quadro delle richieste del pg, che arriveranno nel pomeriggio, cambierà probabilmente rispetto alla sentenza di primo grado, perchè c’è da tenere conto della collaborazione di Venturino e del fatto che il pentito esclude Sabatino e Giuseppe Cosco dalla partecipazione all’omicidio.