Editoriale di Bartolo Ciccardini
La tragica solitudine degli italiani (con gravissima colpa dei cattolici)
Editoriale di Bartolo Ciccardini
Ha fatto molto discutere un avvenimento stralunato che è potuto accadere a Niguarda,
un popoloso quartiere della generosa Milano. Un pazzo ha scorazzato per più di un’ora
nelle strade uccidendo tre persone con un piccone, senza che nessuno intervenisse
o almeno chiamasse la polizia.
Siamo diventati una società senza vicinato, senza prossimo e senza aiuto reciproco.
L’individuo solitario non si fida dei soccorritori, non si fida delle forze preposte
all’ordine, preferisce difendersi con la fuga.
Del resto, gli agenti preposti all’ordine ti fanno sentire colpevole ogni volta che
sei costretto a denunciare qualcosa e spesso ti intimidiscono insistendo sui pericoli
a cui potresti essere esposto, facendo la denuncia. Una sorta di sciopero ad intervenire
si manifesta quando si scusano delle molte norme e delle possibili punizioni in cui
potrebbero incorrere per un eccesso di intervento e quindi non controllano i racket
degli accattoni invadenti, dei guardiani di strada che promettono danni, delle persone
che si apprestano a diventare la manovalanza della malavita. Un viceprefetto annuncia
in televisione che uno straniero omicida, già carcerato per spaccio, non poteva essere
espulso perché, non avendo i documenti, non era reperibile il Paese a cui avrebbe
dovuto essere riconsegnato.
Nella scuola i professori temono di intervenire nei confronti di bulli e bulletti,
provocando così un’abitudine alla prepotenza e una infelice sopportazione dei prepotenti.
L’elenco potrebbe essere lungo, ma fermiamoci al caso più scandaloso: l’indifferenza
sacrilega con cui i giudici senza rimorsi di coscienza decidono di rimandare un processo
dopo venti anni d mancato giudizio. Le “brioches” di Maria Antonietta in confronto
sono un piccolo peccato veniale.
Da questo male il tessuto sociale è devastato. Una volta, quando c’era poco Stato,
non esistevano i servizi sociali, la vita civile confidava nel “vicinato”, necessario
nella collaborazione dei lavori di campagna, nell’assistenza ai malati, e perfino
nella carità di quelli che erano disponibili a vestire i morti, esempio estremo di
collaborazione pietosa ed insieme amorosa.
Non c’è più la comunione dei buoni a difendere il tessuto sociale. Tutti solitari
ed isolati ad aspettare uno Stato che non c’è e che, comunque, non potrebbe mai fare
tutto.
Non eravamo così: c’è stato un momento nella nostra storia in cui lo Stato si disfece
per follia ed incapacità dei suoi dirigenti. In una società senza più Stato, dominata
non più dalle forze dell’ordine, ma dalle forze del disordine, bastò che un giovane
carabiniere si offrisse osteggio per salvare le persone che gli erano state affidate
perchè risorgesse la comunità, la solidarietà nei valori civili, la resistenza contro
il male, in una parola, la società civile e lo Stato. Settanta anni fa.
Gesù ha riassunto i Comandamenti: “Amerai il Signore Dio tuo” e “Amerai il prossimo
tuo come te stesso”, ed il prossimo non era il bambino adottato a distanza, che non
conosceremo mai, ma il nostro condomino, che muore da solo perché nessuno lo conosce.
È l’uomo ferito e sanguinante che il samaritano incontra per caso sulla via. Non
abbiamo più prossimo.
Questa condizione pesa come una grave colpa nella nostra società e riconosciamo che
non può esserci nessuna legge che possa riparare, nessuna riforma che possa correggere,
nessun programma di governo che possa rimediare, nessun Presidente di Repubblica
che possa sopperire allo sfarinamento della società civile ed all’insorgere della
guerra solitaria di tutti contro tutti.
Cosa fanno i cattolici?
Sia nel primo Risorgimento, sia dopo la catastrofe degli anni ’40 i cattolici sono
stati un elemento importante della coesione morale di questo Paese, costruendo sulla
loro innata carità sociale, una carità di Patria, importante per l’unità del nostro
Paese. Ma in questa crisi cosa fanno i cattolici in politica per combattere la solitudine?
Nulla.
Bartolo Ciccardini
P.S.: Papa Francesco nel suo linguaggio semplice, ma ispirato, ha usato una parola
desueta e strana per definire un dovere morale dei cattolici: “Custode e custodire”.
Ha detto che bisogna custodire il creato, che bisogna custodire se stessi, che bisogna
custodire quelli che ci sono vicino, che bisogna custodire i poveri, gli ultimi,
i deboli. Una parola che avevamo dimenticato.
Mi sono domandato dove Papa Francesco avesse trovato questa parola. E mi è venuto
in mente il racconto della Genesi, quando Dio chiede a Caino: “Dov’è tuo fratello
Abele?”. E Caino risponde, sapendo bene quello di cui stava parlando: “Sono forse
io il custode di mio fratello?”.
La risposta è implicita: sì, sei tu il custode di tuo fratello e se non l’hai custodito,
lo hai ucciso.
E questo mi ricorda un vecchio modo di usare la parola “custodire”, quando si diceva
che una madre che lava e veste un figlio per prepararlo a qualcosa, lo custodisce,
nel senso che lo accudisce.
Ecco un altro aspetto, amoroso questa volta, di “custodire”.
Non eravamo forse una volta abituati a pregare: “Angelo di Dio, che sei il mio custode,
illumina, custodisci, reggi e governa me.”? E mi accorgo con stupore e dolore che
illuminare, custodire, reggere e governare è un programma politico a cui i cattolici
dovrebbero sentire il dovere di adempiere.