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TAURIANOVA (RC), DOMENICA 28 APRILE 2024

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2001-2011 la storia è ripartita

2001-2011 la storia è ripartita

Analisi su quello che sta succedendo nel mondo

2001-2011 la storia è ripartita

Analisi su quello che sta succedendo nel mondo

 

 

 

 

ROMA – Sono trascorsi quasi dieci anni da quel martedì mattina di inizio settembre 2001. L’Afghanistan era guidato da un gruppo di fanatici religiosi che aveva consegnato il paese ai campi d’addestramento per terroristi di Osama Bin Laden. L’Iraq era governato dal più sanguinario dittatore dell’epoca moderna, Saddam Hussein, il nuovo Saladino che in nome del panarabismo nazionalsocialista e di una più recente svolta islamista sterminava i suoi concittadini con le armi di distruzione di massa, invadeva i paesi vicini, finanziava i kamikaze anti-israeliani e violava dal 1991 le risoluzioni dell’Onu. A Ramallah c’era il vecchio raìs palestinese Yasser Arafat, l’uomo in divisa militare che nonostante il Nobel per la Pace aveva costretto i palestinesi a un destino di violenza perpetua, tradendo le aspettative di uno stato arabo e rigettando gli accordi di pace siglati con il governo di sinistra israeliano e il presidente americano Bill Clinton. Quella mattina di settembre l’esercito israeliano controllava ancora Gaza e gran parte della Cisgiordania, mentre la Siria occupava militarmente il Libano. L’Iran degli ayatollah fondamentalisti avviava i programmi nucleari, continuava a esportare la rivoluzione islamista e prendeva in giro l’occidente mostrando il suo inesistente lato riformista.

Il Pakistan manovrava i talebani in Afghanistan, fomentava la cultura dell’odio nella regione e con il suo maggiore scienziato, A.Q. Khan, gestiva un network internazionale che trafficava tecnologie nucleari dalla Libia alla Corea del Nord. La Libia era il regno di Muammar Gheddafi, il colonnello del terrorismo internazionale. L’Egitto era saldamente in mano a Hosni Mubarak, il despota finanziato dagli Stati Uniti e alleato di Israele che per farsi perdonare questi peccati originali aveva cambiato in senso islamista la Costituzione e consentiva il dissenso musulmano, anche per dimostrare agli occidentali che l’alternativa al regime sarebbe stata peggiore.

Il presidente sudanese Omar Bashir e il teologo islamista amico di Saddam e di Bin Laden, Hasan al-Turabi, pianificavano prima insieme, poi l’uno contro l’altro, il conflitto intra-islamico in Sudan che ha portato al genocidio in Darfur e alla guerra civile con il sud cristiano e animista. La Tunisia era guidata dal dittatore Zine El-Abidine Ben Ali. Gli altri stati del Maghreb e i paesi del Golfo erano paciosamente in mano a tiranni, emiri e reali. Democrazia, diritti e libertà: zero.

Quella mattina di settembre di dieci anni fa ci siamo accorti di come la storia non fosse affatto finita, nonostante gli ottimistici annunci del professor Francis Fukuyama all’indomani della caduta del comunismo. L’11 settembre 2001, semmai, la storia è iniziata. Le rivolte di queste settimane, dal Maghreb all’Iran, sono cominciate il giorno in cui il mondo è cambiato per sempre. C’è un legame diretto tra allora e oggi, una causa e un effetto. Ad aver scatenato questa rivolta anti dispotica che, nel bene o nel male potrebbe sfociare in un nuovo secolo mediorientale, ci sono una decisione strategica e un’intuizione culturale: la fine dello status quo in Medio Oriente e l’idea che la democrazia non sia esclusiva occidentale. Tutti aspirano alla libertà, allo sviluppo e al progresso, come ha scritto il Nobel Amartya Sen.

Allora si disse che dopo l’11 settembre niente sarebbe stato più come prima. Dieci anni dopo l’attacco a New York e Washington, nella regione che per sessanta anni è stata ancorata all’equilibrio immobile è cambiato tutto. Ma non come auspicava Tancredi nel Gattopardo «per non cambiare nulla». Al contrario. Premier di sinistra come Tony Blair e presidenti conservatori come George W. Bush hanno sperato di contrastare con la libertà e la democrazia i despoti. La svolta culturale e politica, epocale, ha resistito alle defaillance sul campo, ai passi indietro di Bush alla fine del suo secondo mandato, all’uscita di scena di Blair e alle promesse di Barack Obama di tornare a una politica estera pragmatica, vecchio stampo, meno idealista. Perfino agli scacchi in Iraq e Afghanistan, con il segretario della Difesa Bob Gates che ora annuncia che nel XXI secolo guerre così non ce ne saranno più. Blair e Bush non sono stati gli unici a capire che valori etici, principi morali e interessi nazionali coincidono.

Con la strana coppia si sono schierati i governi italiano, spagnolo, portoghese, polacco e poi quelli di tutta l’ex Europa dell’Est, la regione appena liberatasi dal totalitarismo. Erano governi di destra, di centro e di sinistra. Le opinioni pubbliche di quei paesi erano sì divise o contrarie alla guerra in Iraq a maggioranza assoluta, ma soltanto la Francia del presidente gollista Jacques Chirac e la Germania socialdemocratica di Gerhard Schröeder, assieme a qualche alleato minore, si sono opposti alla nuova visione del Medio Oriente. E oggi nelle sue memorie il ministro degli Esteri tedesco di allora, Fischer, racconta di aver provato una «terza via», parallela al Segretario di stato Usa Colin Powell, purtroppo fallendo.

In Afghanistan e in Iraq, tra mille difficoltà è stato avviato un processo di autogoverno sotto l’egida dell’Onu e della Nato, e ora lo stratega John Nagl comincia a vedere qualche speranza anche militare. Bin Laden ha perso, sempre che sia ancora vivo. I palestinesi amministrano i loro territori, hanno tenuto le elezioni e si sono spaccati tra l’ala di Abu Mazen e Hamas che Obama e l’Europa definiscono «terrorista». La Siria ha lasciato il Libano e, nel 2005, subito dopo il voto in Iraq, a Beirut c’è stata la rivoluzione dei cedri, primo germoglio democratico della regione che non ha però evitato la guerra tra Hezbollah e Israele, e il ritorno dell’ombra fondamentalista a Beirut. L’Iran può contare su un’opposizione anti autoritaria che potrebbe anche aver vinto le elezioni contro Ahmadinejad.

Il principio della teocrazia iraniana, l’autorità legislativa degli ayatollah, è messo in discussione dal popolo e dal clero (grazie anche alla lezione teologica dell’ayatollah iraniano Al Sistani in Iraq). L’ammuina iraniana sul nucleare non inganna più la comunità internazionale. Il Pakistan resta ambiguo, ma su pressioni americane combatte quel che resta di Al Qaeda dentro i suoi confini e non protesta per la campagna di bombardamenti Usa contro i talebani nel Waziristan. La Libia è travolta dalle proteste popolari, nonostante Gheddafi sia stato il più lesto, dopo l’11 settembre, a consegnarsi all’occidente, riconoscendo i crimini del passato e svelando piani nucleari di cui il mondo non era a conoscenza. Mubarak è caduto.

Entro fine anno, probabilmente, l’Egitto sceglierà (speriamo democraticamente) il successore. Il sudanese Bashir ha annunciato che non si ricandiderà, mentre a Juba è nata la repubblica del Sud Sudan grazie alla mediazione americana. Il presidente tunisino Ben Ali non c’è più e vacillano i suoi colleghi dal Marocco al Barhein, costretti a promettere perfino in Arabia Saudita, riforme, aperture, diritti.

Il Medio Oriente si muove. C’è il rischio di una deriva fondamentalista certo, ma è un’onda che si ingrossa da tempo. L’islamismo radicale è stato alimentato dai regimi dispotici al potere da 60 anni, sostenuti dalla Realpolitik ipocrita, morta con l’11 settembre. Chi avrebbe immaginato che il paese «più stabile» sarebbe stato l’Iraq liberato da Saddam, dove proteste, scontri e violenze non mancano, ma per ottenere lavoro, pensioni, servizi? Eppure molti studi incoraggiavano le speranze, spiegando il cambio di strategia e i possibili sviluppi positivi in Medio Oriente.

Oltre ai famigerati neoconservatori, un gruppo di intellettuali liberal ha sostenuto che il mondo arabo merita libertà, aspira alla democrazia e avrebbe cacciato i carcerieri se solo avesse potuto scegliere. Bill Keller, direttore del «New York Times», giornale Bibbia dei progressisti, parlava di «quelli del club non-posso-credere-di-essere-diventato-un-falco», liberal ma pragmatici. Lui stesso ne fa parte, con il columnist Thomas Friedman, i direttori del «New Yorker» David Remnick e «New Republic» Peter Beinart. L’uomo che ha convinto il mondo liberal a rimuovere il regime di Saddam Hussein è stato Kenneth Pollack, ex dirigente politico di Bill Clinton e analista alla Brookings Institution.

Il suo libro, The Threatening Storm – The case for invading Iraq, è stato fondamentale per giungere alla conclusione che l’invasione irachena sarebbe stato il male minore.
Paul Berman e Christopher Hitchens, socialdemocratico il primo e di sinistra (in Italia era grande amico del «Manifesto»!) il secondo, hanno spiegato la natura antitotalitaria dell’intervento in Iraq e la necessità di scaricare i satrapi mediorientali. Terrore e Liberalismo di Berman e A Long Short War di Hitchens non sono propaganda per Rumsfeld, ma sintesi di un pensiero liberal e di sinistra con radici nel movimentismo del Sessantotto e nelle campagne di Clinton e Blair (e da noi di D’Alema e Barbara Spinelli) contro la pulizia etnica nei Balcani. Tony Blair, in un discorso a Chicago del 1999, collega la campagna contro Milosevic a quella contro Saddam. In difesa della democrazia – Il potere della libertà contro ogni forma di regime (2004) dell’ex dissidente sovietico Nathan Sharansky è stato il manuale pro-democracy preso a modello dall’amministrazione Bush.

Oggi l’uomo che sfidò il gulag sgrida i connazionali israeliani: se in nome della sicurezza non aiutate la libertà in Egitto, farete come chi, ragionando così, ai tempi dell’Urss ci lasciava in Siberia. La battaglia è per la democrazia – Vincere la guerra di idee in America e nel mondo è il titolo del libro curato nel 2003 da George Packer del «New Yorker» con il dibattito di sinistra sulla promozione della democrazia. Peter Beinart ha scritto The Good Fight: Why Liberal – and Only Liberals – Can Win the War on Terror and Make America Great Again. Thomas Cushman, professore di sociologia a Wellesley in Massachussetts e direttore del «Journal of Human Rights», nel 2005 ha scritto A Matter of Principle: Humanitarian Arguments for the War in Iraq.

Anche in Europa intellettuali progressisti hanno sostenuto l’idea di cambiare l’atteggiamento cinico e «kissingeriano» in Medio Oriente. André Glucksmann, il fondatore di Medici Senza Frontiere Bernard Kouchner, Pascal Bruckner, il Nobel Vaclav Havel, il poeta Enzensberger, Leon de Winter, Martin Amis, Ian McEwan. In Asia non vanno dimenticati il Nobel per la Pace José Ramos-Horta e il Nobel per l’Economia Amartya Sen. Con toni e modi diversi, spesso da posizioni opposte a quelle di George W. Bush (che Havel accolse suonando Imagine di Lennon!), hanno argomentato per l’intervento democratico in Medio Oriente. Bernard Henry Levy ha compiuto un’indagine sull’islamismo pakistano con Chi ha ucciso Daniel Pearl? In Polonia Adam Michnik, leader anticonformista del movimento sindacale Solidarnosc, poi direttore del quotidiano «Gazeta Wyborcza» s’è battuto senza tregua. E anche in Italia qualcuno ha avuto il fegato, e la lucidità, di andare controcorrente.

Lo storico della Guerra Fredda John Lewis Gaddis ha definito la svolta post 11 settembre una «Grand Strategy», nel saggio Surprise, Security, and the American Experience. Promuovere la democrazia e far pressioni sulle società dispotiche è ormai scelta necessaria, l’unica percorribile e conveniente. Questa strategia ha indebolito i regimi e rafforzato la dissidenza. La storia è in corso e non sappiamo, naturalmente, come andrà a finire. La scelta è in mano a chi sta abbattendo le dittature, come dice saggiamente il presidente Obama. Gli studiosi che in questi anni hanno anticipato il “risveglio arabo” sono certi, come Gates a West Point, che nella regione non ci saranno altre guerre a tutto campo stile Baghdad e Kabul. Ma sanno che dai Balcani, alla Cina al Medio Oriente, il compito dell’occidente libero resterà lo stesso nel XXI secolo: fermare i massacri, aiutare a cambiare i regimi e sostenere i dissidenti democratici.