Dazi USA: Sud abbandonato, la Calabria paga il prezzo dell’Europa dei burocrati
Lug 28, 2025 - redazione
di Claudio Maria Ciacci
L’accordo commerciale firmato ieri in Scozia tra Ursula von der Leyen e il presidente statunitense Donald Trump introduce un dazio del 15% su gran parte delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti. Un compromesso presentato come una vittoria diplomatica, ma che ancora una volta viene pagato dal Sud, da quelle regioni e da quei produttori che da decenni combattono contro l’abbandono, l’isolamento economico e l’indifferenza istituzionale. In prima linea c’è la Calabria, e in particolare la provincia di Catanzaro, dove l’export agroalimentare rappresenta una delle poche ancore produttive ancora solide. Olio extravergine, conserve artigianali, vino, pasta tradizionale e fichi trasformati: sono questi i prodotti che, pur essendo ambasciatori del vero Made in Italy, non sono stati inclusi nella lista dei beni esenti dal nuovo dazio. L’effetto è diretto e spietato: un rincaro medio del 15% sui mercati statunitensi, con il rischio concreto di perdere fette importanti di mercato e redditività.
Questa non è solo una questione commerciale, ma culturale e storica. Perché se è vero che l’Europa ha evitato l’imposizione di dazi più pesanti su settori strategici come l’aerospazio o i microchip, è altrettanto vero che i territori meridionali italiani sono stati, ancora una volta, considerati sacrificabili. Una logica tecnocratica che ragiona per cifre e filiere globali, dimenticando la dimensione territoriale, identitaria e sociale della produzione. In Calabria, dove oltre il 40% dell’export agroalimentare catanzarese è diretto agli Stati Uniti, la ferita è profonda. Centinaia di microimprese familiari rischiano il collasso. L’occupazione, già fragile, viene esposta a una tempesta che potrebbe portare via centinaia di posti di lavoro, riducendo ulteriormente la tenuta economica e sociale della regione.
E non si tratta di una novità. Anzi, è il risultato coerente di un disegno avviato oltre 160 anni fa. Dopo l’Unità d’Italia, il Sud non è stato integrato nel progetto nazionale: è stato disegnato come serbatoio di braccia. La Calabria, da regione produttiva, agricola, manifatturiera, è stata ridotta a manodopera a basso costo per l’industria del Nord. I calabresi, come ha dimostrato storicamente l’emigrazione di massa verso Torino, Milano, Genova, sono stati svuotati della loro terra e spinti verso un sistema che li considerava utili solo quando piegavano la schiena in fabbrica o nei cantieri. Un destino che ha travolto intere generazioni, con l’illusione di un “progresso” che, in realtà, li ha trasformati da produttori autonomi a dipendenti di un’economia centralizzata e diseguale.
Il pensiero va inevitabilmente a figure come Mattia Preti, maestro del barocco nato a Taverna, il cui spirito creativo e indipendente rappresentava il genio calabrese libero da vincoli esterni. O a Pasquale Galluppi, filosofo di Tropea, che già nel XIX secolo parlava di libertà interiore e autodeterminazione: valori completamente calpestati nella logica attuale. E ancora, a Corrado Alvaro, scrittore lucido che nei suoi testi mostrava l’anima dolente ma dignitosa di un Sud abbandonato e offeso, e che avrebbe riconosciuto in questo scenario l’ennesima ripetizione di un copione già visto.
E come nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, si ha la sensazione che tutto cambi per non cambiare nulla. Si firmano accordi, si alzano coppe diplomatiche, si usano parole nuove, ma le dinamiche di fondo restano immutate: chi decide sta altrove, chi paga è sempre lo stesso. E oggi tocca di nuovo alla Calabria, alla sua agricoltura eroica, ai suoi imprenditori che resistono, ai suoi giovani che ancora sperano di non dover partire.
La politica italiana ha il dovere morale e costituzionale di intervenire. Non basta invocare coesione territoriale o fondi strutturali. Serve un’azione forte, concreta e mirata: ottenere l’inserimento dei prodotti agroalimentari del Sud nella lista delle esenzioni, istituire fondi compensativi per le imprese colpite e difendere in Europa l’interesse nazionale in tutte le sue parti, non solo nelle aree industriali del Nord.
La Calabria non è un’appendice: è una radice. E se si spezza la radice, anche l’albero più alto prima o poi cade.