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TAURIANOVA (RC), DOMENICA 28 APRILE 2024

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Delitti di Stato ed omertà mediatica. Quando la legge e l’ordine pubblico diventa violenza gratuita e reato impunito

Delitti di Stato ed omertà mediatica. Quando la legge e l’ordine pubblico diventa violenza gratuita e reato impunito

Così scrive Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it

Delitti di Stato ed omertà mediatica. Quando la legge e l’ordine pubblico diventa violenza gratuita e reato impunito 

Così scrive Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it

 

 

C’è violenza è violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli
stalker, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalker che sono
lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce
specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli.
C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che di
devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od
esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o
tangente allo Stato.

O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio
ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di
fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi
interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come
fa con regolarità da vent’anni a questa parte) potrà venirgli revocato
l’affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio
Lamanna, come racconta la stampa, nell’udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha
sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici
l’affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse
parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari.
Lamanna, nel corso dell’udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere
della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi
avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: “Sono
qui a dipendere da una mafia di giudici”. Dunque Lamanna ha commentato: “Noi
non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far
applicare la legge”, e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia
(abbassare i toni, oppure addio ai servizi).

O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni
dopo l’omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono
ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una
psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se
lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna
subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal
professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza
di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per
decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80
pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le
conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla
trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta
scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un
omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un “disturbo di
adattamento” per “preoccupazione, facilità al pianto, problemi di
interazione con il sistema carcerario” perché continua a proclamarsi
innocente.

Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine
legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi
dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi
ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino
nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.

Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48
ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più
di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto
cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte
sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere,
di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le
violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo
un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La
versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie,
storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella
di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe
(Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna
portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a
parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si
sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a
proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario
di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua
denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio
organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado
non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le
condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove
riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una
prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di
Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla
mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole
lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un
reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi,
infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne
passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che
pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è
interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato
anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante
degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa
telecamera te la spacco in testa… I detenuti li trattiamo anche peggio, lo
puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di
violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta – cortese – di non
denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da
parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria
il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro
stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna
prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che
chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma
ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente
ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte
europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da
10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel
Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola,
Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe
Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo
mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti
della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di
carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo
messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non
sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta
segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono.
Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e
alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare
che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta
Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza
geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0,
cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni
termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per
chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente
sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i
detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la
quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di
tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti,
sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle
forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti
che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le
parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come
lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si
aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova
all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono
problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani
del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a
convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal
presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo
zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla.
«Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo
stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava
ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti
dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un
pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono
tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai
pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà
quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi,
farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati… Insomma il
carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza,
Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite
nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco
Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti.
E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una
settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso
per mancanza di prove.

Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri
dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La
avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata
impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale
medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le
perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008
verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia,
per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della
Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al
Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36
anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva
fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente
lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare,
provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto
cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di
botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li
prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna
testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per
«arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo
precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della
gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto
Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto.
Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha
visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si
saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella
per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento
nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano
ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la
richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita.
Perché?».

Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli
di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato
fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce
violenza o muore durante le fasi dell’arresto.

Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con
pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra,
calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una
ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per
proteggerla.

E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che
sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già
visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato.
Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che
effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e
ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di
evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali
da parte delle forze dell’ordine.

PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno
conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia
mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso
durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato
legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno
dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA
hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo
Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche
della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai
calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad
oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non
ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni
pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo
di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono
inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo
Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non
fa sconti.

Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona,
scrive Filippo Vendemmiati su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di
Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito
un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente
sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha
partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto, “i
coinvolti” preferiranno tacere, eludere, rispondere non con le parole, ma
semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta
la prima e paradossale differenza: l’inchiesta giornalistica, quella vera,
quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un
responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale
commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco,
da omissioni complicità.. Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro
che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del
reato di tortura, da 25 anni inadempienti nonostante il protocollo firmato
davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il
primo è quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute
sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante un fermo, un
controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo
è quello dei familiari delle vittime, costrette ad un terribile e doloroso
percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa ad essere
normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con
modalità gravissime, sancite da motivazioni trancianti contenute in tre
sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad
indossare ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di
giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa
infanga il giuramento fatto davanti alla Costituzione.. Non solo e tanto di
“mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema
malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non
nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a
Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome
delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.

Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle
persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate.
Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.

Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa,
l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di
stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad
attacchi.

Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di
bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro
uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo
dell’avversario a terra.

Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e
quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale
e che per forza di cose passa per buona ed efficace.

La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio
dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze,
qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco,
scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27
aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a
Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il
cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da
qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre
lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo
immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di
Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in
arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il
fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore
del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del
corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza,
sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le
cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che
raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco
e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando
ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso
a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era
ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto
morendo'” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in
tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati
presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con
la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando
presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme
del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in
maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio
fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita.
Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.

Morì d’infarto durante l’ arresto il cinquantunenne milanese Michele
Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da
alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla
perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise
d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4
filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine,
intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia,
nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo
la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e
sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli
venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli
sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano
imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata
maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a
quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli
invocò esplicitamente aiuto.

L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta
Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso
sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva…. Nomi diventati
tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte,
denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si
rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita,
facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad
adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri
nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di
“casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di
ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa
“Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni
scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la
forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta
dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di
suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità
riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo
tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in
un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato,
invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli
amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di
amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i
fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e
subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla
madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia,
le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a
sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice
esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi,
anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e
quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti – poi
diventeranno addirittura tre o quattro – trovano Luigi che straparla come
suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo.
Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva
Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi
riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la
polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone
poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è
massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e
forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo
schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena
e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a
desistere. “Non fate così, lo ammazzate…!” dice lui, “Si allontani!”
sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge
che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a
forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i
poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia
sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette…. non si
trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente
riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le
chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!”
gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa
schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da
fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri
si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente
istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare
(o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta
il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne,
mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per
giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della
“collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la
presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino,
evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi
tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto
insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa
della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione.
Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato?
Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie
versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione.
“Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale,
mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto
d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive
nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio
Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima
efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la
sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi
Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del
cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano
alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa
di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato
di merda”.

Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito
di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15
febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le
versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e
dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il
processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti
del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte
sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni
altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime
udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali
dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna
degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a
3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale
i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del
processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto
condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce
alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti
chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il
processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria
della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti
fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono
definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”.
A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa
il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre
dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto
d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di
pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare
che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15
febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.

Dr Antonio Giangrande

Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia