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TAURIANOVA (RC), MERCOLEDì 08 MAGGIO 2024

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Il sociologo Mimmo Petullà sulla diffusione dei tumori

Un’analisi socio – antropologica del fenomeno Facebook, denominato: “La piana di Gioia Tauro ci mette la faccia”

Il sociologo Mimmo Petullà sulla diffusione dei tumori

Un’analisi socio – antropologica del fenomeno Facebook, denominato: “La piana di Gioia Tauro ci mette la faccia”

 

 

Riceviamo e pubblichiamo:

Da qualche settimana a questa parte, nella piattaforma del social network di Facebook è possibile entrare in contatto con una pagina – la cui promotrice è stata Carmela Centorrino – impegnativamente denominata: “La piana di Gioia Tauro ci mette la faccia”. In una delle sezioni, che risponde alla voce “Informazioni”, si ha modo di cogliere le riassuntive ragioni che hanno ispirato e abilitato la pratica relazionale di questa nuova e per niente ristretta comunità online: “La pagina nasce in virtù dei troppi casi di tumore nelle nostre città. Chiunque può postare foto o raccontare la propria storia o più semplicemente scrivere e postare con foto un biglietto con su scritto: NON VOGLIO MORIRE DI CANCRO”. Si tratta di un evento di significante e non sottovalutabile portata, che con audacia riporta alla luce non solo un diffuso e soggettivo disagio, ma una nuova, autentica e collettiva rappresentazione sociale – all’interno di un’empatica condivisione – delle patologie considerate effettivamente gravi. Ci troviamo di fronte, senza alcun dubbio, a uno dei fenomeni più culturalmente interessanti che la storia recente del nostro territorio abbia potuto registrare. Di rado la delicata questione, insita più propriamente nel concetto di malattia – insieme al suo ineludibile e complesso paradigma di sofferenza fisica e psicologica – riesce a fare irruzione in modo così efficacemente liberante, per giunta in un luogo virtualizzato, quasi a scavalcare protocolli e logiche di ogni genere, rendendo accessibile a chiunque l’esperienza vissuta, nei suoi interiorizzati dinamismi e nelle sue visibili alterazioni fisiologiche: il tutto nel segno di una sfida che, lanciata anche su una direttrice comunicativa, non conosce immediati e apprezzabili precedenti. I protagonisti, mettendoci la faccia – ciò che, peraltro, fa la sostanziale differenza – oltre a distogliere dalla propria visione relazionale ogni rinvio effimero e artificiale, incoraggiano ad attivare e a diffondere un processo di decostruzione pregiudiziale della malattia stessa, perché in essa non s’intraveda unicamente un accadimento drammaticamente infausto, o socialmente negativo, al punto da limitare, sminuire o svalutare il valore della dignità di chi ne è colpito. In questa direzione di senso, la critica presa di consapevolezza – come quella di Marianna, la cui osservazione si ritiene opportuno richiamare – assume il carattere di una perentoria affermazione esistenziale, che va certamente a beneficio di tutti, nessuno escluso: “Sono restia a parlare della mia vita e soprattutto dei miei dolori. Questa pagina però mi ha fatto pensare che il mio dolore è stato ed è comune a quello di molti, “troppi” altri. Avevo solo otto anni quando questo mostro si è presentato a casa mia. Proprio come un ladro voleva rapire mia madre. Abbiamo sofferto tanto e ricordo con rabbia l’indifferenza altrui…Come se questo male non li potesse mai toccare in prima persona! Oggi posso dire con gioia che io e la mia mamma CI METTIAMO LA FACCIA!!! Voglio che la nostra testimonianza possa fungere da speranza per chi tutti i giorni lotta col male e soprattutto per dire che non siete soli…Mia mamma ha lottato con le unghie e con i denti per poter tornare da me e dai miei fratelli! Non arrendetevi mai! Finché avrete ossigeno nei polmoni per respirare LOTTATE!!!”. Da mettere in rilievo è anche l’emergere di una dimensione narrativa delle esperienze postate. Esse sono proposte attraverso un succinto, denso e personale percorso, spesso riferito a contesti d’intima prossimità parentale – dove la memoria affettiva non ha difficoltà a soffermarsi anche su chi non è più – o rimandante a una più globale solidarietà, abbracciante coloro che si ritrovano a essere portatori di ogni sorta di problematica a carattere neoplastico. Il linguaggio – che, essenzialmente, accomuna i variegati interventi – si presenta rigoroso e dignitoso, quantunque ricco di un’apprezzabile forza evocativa, esposta come struttura costitutiva di un palpabile travaglio. Si coglie un non comune e coesivo slancio, ben disposto a osare le ragioni della speranza, fino a oltrepassare i confini di ogni umana aspettativa, a costo di mantenere aperto il futuro. E’ attivata e attualizzata l’idea di una rivoluzione, in definitiva, di cui in atto non sono prevedibili gli sviluppi. Le palesate considerazioni, in ogni caso, non si lasciano rinchiudere nelle strettoie del reticolo virtuale, giacché si presentano prive del consueto e sovrabbondante scambio di formule stereotipate, che in altre situazioni dialogiche mirano a prolungare – non raramente in modo inutile – le conversazioni. Gli innumerevoli utenti della suddetta e presa in esame pagina, difatti, attualizzano in un perentorio atto di enunciazione le forme delle loro espressioni, che non sono per niente distaccate e impersonali, mentre appaiono capaci di schiudersi a una forte istanza di liberazione e di cambiamento della condizione sperimentata e raccontata. Il dolore, che si muove nell’orizzonte di questo stesso linguaggio, sebbene rimanga collocato su un impianto soggettivo – dunque associato a una personale interpretazione culturale – è esposto senza infingimenti alcuni. La sua richiamante attenzione è serenamente veicolata non solo con il detto, ma trasfigurata anche attraverso l’eloquenza antropologica di una parlante corporeità – che, come tale, non si mostra ingabbiata nei confini dell’identità individuale – nonché con il più indicativo e franco svelamento dei volti: che non sembrano molto preoccupati della vita, quanto desiderosi di occuparla a tutti costi. Essi, difatti, non appaiono per niente silenti, immobili, ma si affacciano spiazzando – nonostante le modalità sobriamente emozionali – perché capaci di una comunicazione identitaria che va di là del parziale, sino a favorire la lettura del loro biografico stato d’animo. All’osservazione, pertanto, la loro fisionomia non si mostra anonima, fuori portata, ma come totalmente e volutamente disoccultata dal quotidiano, dalla cui temporalità la malattia ci rammenta – a dispetto di certi processi di rimozione – di non essere mai separata, al punto da rendere tutti fragilmente vulnerabili. Gli occhi, tutt’altro che sfuggenti, lasciano intendere di volersi presentare da sé – senza piegarsi alla mediazione dell’amplificazione virtuale – per essere rispettosamente riconosciuti e inseriti in una storia e in un senso profondo: tanto da divenire il presupposto di una ragionevole ricerca di relazioni, che si esige siano finalmente e veracemente etiche. Difatti, irrompendo e accorciando ogni sorta di distanza, essi tendono a interpellare l’incontro frontale con i cosiddetti visitatori, chiunque essi siano, nel tentativo di non concedere tregua alcuna, ma piuttosto di provocare e di responsabilizzare – come fa il piccolo grande Michi, di appena dieci anni – esortando lo spostamento di una prospettiva, magari generante un contatto umano, da intendere come possibilità di un coinvolgimento e di una partecipazione. Si tratta di volti, insomma, che non vogliono essere lamentanti – nonostante taluni siano visibilmente provati – che non vogliono nascondersi negli anfratti dei sentimenti, come pure nell’abisso del timore di esprimere quello che tuttavia rimane un dolente e sperimentato malessere. Essi divengono, per questa ragione, una grammatica della denuncia, a fronte di un’amarezza esistenziale altrimenti inesprimibile. Detto in ultima analisi, la complessiva rappresentazione esperienziale assume un inedito e disarmante senso, dal momento che la malattia non sembra essere percepita solo come una condizione patologica, con le sue ben note conseguenze biologiche e fisiche, ma interpretata anche come rivelatrice e ricostruttrice – per giunta nel crescente spazio pubblico della rete – di significati e di riferimenti, che tentato di legare l’esistenza di pochi con quella dei più. La pagina web in questione, ciò nonostante, solleva un’altra pertinente problematica, rimandante alla necessità di trovare esaustive risposte non all’antica e consueta domanda “Perché io”, bensì a quella – per molti aspetti più complessa e incalzante – “Perché accade questo”. Si tratta, a ben vedere, di un interrogativo – oggi non più rinviabile – che chiama in causa l’urgenza di dotare di senso la verità, a proposito di certi meccanismi socio/ambientali, che oggi invocano un radicale approfondimento, nel tentativo di misurare la prevalenza e la distribuzione dell’incidenza delle patologie tumorali nella nostra locale realtà. Forse è tempo di aprirsi a questa sfida, che evidentemente impone d’insistere – in modo ulteriore – anche sul piano del passaggio dal mondo virtuale a quello reale. Proprio per tale motivazione, le parole qui di seguito annotate – in questo caso scritte da Giovanni – non possono non essere recuperate come un drammatico grido, oltre che come un vero e proprio manifesto d’impegno etico e sociale: “Ci metto la faccia, per ricordare allo Stato che i giochi della politica hanno fatto si che nessuno vedesse ma tutti sapessero dei traffici illeciti di rifiuti altamente tossici sversati in terra e in mare, nella nostra terra Calabrese e nel nostro mare Calabrese, rifiuti tossici che una volta sversati, in un modo o in un altro vengono continuamente e sistematicamente a contatto con il nostro corpo umano, con tutte le conseguenze che ogni giorno vediamo e sentiamo dai bollettini medici o dai bollettini di morte che inesorabilmente toccano tutti noi (direttamente o indirettamente). Ci metto la faccia per ricordare a tutti coloro che hanno trasformato questa terra e questo mare in una pattumiera contenente i peggiori rifiuti tossici, che i vostri consensi mafiosi e i vostri silenzi politici, non stanno uccidendo solo degli estranei, ma stanno uccidendo anche voi e i vostri cari. Ci metto la faccia, per tutti coloro che sono costretti a lottare con la burocrazia e con la sanità Calabrese che pur essendo composta di persone umane e in molti casi molto professionali, hanno, mi correggo, ABBIAMO da lottare, oltre che con un compagno di viaggio mostruosamente subdolo e indesiderato……… anche con i numeri e i bilanci che guidano le scelte insensate scellerate ed ingiuste che privano ogni singolo malato di ciò che lo stato ITALIANO da costituzione deve al proprio popolo, IL DIRITTO ALLA SALUTE E ALLA VITA ……………IO CI METTO LA FACCIA E TU?”.

Mimmo Petullà