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TAURIANOVA (RC), VENERDì 26 APRILE 2024

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La lanterna di Diogene

La lanterna di Diogene

La sentenza storica contro i dirigenti della ThyssenKrupp al centro delle riflessioni del nostro filosofo

La lanterna di Diogene

La sentenza storica contro i dirigenti della ThyssenKrupp al centro delle riflessioni del nostro filosofo

 

Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino, Antonio Schiavone. Questi sono i nomi dei sette operai morti nel rogo dell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, quando si è sprigionato l’inferno nella maledetta “linea 5” dello stabilimento di corso Regina Margherita.

La seconda corte d’assise di Torino, presieduta da Maria Iannibelli, ha condannato Harald Espenhahn, amministratore delegato della Thyssen, a 16 anni e sei mesi; Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno e Cosimo Cafuerri a 13 anni e 6 mesi e Daniele Moroni a 10 anni e 10 mesi. I giudici hanno accolto tutte le richieste dei magistrati, confermando l’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale per l’amministratore delegato e quella di cooperazione in omicidio colposo per gli altri manager. Un verdetto storico per il diritto e per la rivalsa di una città.

Una pena così pesante non era mai capitata nelle numerosissime cause derivanti da incidenti sul lavoro anche per il fatto che le colpe degli imputati erano gravissime. Da questo punto di vista si può essere soddisfatti, in quanto giustizia è fatta anche se il dolore delle famiglie resta ancora scolpito e vivo perché nessuno mai restituirà la vita degli operai caduti nel rogo di quel giorno maledetto.

Certamente la sentenza a carico dei dirigenti della ThyssenKrupp è molto pesante. Ma come dicevo sancisce un punto nodale importante ed è quello per cui, qualsiasi dirigente (o imprenditore) che non si preoccupa oppure omette la condizione della sicurezza dei propri dipendenti sui luoghi di lavoro, incappa in una colpa gravissima. La sentenza afferma con forza e con precisa determinazione un assioma, ossia un processo ed un’ordine indiscutibile: di lavoro non si deve e non si può morire. Il prof. Luciano Gallino nelle pagine di Repubblica ha affermato un passaggio importante in cui «E’ la base su cui si regge sia la ricchezza privata che quella pubblica. Merita un ampio riconoscimento sociale – lo dice perfino la Costituzione. Perciò né il lavoro né il lavoratore dovrebbero essere trattati come una merce che si usa se serve, si butta da parte se non serve, si cerca di pagare il meno possibile, e non importa poi troppo se chi presta il lavoro ci rimette la vita perché l’impresa, in nome della globalizzazione e del mondo che è cambiato, deve anzitutto far quadrare il bilancio. Dopo la sentenza di Torino, un simile modo di ragionare dovrebbe ridurre un po’ la sua iniqua presa, nel sistema economico non meno che in politica».

Oltre alla sentenza giudiziaria di condanna occorre anche dare atto ai risarcimenti in cui devono essere corrisposti: alle parti civili, la corte ha riconosciuto un risarcimento di un milione di euro al Comune di Torino, di 973.300 euro alla Regione Piemonte, di 500 mila euro alla Provincia di Torino e di 100 mila euro ciascuno ai sindacati Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uim-Uilm, Flm-Cub. Cento mila euro di risarcimento anche all’associazione Medicina Democratica.

Tre anni e mezzo di processo e migliaia di volte i presenti in aula chiesto giustizia, ed il tutto sembrava una richiesta folle, fuori dal normale ed invece come in una profezia ecco che Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario Giuseppe hanno scritto con la loro morte un storia per la città di Torino e per l’Italia tutta. Sette vite in trappola che non fecero in tempo a scappare da quell’inferno ed il tutto solo per ventimila euro. Qualche migliaia di euro per mettere in sicurezza una fabbrica che da lì a poco avrebbe chiuso i battenti. I tedeschi lo sapevano che si correva questo rischio ma non hanno fatto nulla per prevenire un disastro annunciato.

Si è reso giustizia alle loro madri, ai padri, alle mogli, alle fidanzate, ai fratelli e alle sorelle ed ai figli. Antonio ne aveva tre, di ragazzini, Roberto due, Angelo due, Rocco due. E Bruno, Rosario, Giuseppe erano molto giovani, non per desiderare di averne come anche di essere padri e poter tornare a casa dal lavoro per incontrare gli occhi di un figlio.

La vita gli è stata strappata via e mai più ritornerà, ma la giustizia, quella vera l’hanno ottenuta.

lalanternadidiogene@approdonews.it

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