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TAURIANOVA (RC), VENERDì 26 APRILE 2024

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Smart working e giustizia Riflessione del giurista blogger Giovanni Cardona sulla positività evolutiva del processo civile in tempi di Covid-19

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Nel famoso monologo di Amleto, tra i mali della vita, ai quali si dovrebbe auspicare di sfuggire con un solo colpo netto, Shakespeare annovera “the law’s delay”, i ritardi della legge, cioè i tempi lunghi che bisogna impiegare per avere giustizia.

La lunghezza dei processi è dunque un male antico.

Ma la vetustà dei mali non è quasi mai una ragione sufficiente per rassegnarsi al loro perdurare.

Nel processo civile, è generale osservazione, che la durata dipende soprattutto dall’esasperazione del suo tradizionale carattere dispositivo.

Con quest’ultimo aggettivo si definisce, nel linguaggio giuridico, un procedimento che si sviluppa soltanto su iniziativa delle parti.

Il rito ordinario, previsto dal Codice di procedura civile del 1865, era di questo tipo; è spiegabile perciò che vi fosse previsto un istituto singolare, la perenzione, vale a dire l’estinzione del processo per inattività delle parti, protrattasi per lungo tempo.

Un processo di questo, tipo si adattava ad una società notevolmente statica, ad economia prevalentemente agricola, dove le cause concernevano soprattutto questioni di confine fra grossi proprietari terrieri, o diritti di passaggio tra due fondi confinanti, o aggrovigliate questioni ereditarie, di cui spesso è traccia nei narratori dell’Ottocento, come la causa col re di Spagna, che nel Mastro don Gesualdo di Verga si dice che la famiglia Trao teneva in piedi da oltre cento anni.

Per la verità, già agli albori del novecento, venne osservato che tale processo non era più conforme ai tempi, che la tempestività della decisione era di per se stessa un valore, che perciò il giudice non doveva essere l’arbitro inerte di private questioni, ma doveva, quale organo dello Stato, rendersi garante del sollecito e corretto svolgimento della contesa. Tale diverso modo di vedere fu sostenuto particolarmente da un giurista, che ha legato il proprio nome all’affermazione del carattere pubblicistico del processo civile, Giuseppe Chiovenda.

E facile notare come il diverso modo di intendere il processo è stato sempre condizionato dalla generale concezione del mondo, che ha caratterizzato le varie epoche storiche. Il vecchio processo corrispondeva all’individualismo atomistico ottocentesco, la scienza nuova del processo, era ispirata ad una concezione che vedeva nello Stato l’istituzione centrale dello sviluppo storico e, al limite, della stessa eticità dell’uomo.

Così il Codice regio del 28 ottobre 1940, statuì nell’art. 175 un principio innovatore: «Il giudice istruttore esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento».

Tali poteri potevano essere esercitati dal giudice mediante le preclusioni.

Con questo termine si intende l’onere di proporre determinate domande o determinate difese, di produrre o di proporre certi strumenti probatori entro un termine prestabilito dalla legge o dal giudice.

Le preclusioni sono sempre state viste come il fumo negli occhi da alcune anime pie, perché, a loro parere, avrebbero il torto di fare prevalere la verità formale sulla verità sostanziale.

Su questo punto il nuovo processo trovò impreparati gli operatori che avrebbero dovuto applicarlo. Sia i magistrati sia gli avvocati, che sociologicamente vanno raggruppati in una medesima classe, consideravano, a quell’epoca, la loro professione, in accordo con una tradizione risalente ai giureconsulti romani della tarda Repubblica, come un otium culturale di tipo umanistico, ben lontano dalla dinamicità di una funzione pubblica moderna.

La dinamicità peraltro nel primo Novecento era stata un valore di élites culturali estetizzanti (si pensi ai futuristi), di persone cioè ben lontane dalla mentalità caratteristica della gens de robe.

Il nuovo Codice venne semplicemente ignorato, finché nel 1950 una Novella ne stravolse l’impianto, semplicemente limitando al massimo le presunzioni ed attuando così, in parte, un ritorno all’antico.

La legge 26 novembre 1990, n. 353 riforma la impostazione di base del processo civile col ripristino delle preclusioni, pur nell’ambito di un disegno diverso da quello originario con alcune innovazioni importanti, come il tentativo obbligatorio di conciliazione, mutuato dal processo del lavoro, riformato con successo nel 1973.

Tuttavia le polemiche sulla legge di riforma sono ormai storia trascorsa, tutte le innovazioni anche successive, sono il portato di questo mutamento sostanziale avvenuto in seno al processo civile.

L’impegno che adesso debbono proporsi tutti gli operatori del diritto nella contingenza pandemica, da qualunque parte della sbarra esercitino la loro funzione, è di far funzionare la legge.

L’esigenza di adeguare il processo civile ad un’epoca, in cui l’accesso alla giustizia non è limitato di fatto a pochi ricchi proprietari terrieri, ma è generalizzato, come deve essere in una società democratica, dove la ricchezza è sempre più diffusa, non può essere posta in dubbio.

La nuova legge molto opportunamente privilegia decisioni delle liti alternative alla sentenza, favorendo scorciatoie come i provvedimenti cautelari o le ordinanze, che decidono parti della domanda, man mano che risultano provate.

Il nuovo rito telematizzato impone un impegno molto maggiore che in passato da parte sia dei giudici, sia degli avvocati; infatti non sono più ammessi rinvii a vuoto e perciò bisogna arrivare ad ogni udienza conoscendo a fondo gli atti della causa.

È presto per fornire un giudizio sul funzionamento del nuovo sistema del processo civile telematico nei diversi gradi di giurisdizione.

Di fronte all’esigenza ormai improcrastinabile dell’adeguamento di una funzione fondamentale del vivere civile alla realtà socio-culturale del nostro tempo, è doveroso impegnarsi al massimo e soprattutto formulare, contro tutte le difficoltà che pur ancora persistono, i migliori auspici.

Questo insomma è uno dei casi nei quali bisogna fare prevalere l’ottimismo della volontà, il quale, se è molto forte, può prevalere sullo scetticismo, spesso suggerito alla ragione dalle passate, poco felici esperienze.