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TAURIANOVA (RC), LUNEDì 29 APRILE 2024

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Mobbing, sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia anche nell’azienda con 25 dipendenti Ed anche se il lavoratore ha sopportato a lungo il mobbing dei capi

Mobbing, sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia anche nell’azienda con 25 dipendenti Ed anche se il lavoratore ha sopportato a lungo il mobbing dei capi
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Il mobbing torna alla ribalta con una sentenza della Cassazione penale, la numero
53416/14, depositata ieri 22 dicembre che Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello
dei Diritti” ritiene utile portare all’attenzione per i rilevanti profili giuridici
e le conseguenze in termini di maggiori tutele per i lavoratori, rappresentati con
la decisione in questione. Per i giudici di legittimità, infatti, non conta il numero
dei dipendenti in azienda, ma la qualità delle condotte persecutorie poste in essere
dai vertici societari ai fini della rilevanza penale del mobbing. Nè esclude la
configurabilità il fatto che la vittima sia un addetto che ha un’anzianità di
servizio non trascurabile e avrebbe sopportato a lungo le vessazioni dei capi. Per
gli ermellini, anche in un’azienda che non è una bottega artigiana ma annovera
ben venticinque addetti, infatti, può sussistere il reato di “maltrattamenti in
famiglia” di cui all’articolo 572 Cp a carico dei vertici societari per la mortificazione
e l’isolamento del singolo lavoratore. Ai fini della configurabilità del delitto
in questione rileva la sussistenza in azienda di un rapporto «para-familiare»,
sul vecchio modello artigiano-apprendista, che ben può configurarsi quando ad esempio
c’è un “padre-padrone” che gestisce i rapporti in modo del tutto autoritario
nell’ambito di un rigido schema relazione “supremazia-subalternità”.Con la
decisione in commento, i giudici dalla sesta sezione penale della Suprema Corte hanno
accolto il ricorso del procuratore generale presso la Corte d’appello contro l’assoluzione
pronunciata in appello in favore del presidente e dell’amministratore delegato
della società riformando la precedente decisione di primo grado.Per i giudici di
Piazza Cavour la motivazione del provvedimento che aveva assolto i vertici aziendali
risulta viziata sotto diversi profili: anzitutto l’esclusione della configurabilità
del reato decisa sul mero rilievo del numero di addetti, che pure non è la dimensione
delle microimprese sotto i dieci dipendenti. Tale rilievo deriva dal fatto che risulta
sempre necessaria da parte del giudice una valutazione sulle effettive dinamiche
delle relazioni fra il titolare e dipendenti, anche se nelle imprese più grandi
i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono a essere più superficiali e spersonalizzati.
In definitiva, rileva l’eventuale stato di soggezione da parte del dipendente che
si ritiene perseguitato.A nulla vale quanto affermato dalla difesa, secondo cui le
vessazioni lamentate dalla dipendente siano il trattamento riservato per prassi alle
lavoratrici che tornano dalla maternità (prassi invero molto triste). Né giova
sostenere che il rapporto fra l’azienda e la parte offesa dal reato vada avanti
da lungo tempo: l’atteggiamento dittatoriale del titolare può azzerare ogni anzianità
di servizio o mansione. In tal senso risulta inconferente il rilievo secondo cui
la parte offesa abbia sopportato a lungo le condotte discriminatorie: il dipendente
potrebbe esservi stato costretto perché ha bisogno di lavorare e non ha alternative
professionali.In ultimo, la configurabilità del reato non può essere negata in
base alla circostanza secondo cui la lavoratrice abbia denunciato il mobbing alla
procura della Repubblica, al sindacato e ai giornali. E ciò perché è impossibile
riconoscere l’esclusione ex post del delitto per il fatto che la vittima abbia
azionato tutti gli strumenti di reazione in suo potere per opporsi alla prevaricazione
e ottenere la persecuzione delle condotte patite. Parola al giudice del rinvio.