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TAURIANOVA (RC), GIOVEDì 25 APRILE 2024

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Darei la vita per non morire Riflessioni grottesche e ridanciane del giurista Giovanni Cardona sulla morte

Darei la vita per non morire Riflessioni grottesche e ridanciane del giurista Giovanni Cardona sulla morte
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Diceva Epicuro di Samo, filosofo sui generis, a cavallo tra il 342 e il 270 a.C. che “Il male più terribile, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi la morte non c’è e quando c’è la morte non siamo più noi”.
La “Joie de vivre”, cantata quale inno alla gioia di esistere, è stata corteggiata da Baudelaire, da Rimbaud, da Verlaine, da Guy di Maupassant, da Victor Hugo e da altri sensibili poeti e intellettuali in molti scritti dove eroi, vigliacchi, scemi, cialtroni, santi, assassini, scienziati od analfabeti, si sono ritrovati a scontrarsi, mutandone la personalità al dottor Jekyll al mister Hyde di turno, con l’impari lotta esistente tra il bene e il male.
L’Oreste di Shakespeare non invano gridava “Spesso è da forte più che il morire, il vivere” ponendo questa ansia, questo anelito, questa attrazione verso l’esistenza vissuta al ritmo di pensiero, idea, lotta, rivoluzione e trasformazione.
Nell’Odissea, mentre Ulisse scende nell’Ade e incontra l’eroe supremo Achille, lo stesso Omero fa proferire a quest’ultimo tale incantevole e nostalgico fraseggio “Meglio essere l’ultimo degli uomini sulla terra che il primo qui nell’Ade”!
L’essere umano prepara tutto per la vita: festini, divertissementes, tripudi, bagordi, fuochi d’artificio e mille altre manie che riflettono l’esistenza, tanto da far scrivere a Freud che: “Amare la vita è l’unico mezzo sicuro per essere risparmiati dalla morte”.
Nel regno della morte probabilmente nessuno sarà felice, tanto che nel coro delle Eumenidi di Eschilo si legge “Orsù, staniamo dalle mura domestiche chi uccide. Dove andranno non esiste la parola felicità.”
I tramonti infuocati d’estate, le nuvole solitarie, le montagne altissime, i vulcani eruttanti, le etnie fratricide, la lotta della legge contro l’ingiustizia, la creazione artistica, la genialità degli inventori, la scrittura poetica, le scempiaggini dei politici per gabbare l’elettorato, le elucubrazioni teosofiche e filosofiche illuminano la vita come un fulgore a mezzanotte rendendola a tratti immortale.
Ma saltando di piè pari tutti i fossati della logica aristotelica e ulteriori filosofi supervenienti, approdiamo al pensiero di Schopenhauer, il quale nel suo poderoso libro “Il mondo come volontà e rappresentazione” asserisce: “Uscita dalla notte dell’incoscienza per aprirsi alla vita, la volontà si ritrova, come individuo, in un mondo senza fine e confini, tra innumerevoli individui, tutti pieni di aspirazione, di sofferenze ed errori, e, come se stesse attraversando un brutto sogno, cerca di ritornare in fretta all’antica incoscienza”.
L’amore per la vita sembra una espressione utopistica, essendone connesso il concetto di sofferenza, di tristezza, di angoscia, di stress: ma, indubbiamente, questo tratto ermeneutico è solo un paradossale “understatement”.
Se ci soffermassimo a considerare che la nostra esistenza è dipesa da una spocchiosa diatriba sulla frutta tra Dio e Adamo, di certo non mangeremmo solo mele ma anche pere, ciliegie, cocomeri e banane che la censura partigiana di allora non mise nel conto metafisico.
La rivoluzione di ogni cosa nel mondo, a cominciare dal ghigno di Caino per finire alla nascita di un essere umano, costituisce il risultato dell’attaccamento alla vita, come prodigio rappresentante il miracolo di se stessa.