GIOIA TAURO NON TRATTA.
GIOIA TAURO NON SVENDE.
GIOIA TAURO RESISTE.
Pensare oggi — nel cuore di un’Europa paralizzata tra la morsa della paura di una guerra, fuori la porta di casa, da un lato, e stritolata dall’America che le impone come mangiare e come respirare, cosa consumare e cosa produrre — di insediare un nuovo polo industriale nel Sud d’Italia è atto di pura incoscienza, o peggio, di mero calcolo.
O non si conosce la storia, oppure si cerca di piegarla ai propri interessi.
Qui, a Gioia Tauro, l’industria, ad onor del vero, ha avuto una sua vocazione. Ma l’ha avuta nel secolo scorso.
Agli inizi del Novecento, quando c’erano i frantoi e le raffinerie degli scarti degli olifici, la Gaslini, l’OLCA.
Una epopea industriale morta e sepolta sotto la nostra nobile storia.
Era un’altra epoca, un altro mondo, un’altra economia.
Poi il tempo ha fatto il suo corso.
E la storia ha detto chiaramente: quel modello non ha più attinenza con questo territorio.
La crisi dell’industria pesante non è un’opinione. È un fatto.
Oggi è in crisi la produzione. È in crisi la materia. È in crisi l’idea stessa di “sviluppo” che brucia risorse e vite.
Eppure si vorrebbe riproporre qui ciò che altrove è già fallito.
Acciaio, rigassificatori, centrali. Come se fossimo un pezzo di mondo rimasto indietro, da sacrificare.
Ma noi non siamo indietro.
Noi siamo altrove.
Noi siamo avanti.
Il Porto di Gioia Tauro è già una delle più importanti realtà logistiche d’Europa.
Un’infrastruttura di valore mondiale.
Ed è qui, accanto al porto, che uno dei più grandi gruppi armatoriali del pianeta — la MSC di Gianluigi Aponte — ha scelto di investire nella nautica, nella portualità, nella formazione, nel transhipment.
Ha scelto il mare, non le fornaci.
Ha scelto il futuro, non la nostalgia dell’acciaio.
E noi, invece, dovremmo cedere alla tentazione di un altro polo industriale camuffato da green economy?
Ma quale green economy?
Quella che nessuna città vuole?
Quella che cambia nome, ma non sostanza?
Quella che chiama “transizione” ciò che è solo dislocazione del danno?
Noi diciamo no.
Perché la vera economia del presente e del futuro è la blue economy.
È quella che parte dal mare, e col mare costruisce lavoro, sapere, crescita.
Non fumi. Non acciaio. Non illusioni.
Gioia Tauro non è il ripostiglio dell’Italia industriale.
Non è la succursale dei fallimenti altrui.
Non è la pattumiera d’Italia.
E la Piana non è una discarica a cielo aperto.
I fumi delle ciminiere non restano fermi a guardare il suolo da cui si alzano.
Si muovono. Si estendono. Si diffondono. Si propagano.
E possono viaggiare per chilometri e chilometri di distanza, trasportati dai venti, dalle termiche, dalle mutevoli condizioni atmosferiche.
Chi oggi vive a San Ferdinando, a Rosarno, Taurianova, Rizziconi, Palmi, Cittanova, Polistena, Laureana, deve sapere:
se arriva un altro, un nuovo impianto inquinante, respirerà anche lui quei fumi.
Li respireranno i bambini, li respireranno i campi, li respireranno le sorgenti.
E già oggi, nella Piana, esiste un termovalorizzatore.
Un impianto che — silenziosamente — inquina l’aria, avvelena le acque, compromette la terra, contamina il raccolto.
Finché la Piana di Gioia Tauro non sarà più terra agricola, ma terra morta.
Questa è una terra vocata al mare, all’agricoltura, al turismo, alla vita.
Non c’è “green” che tenga, se si fonda su combustibili fossili e grandi opere imposte.
Non c’è progresso dove si soffoca la vocazione di un popolo.
Io scelgo di parlare con chi ha investito,
non con chi ha promesso.
Con chi ha costruito,
non con chi ha tradito.
Con chi ha rischiato,
non con chi ha speculato.
Gioia Tauro non ha bisogno di elemosine.
Ha bisogno di libertà.
E la libertà si conquista.