Image Image Image Image Image Image Image Image Image Image

TAURIANOVA (RC), DOMENICA 05 MAGGIO 2024

Torna su

Torna su

 
 

Alfano ed il pugnale dei dorotei

Alfano ed il pugnale dei dorotei

Editoriale di Bartolo Ciccardini

Alfano ed il pugnale dei dorotei

Editoriale di Bartolo Ciccardini

 

Chiedo scusa ad Amintore Fanfani, grande “cavallo di razza”, indomito, lavoratore
indefesso, che sapeva portare a termine i suoi progetti, se nella mia memoria lo
accosto al Berlusconi di ieri. Ma questa giornata mi ricorda un’altra giornata storica:
quella della Domus Mariae.

Fatte le dovute differenze, non potrebbe non essere così.

Ho vissuto personalmente, da vicino, quei giorni. Quando il grande gruppo di Iniziativa
Democratica, progettato da Dossetti, affidato da lui alla pazienza costruttiva di
Rumor, con il compito di trovare un accordo con De Gasperi e scegliere dopo, e solamente
dopo, la leadership di Fanfani, la seconda generazione che era andata a sostituire
i Popolari nella guida del Partito e che si preparava al disegno politico allora
rivoluzionario del centro-sinistra, si spaccò in due, non sopportando più l’egemonia
prepotente di Fanfani. La persona più tragicamente colpita era Rumor, legato a Fanfani,
non accettava più il suo modo di dirigere. Ma era inviso agli altri dorotei perché
era stato il suo braccio destro nel Partito.

Rumor con grande generosità non badava al fatto che il suo segretario fosse fanfaniano
e che lo fossi anch’io, che in quel momento collaboravo con lui al Ministero dell’Agricoltura.

Con Fanfani c’era anche Forlani, ma i dorotei (Colombo, Gui, Zaccagnini, Taviani)
erano tutti accesi dalla volontà di farla finita col padre padrone. Fra i giovani
Baget e Malfatti erano con Fanfani, ma Sarti e Cossiga erano con i dorotei.

La crisi tagliava con il rasoio la carne viva. Ho vissuto da vicino la tragedia di
Rumor, uomo buono e generoso, che avrebbe dovuto già essere Segretario del Partito
se Fanfani avesse rinunciato a questo incarico per fare il Presidente del Consiglio.
Invece si era auto-esiliato al Ministero dell’Agricoltura. Pur avendo preso la sua
decisione, non voleva comparire fra i pugnalatori di Fanfani. Moro, capo provvisorio
del partito, una sorta di inter-rex, di commissario, guidava con una compostezza
apparentemente distaccata la difficile operazione. Fanfani che,in un momento di ira
si era dimesso da tutti gli incarichi, voleva tornare ad essere il Segretario del
Partito. Per riprendere la sua politica, volta ormai decisamente al centro sinistra.

E così si celebrò il grande rito sacrificale. Fanfani trovò al suo fianco la corrente
di Base, non eccessivamente convinta. A me capitò per caso, avendo accompagnato Pastore,
allora capo dei cislini e degli aclisti, di assistere, seduto nel posto anteriore
della macchina, vicino all’autista, alla dura trattativa di un’alleanza che era pur
necessaria fra un sindacalista, durissimo per esperienza conflittuale, ed un leader
dalla volontà di ferro, come era Fanfani.

A me capitò di assistere, l’ho già raccontato, all’episodio di Vincenzo Aimme (autista
di Rumor che era stato autista del Movimento Giovanile) che prese per il bavero Colombo
dicendogli a brutto muso: “Avete perso!”. Colombo dovette correre da Franco Salvi,
che dirigeva le operazioni per conto di Moro, rifece i conti nella notte. Constatarono
che Aimme aveva ragione.

Rumor e Colombo andarono di corsa a svegliare Antonio Segni, che era il tagliente
capo riconosciuto dei dorotei. Mi fu raccontato che Antonio Segni andò a svegliare
Giulio Andreotti, capo della corrente primavera, che non aveva mai accettato né Fanfani,
né Iniziativa Democratica, per chiedergli di non votare per la sua lista, ma di votare
per i dorotei.

Mario Segni mi ha confermato molti anni dopo quello che io avevo già saputo: che
il padre andò in vestaglia a svegliare Andreotti. Ed Andreotti, lo sventurato, rispose.

Franco Evangelisti fu spedito a sedare la rivolta dei delegati andreottiani piangenti.
Moro vinse il Congresso e pilotò Fanfani a fare il governo che avrebbe aperto la
strada ai socialisti.

Così funzionava la Democrazia Cristiana: dove nessuno poteva essere duce e dove la
classe dirigente conosceva il pugnale con cui venivano ricondotti nel gruppo coloro
che se ne erano troppo allontanati. Il pugnale dei dorotei, non a caso nel nostro
Rinascimento si chiamava “misericordia”.

Come non potevano venire in mente queste antiche memorie quando ho letto negli occhi
di Alfano che si congratulava con Letta brillare la luce del pugnale dei dorotei?

La lunga disputa sui delitti e sulle pene sparisce come nebbia al mattino. Il re
è morto, viva il re! Nasce una nuova generazione! Che Dio l’aiuti a salvare l’Italia.

Di tutto questo non si è accorto il giovane antipatico Roberto Speranza, che seguita,
a “Porta a Porta”, come un grammofono gracidante a parlare del processo di Berlusconi.
Ha di fronte a sé una giovane, Beatrice Lorenzin, che esce da una tragedia greca,
che ha “ucciso” suo padre, che sarebbe decisa a rifarlo, ma che esige rispetto, perchè
sempre suo padre è. Ma Speranza non lo capisce, la incalza con petulanza, ripete
frasi che non sono più necessarie, la mette in difficoltà nei confronti di coloro
che la chiameranno traditrice e stupidamente si mette dalla parte di quelli che non
sanno adoperare il “pugnale”, che perdono sempre, ma che credono di essere i vincitori
per grazia di Dio. No, caro Speranza, lei ha vinto e tu non hai ancora mai combattuto.
Stai zitto, per favore!

Domani comincerà un’altra storia.

Bartolo Ciccardini