Editoriale di Antonio Giangrande
Due cose su amnistia, indulto e ipocrisia
Editoriale di Antonio Giangrande
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l’amnistia
e l’indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per
redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di
sociologia storica ed autore della Collana editoriale “L’Italia del Trucco,
l’Italia che Siamo” edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l’indulto né l’amnistia. A mostrarlo e
dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli
intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio
plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l’elettorato da sinistra a
destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a
essere contraria. Così come nell’elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia
di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di
“salvacondotto ” non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no.
Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su
4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l’adozione di atti che nel loro
interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa
dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti
possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle
loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda
per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure
capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti
terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di
Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista – Maurizio
Belpietro, nel caso – costituisce una sproporzione e una violazione della
libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento
altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti
parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla
diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche
molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che
resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto
Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a
dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente».
Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene
cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro
mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede
dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più
tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente
della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di
Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti
della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e
Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le
condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a
vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di
civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e
istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti –
aggiunge – ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in
carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come
una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira
fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della
Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l’Italia». Boldrini invoca
«quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione
disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera,
bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è
ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna
definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna
pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione
della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica
una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere
e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di
alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso
si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del
sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non
colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di
esercizio e pubblicità dell’azione penale anche nella sua fase
pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La
responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole
sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli
italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o
colpa grave. E’ palese l’esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal
dopo guerra ad oggi. E’ innegabile che il risarcimento per l’ingiusta
detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all’economia disastrata
dell’Italia. Nonostante l’idolatria è risaputo che i magistrati italiani non
vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di
previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano
i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall’imperatore, perché gli era
stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3
libbre d’oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto
lettere rogatorie, trascurasse l’arresto di un malfattore che si fosse
rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli
ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario
esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge
n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del
risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa
stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della
responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto,
della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia
subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da
parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in
giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il
giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a
sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in
prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di
stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza
assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così
raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i
magistrati. L’inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal
fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola
sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del
giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei
diritti dell’uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano.
L’esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al
fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema
del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del
principio consacrato dall’articolo 28 della Costituzione: tali norme
subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità
dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga
quindi alla “grande regola” della responsabilità aquiliana, secondo quanto è
riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell’articolo 28
Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La
peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo
ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo
2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale
“l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale
interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a
responsabilità del giudice”. Il rapporto tra questa peculiarità e la
denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del
giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per
la violazione di termini perentori per l’uso delle intercettazioni, custodia
cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante
questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due
procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per
l’ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l’autonomia del
giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione
giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica?
Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda
prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua
dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate
all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i
giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa
tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l’ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a
Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro
l’Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial
anti-camorra perché prima del match l’Italia avrebbe giocato su un campo
sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia
stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare
una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha
spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello
e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c’è la partita». Questo è
bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci,
pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché,
secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma
ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l’occhio ai
clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità.
Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista
che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco
don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a
essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui
social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro
della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile
diversificare il camorrista da chi non lo è. C’è chi sparla e c’è chi tace;
c’è chi spara e c’è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il
bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È
tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere
da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all’intelligenza di chi queste
frasi le dice.
C’è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro
espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto
qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica:
sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È
questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori
è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un’altra, devono aver
pensato i professionisti dell’anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i
giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno
avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva
risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e
gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare
al proprio posto. A ciascuno il suo e l’anticamorra non spetta al
centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo
giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l’ha solo svelata una
volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in
carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua
inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da
parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché “Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed
ignoranti. Se l’amnistia e l’indulto serve a ristabilire una sorta di
giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben
vengano”.
Dr Antonio Giangrande
Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia