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TAURIANOVA (RC), VENERDì 03 MAGGIO 2024

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Alluvione 2011: la vera causa è culturale

Alluvione 2011: la vera causa è culturale

Riceviamo e pubblichiamo – Ing. Fabio Scionti (Referente Calabria CIRF)

Alluvione 2011: la vera causa è culturale

Riceviamo e pubblichiamo – Ing. Fabio Scionti (Referente Calabria CIRF)

 

 

 

 

 

Ricordo ancora nel 2005, in una lezione di un corso organizzato dal CIRF (Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale) aperto ai tecnici di Enti Pubblici, veniva illustrato il caso di Aulla come esempio della causa più frequente del rischio alluvionale.

Una cartolina degli anni ’50 mostrava Aulla (paese toscano devastato dall’ultima alluvione): la stazione ferroviaria e poco più di una fila di case lungo la statale della Cisa; da qui al fiume l’alveo di piena del Magra percorso da alvei secondari e, nei terreni interclusi, campi sfalciati con covoni di fieno; le frequenti inondazioni non consentivano uno sfruttamento più redditizio di questi terreni. Ma altre foto di appena pochi anni dopo mostravano le iniziative assunte per riscattare Aulla dalla sua condizione di borgo di passaggio: grazie alla costruzione di un alto argine in cemento, l’intero alveo di piena veniva sottratto al fiume e poi colmato con terra di riporto. Finalmente, con questa vasta fascia da urbanizzare, si erano create le condizioni per lo sviluppo economico di Aulla. Da allora ad oggi sono sorti la sede comunale, strade, palazzi, negozi, asili, garage seminterrati, centri commerciali; il paese è divenuto città. In modo un po’ retorico, la lezione si poneva la domanda «fu vero sviluppo?» e rispondeva delimitando su un’immagine satellitare recente (tratta da Google) un’ampia fascia che prima o poi sarebbe stata certamente inondata: tutta l’area corrispondente all’ex alveo di piena, dunque tutta la moderna Aulla; si salvava solo il vecchio insediamento.

L’unico dubbio lasciato aperto non riguardava il “se”, ma solo il “quando”. Oggi il “quando” è puntualmente arrivato rispettando al millimetro le previsioni e spazzando via beni e vite umane; probabilmente, però, non riuscirà a scalfire l’illusione che si possa creare uno sviluppo duraturo violando le leggi della natura e le più elementari norme di sicurezza.

Naturalmente il CIRF non ha alcuna facoltà divinatoria: aveva semplicemente consultato la carta del rischio idraulico dell’Autorità di bacino del Magra, frutto di sofisticati modelli idrologici; ma, anche in mancanza di quest’ultima, gli sarebbe bastato l’antico proverbio “dopo cento anni e cento mesi l’acqua torna ai suoi paesi”.

Gli amministratori di Aulla e non solo di Aulla, evidentemente, non sono inclini a considerare seriamente né la saggezza popolare, né le carte dell’Autorità di bacino. Né è possibile concedere loro il comodo alibi che si tratti di “errori del passato”, visto che la corsa all’edificazione non si è mai interrotta e, possiamo già scommetterci, riprenderà ben presto, non appena lenite le ferite dell’alluvione. La causa primaria dell’alluvione di Aulla è dunque l’«ubriacatura dello sviluppo», una sorta di “malattia professionale” altamente infettiva che colpisce indiscriminatamente gli amministratori di destra e di sinistra: una malattia dagli effetti particolarmente perversi, visto che trasforma in fattore di aggravamento del rischio anche le opere concepite per la sicurezza (quali gli argini).

Nel corposo volume “La riqualificazione Fluviale in Italia”, edito dal CIRF nel 2005, il meccanismo perverso è chiaramente spiegato: “se un’area inondabile con tre edifici viene arginata, la pericolosità idraulica (la frequenza di inondazione) viene effettivamente ridotta, supponiamo di 5 volte. Ma se quest’area “messa in sicurezza” viene poi urbanizzata portando gli edifici a trenta, in caso di inondazione i danni aumenteranno di dieci volte. Il risultato complessivo (arginatura più urbanizzazione) è dunque un raddoppio del rischio idraulico”.

Con dovizia di dati, il volume documenta come in Italia questo meccanismo perverso non sia l’eccezione, bensì la regola, col risultato paradossale che più si spende in opere di “difesa” idraulica, più aumentano i rischi e i danni alluvionali. Perciò, se è vero che la difesa del suolo soffre di una cronica e crescente carenza di stanziamenti, è altrettanto vero che, in assenza di un radicale cambiamento culturale, tale carenza è provvidenziale poiché rallenta l’ulteriore crescita del rischio idraulico.

I fiumi, infatti, ancor prima e più che di “opere”, hanno bisogno di una buona gestione.

A tal fine è necessario cambiare innanzitutto la cultura e perfino il linguaggio: iniziando col bandire l’illusorio concetto di “messa in sicurezza”, da sostituire con quello di “riduzione del rischio”. Già questo cambio lessicale ci farebbe capire che non possiamo eliminare completamente il rischio, ma dobbiamo imparare a gestirlo, a convivere con esso. Ne conseguirebbero allora politiche di uso del suolo ben diverse perché, se resta la coscienza che il rischio c’è, sarà più difficile permettersi scelte che lo aumentino. Soprattutto se, nell’iter dei piani regolatori, si introducesse l’obbligo di rendere pubblica, per ogni area, l’entità del rischio idraulico conseguente a diversi scenari edificatori.

Questo semplice ma rivoluzionario cambiamento culturale è anche la chiave per acquisire quella mentalità critica che, individuando la causa primaria delle alluvioni nell’ubriacatura dello sviluppo (che, prosaicamente, si concreta nell’urbanizzazione), ci rende istintivamente diffidenti verso ogni attribuzione delle responsabilità ad altre cause che distolgono l’attenzione da quella principale.

Oltre alla mancanza di fondi, vengono spesso addotte altre finte cause che, intenzionalmente o meno, svolgono la funzione di “depistaggio”. Ad esempio: «è colpa del cambiamento climatico, del riscaldamento globale». Sì, pare stia davvero peggiorando le cose; ma eventi di questo tipo ci sono e ci saranno sempre, forse sempre più spesso. Semplicemente, il futuro sarà peggio, ma anche il passato non è stato per nulla roseo. In ogni caso, se hai avuto l’accortezza di edificare in aree non a rischio, puoi ugualmente dormire sonni tranquilli.

Analogamente, gli sterminati cumuli di tronchi trasportati da ogni alluvione fanno attribuire la colpa alle mancate «pulizie fluviali» (intese come taglio della vegetazione in alveo, quasi che quest’ultima fosse sporcizia), sebbene la stragrande maggioranza dei tronchi provenga dalle frane dei versanti e gli alberi in alveo – al contrario – svolgano una duplice funzione protettiva: trattengono parte degli alberi precipitati in alveo dalle frane e, grazie all’attrito, rallentano la velocità della corrente, attenuandone perciò la furia distruttiva.

E ancora: «bisogna dragare gli alvei dagli accumuli di ghiaie», gridano a gran voce molti sindaci, soprattutto quelli che più si sono distinti nel “mettere in sicurezza” i territori “strappati” al fiume e, poi, nell’edificarli. I dragaggi, in effetti, sono un diversivo doppiamente comodo: distolgono l’attenzione dalle proprie responsabilità e riducono il rischio idraulico locale. Poco importa se, canalizzando l’alveo, fanno prendere la rincorsa alle piene scaricando sugli abitati posti a valle un rischio aggravato.

Insomma, la coscienza critica indotta dal semplice cambiamento culturale (dalla messa in sicurezza al convivere col rischio) potrebbe essere lo strumento che, più di un fiume di denaro investito in opere di difesa, ci permetterebbe di ridurre il rischio senza farci abbindolare dai luoghi comuni e dai diversivi, siano essi dettati dall’ignoranza o dall’interesse.

                                                              

                                                                                              Ing. Fabio Scionti (Referente Calabria CIRF)