La tortura dell’innocente Riflessione del giurista blogger Giovanni Cardona sulla privazione della libertà
L’eccezionale e comprensibile clamore che ha accompagnato e secondato le inchieste giudiziarie sospinge a meditate riflessioni.
Ma qualche rilievo, che pur non si adegui al maggior flusso ora in corso, non apparirà futile se si accetti preliminarmente quello che scrisse Federico II a proposito dei processi criminali e che, astratto dalla realtà temporale, ben figura a presiedere tutt’ora qualsiasi attività legislativa o inquisitoria o giudiziaria.
Scriveva il re di Prussia: “Sarebbe men male lasciare impuniti venti colpevoli, di quello che lo è il sacrificare un innocente” (Dei motivi di stabilire o d’abrogare le leggi).
Sembra che il codice di procedura penale abbia recepito questo principio di irrinunciabile civiltà, e non solo giuridica, ma dall’uso che se ne può fare non è facile arguire che la pratica attività se ne ispiri rigorosamente anche se la “forza pubblica stessa è confidata ai giudici per difendere l‘innocente dagli oltraggi” (Verri, “Basta con la tortura”).
Non seguirò quel che pur si è detto e scritto, che se vero sarebbe abominevole, circa supposte avvertenze fatte agli inquisiti che, se si voleva evitare la carcerazione o il suo perdurare, era conveniente confessare o, comunque, collaborare.
Mi atterrò a due rilievi obiettivi, cui si è dato sempre pubblica notizia e sembrano possano essere acquisiti come pacifici nei casi di cui vado discorrendo. Trattasi cioè del fatto che, da un lato, chi confessava veniva subito scarcerato e, dall’altro, chi non lo faceva permaneva nella patria galera (le motivazioni formali sull’inquinamento delle prove le lascio allo specifico, considerata l‘estrema opinabilità della materia).
Ora non v‘è dubbio che la realtà e consequenzialità delle suddette circostanze pongono, anzi, ripropongono angoscianti domande: se la confessione dell’inquisito debba e possa essere perseguita dal giudice e se costituisca una prova; se la carcerazione possa talora assumere un valore di tortura.
Al riguardo della confessione: “sembra quest’uso preso dalle idee religiose e spirituali, che hanno tanta influenza sui pensieri degli uomini, su le nazioni e su i secoli… Io credo che la confessione del reo abbia un origine non dissimile, perché nel misterioso tribunale di penitenza la confessione dei peccati è parte essenziale del sacramento. Ecco come gli uomini abusano dei lumi più sicuri della rivelazione…”: così scriveva, in “Dei delitti e delle pene”, Beccaria.
Non mi si venga a dire che la confessione non costituirà prova se non avrà esterni riscontri obiettivi; quel che si condanna, e sempre si condannerà, è che si persegua l’ottenimento della confessione: ancor peggio se dalla stessa si faccia derivare, obiettivamente, una decisione premiale (scarcerazione) o se dal difetto della stessa consegua una statuizione punitiva (permanenza della carcerazione o incarceramento).
Ma il carcere costituisce una tortura?
Se per tortura si deve intendere quella corporale e materiale, la risposta è certamente negativa (nessuno pensa al “Tunc genuflexus dixit: dite come devo dire, signore” o al “Ah, signore, fatemi slegare che sicuramente vi darò gusto, vi darò gusto”, in Verri opera citata e trascrizione dai verbali del “processo agli untori”).
Se viceversa si riguarda alla “pretesa ricerca della verità co’ tormenti” (Verri già richiamato), più di qualche dubbio insorge.
Chi può, infatti, dire che l’imprigionamento (vuoi in cella di isolamento, vuoi in cella comune) non costituisca un “tormento” grave o addirittura gravissimo proprio per l‘innocente?
Chi amerebbe, innocente, trovarsi o sapere il proprio congiunto incarcerato?
Chi può affermare che anche all’essere ridotto in carcere non si applichi il teorema enunciato da Beccaria: “Data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre (o della psiche, n.d.r.) di un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessare reo di un dato delitto”? “Perché la prigione è piuttosto un supplizio, che una custodia del reo…” (Beccaria, opera citata).
Perché queste brevi note irrispettose del pubblico consenso?
Non perché non si debbano acclarare i delitti, perseguire e incarcerare i rei; bensì perché nell’attività giudiziaria ci si rammenti dell’innocente la cui sola confidenza è il sapersi difeso dagli oltraggi da quella forza dei pubblici poteri, conferita in primo luogo con questo irrinunciabile e nobile scopo.
Se così non fosse “né solo col fatto, ma colla potenza eziandio di poterlo fare offendesi la libertà. La sua delicatezza si è pur tale e tanta, che ogni ombra l’offusca, ogni più lieve fiato l’aduggia. L’opinione sola di potere impunemente essere oppressi ci dispoglia della libera facoltà di valerci dei nostri diritti”.
E siamo a Napoli, con Pagano nei “Principi del codice penale”.
Ma si sa, entrambi, Beccaria e Pagano, appartengono al secolo dei lumi.