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TAURIANOVA (RC), DOMENICA 28 APRILE 2024

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I riti della Settimana Santa nella Piana di Gioia Tauro

I riti della Settimana Santa nella Piana di Gioia Tauro

Editoriale di Domenico Caruso

I riti della Settimana Santa nella Piana di Gioia Tauro

Editoriale di Domenico Caruso

 

 

La Pasqua, che rappresenta la storia della salvezza dalla creazione alla parusìa, è il nucleo della vita della Chiesa costituito dal ricco patrimonio teologico che si sviluppa durante l’anno liturgico.
Il Concilio Vaticano II, dopo secoli di oscuramento, ha ricondotto l’eccezionale evento al vero significato attribuito dalla Chiesa primitiva.
L’incerta etimologia del termine ebraico (pascha in greco e latino) sta a significare “passare oltre”, in quanto commemora il passaggio dell’Angelo sterminatore sull’Egitto e la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù.
La Pasqua è anche il giorno di luce ininterrotta, il simbolo della rinascita del mondo a primavera dopo i rigori dell’inverno.
Trascorso lo spensierato ciclo del Carnevale, che ormai anche nella nostra Piana ha assunto i connotati del resto d’Italia con carri allegorici e balli sfrenati, si giunge alla Quaresima (dal latino “quadragesima”).
In passato essa indicava un momento di austerità e astinenza, in vista della solenne ricorrenza. I fedeli non si “cammaràvanu”, vale a dire non mangiavano carne fin dal mercoledì delle Ceneri, allorquando si pulivano la lingua appunto col residuo della combustione. Appesa al balcone o all’ingresso delle case, la Quaresima (“Coraìsima”), vecchia segalina e grinzosa vestita di nero che fila, per 40 giorni scandiva il periodo di penitenza. La pupattola (” ‘a pupa ‘i pezza”), moglie di Carnevale, rimasta vedova la notte di martedì grasso, era infilata su un’arancia con sette penne di gallina che si toglievano una per settimana. Per tradizione, talvolta come era avvenuto per il marito, la domenica di Pasqua essa veniva bruciata. Nella nostra Piana rimangono ancora vive alcune suggestive tradizioni religiose legate alla Settimana Santa che nelle località come Rizziconi, Laureana di Borrello e Cittanova, assumono espressioni drammatiche e corali. Anche a S. Martino, quest’anno, si svolgerà una rappresentazione vivente della Via Crucis. La Domenica delle Palme (“festa da ‘liva”), durante la solenne Messa si benedicono dovunque le “conocchie” di candida palma e i ramoscelli di olivo che i fedeli conservano in casa come segno di auspicio e di pace. Segue la processione nella piazza antistante alla chiesa.
Una volta, per l’occasione, si ” ‘mparmava”, s’indossava – cioè – il vestito più elegante sul quale si attaccava una crocetta o un panierino di palma intrecciata.
Il Mercoledì Santo si celebra l’ufficio delle “Tenebre” che consiste nello spegnimento graduale di sette o di tredici candele, mentre il celebrante canta il “Miserere mei Deus”. A S. Martino, racconta mio padre, don Giulio Celano (che svolse nel paese la sua missione sacerdotale dal 1900 al 1945) consentiva ad un operaio nel sacro tempio di battere con una scure sulla base di legno dell’altare di S. Lucia che – terminate le feste – faceva riparare a proprie spese da un falegname. Anch’io ricordo che, fino a qualche decennio fa, appena spente le luci si batteva a lungo sui banchi e sugli altari per simulare il terremoto verificatosi alla morte di Cristo.
Il Giovedì è tutto un susseguirsi di riti e di preghiere. Fin dal mattino vengono esposti in chiesa sfarzosi paramenti e si allestisce il “Sepolcro” con ceri votivi accesi e piatti ricolmi di delicate piantine di cereali e leguminose fatte crescere al buio. Nella serata, durante la “Messa in Coena Domini”, il sacerdote lava e bacia i piedi di dodici fedeli in camice bianco – raffiguranti gli Apostoli – prima di offrire loro un pane benedetto. Ormai le campane risultano “legate”, cioè smettono di suonare, e s’invitano i fedeli in chiesa con le “tocche” e i “carici” (raganelle), per mezzo dei ragazzi che gridano per le vie cittadine: «All’ura all’ura, ca ‘u Signuri è sulu!». Ha così inizio la veglia di preghiera e di adorazione in un clima di sincera mestizia:
Di Vènnari morìu nostru Signuri,
supra a truncu di cruci appendenti;
tri chiova furu lu primu doluri,
lu sangu a latu e lu hjumi currenti,
e pe’ lu nostru svisceratu amuri
Gesù però patìu tanti turmenti.
Il Venerdì Santo, al nostro paese, gli avi gremivano la chiesa perché al termine della predica sulla Passione il celebrante chiamava la Vergine Addolorata per consegnarle il Crocefisso. All’esortazione: «Vieni Maria, a prendere il Tuo caro Figlio!», il simulacro della Vergine, che sostava davanti al tempio, veniva portato di corsa da coloro che se l’erano aggiudicato per mezzo dell’incanto (vale a dire versando una maggiore somma di danaro), mentre tutti si asciugavano le lacrime. Il clima di commozione collettiva, che scaturisce dalle sacre rappresentazioni del Venerdì Santo, nonché il tono struggente di alcuni canti popolari non hanno bisogno di commento:
Matina di lu vènnari
a la strata di Maria,
e cu’ vo’ sentiri pianti
pemmu va’ vàsciu a la Cruci
ca dà c’è Maria chi piangi:
Fìgghiu caru, Fìgghiu duci!
I nostri riti, patetici e suggestivi, si limitano alla processione del Cristo Morto accompagnato dalla Madre Addolorata.
In parecchi centri della Piana, dopo la visita ai “Sepolcri”, dalle prime ore pomeridiane ha inizio la processione con le Varette (effigi sacre) mentre la banda intona inni maestosi, come il Mosè di Rossini.
Una volta il Venerdì le donne rimanevano spettinate, donde il detto: «Beniditta chida pasta chi di vènnari s’impasta; smaliditta chida trizza chi di vènnari s’intrizza!». (Benedetta la pasta che si lavora il venerdì; maledetta la treccia che s’intreccia il Venerdì Santo).
Il giorno successivo, Sabato Santo, con la pasta lievitata si preparava una ciambella con l’uovo (‘a sguta) – tanto attesa dai bambini – che si accompagnava ai genuini dolci casalinghi per tutti.
Durante la veglia pasquale (anticipata in qualche chiesa, come a Taurianova centro, alla sera), viene “svelato” il Cristo risorto mentre le campane suonano a distesa. Un tempo in chiesa i fedeli si scambiavano un segno di pace e nelle case i superstiziosi battevano sulle porte per scacciare la cattiva sorte; non mancava chi s’inginocchiava a baciare la terra.
La mattina di Pasqua avviene lo scambio degli auguri e, in diversi paesi, dopo la Santa Messa si rievoca “l’Affruntata”, cioè l’incontro prima tra Gesù e San Giovanni – latore della buona novella – e poi tra la Madre e il Figlio.
Al termine, ognuno rientra a casa per il lauto pranzo, nel quale i nostri padri non facevano mancare la carne e i maccheroni (i maccarruni ‘i casa).
Il Lunedì dell’Angelo, infine, con familiari e conoscenti si trascorre all’aperto la Pasquetta (“Pascarella” o “Pascuni”) che oltre al riposo fisico rinsalda i vincoli d’amicizia e d’affetto.
“La Risurrezione”, sostiene il Catechismo della Chiesa Cattolica, “costituisce la conferma di tutto ciò che Cristo ha fatto e insegnato”; è “l’ottavo giorno” dei Padri della Chiesa, nel quale trovano compimento i sette giorni della creazione; fornisce a noi tutti l’occasione di riflettere sul nostro essere al mondo: “nati a formar l’angelica farfalla” (Purg. X, 125).

Domenico Caruso – S. Martino (R.C.)