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TAURIANOVA (RC), LUNEDì 29 APRILE 2024

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Lotta all’evasione fiscale e contributiva: da che pulpito arriva la predica, se lo Stato è il primo evasore in Italia!

Lotta all’evasione fiscale e contributiva: da che pulpito arriva la predica, se lo Stato è il primo evasore in Italia!

Editoriale di Antonio Giangrande

Lotta all’evasione fiscale e contributiva: da che pulpito arriva la predica, se lo Stato è il primo evasore in Italia!

Editoriale di Antonio Giangrande

 

 

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci
passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di
fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie,
sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione
fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle
Fiamme Gialle, l’evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi
di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in
Italia sono all’ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture,
insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che
nelle sue casse c’è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa
delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i
tanto famosi “trasferimenti di comodo”, spostando le proprie residenze o le
basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali – Cayman, Svizzera,
Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno
occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non
contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi
– dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione –
ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell’IVA
evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende,
se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su
400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte
hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e
reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202
arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri
hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e
conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti
14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385
irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre
società che non emette scontrini, non sorprende come l’evasione sia arrivata
a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il
primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende
ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime
attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di
persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi.
Risultato? Un buco enorme nell’Inpdap che poi è stato scaricato sull’Inps
con un’operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all’INPDAP
i contributi previdenziali dei suoi dipendenti…

Cresce il buco nei conti dell’INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100
miliardi per ripianare l’ammanco dell’istituto. Prendendoli da pensionati e
contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: “Allarme conti”. Ma Saccomanni
lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell’istituto scrive
ai ministri Saccomanni e Giovanni: “Valutare un intervento dello Stato per
coprire i deficit dell’ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno”.
L’ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a “La Gabbia” su
La7 aveva detto: “Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo”. Angeletti:
“Avvertimento tardivo” e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai
dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire
nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel
comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali
con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se
fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”.
La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso
di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo
previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E
ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il
motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste
burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere:
incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le
pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di
annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe
una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è
nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava
i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di
giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si
saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè
apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta
di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande
truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea
l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da
oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i
suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con
l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa
così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del
personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche
in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma
restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti
versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006
insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci
capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi
non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche
all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve,
lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo
struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti.
Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi
vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap.
Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare
bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia
a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per
i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando
maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore.
In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i
contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa,
dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a
versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo
è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua
resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe
neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte
compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone
(che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda
fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore:
che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati
chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo
Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e
voi nun siete un cazzo.»

C’è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più
contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive
Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione
Separata, cioè quel particolare fondo dell’Inps in cui confluiscono i
versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a
progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli
Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per
oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion
d’essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza
Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i
pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non
si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione
Separata, il bilancio dell’Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di
quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di
lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell’intero
sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le
pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d’oro incassati da qualche
ex-dirigente d’azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che
vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero
professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata
dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti
previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti
minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per
pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i
precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità,
visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo
intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto,
la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa
fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27
per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel
2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il
problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al
regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo,
che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

Dr Antonio Giangrande

Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia