Talerico: “Giustizia, informazione e coscienza critica: serve una nuova onestà del pensiero pubblico”

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di Antonello Talerico – Consigliere Regionale

Viviamo un’epoca in cui la narrazione della giustizia ha oltrepassato i confini dell’aula per diventare fenomeno mediatico, rito collettivo, oggetto di consumo. Un tempo era l’imputato ad essere sottoposto a giudizio. Oggi, non di rado, è la giustizia stessa – o meglio, la sua rappresentazione – ad essere sotto processo. E quando a farlo è una voce libera, intelligente, dissonante, come quella di Antonella Grippo, allora vale la pena fermarsi a riflettere.

Non servono eroi, ma nemmeno altari intoccabili.

Serve, piuttosto, il coraggio della domanda. E la Grippo, in un recente incontro a Corigliano Rossano, ha posto interrogativi al Procuratore Gratteri (rischiando il linciaggio da una piazza piena di grillini e dal giornalista Peter Gomez) che toccano nervi scoperti del nostro tempo: l’eccessiva spettacolarizzazione del potere giudiziario, la coazione a ripetere formule retoriche sulla legalità, l’equivoco di fondo tra “notizia” e “messaggio”, tra giurisdizione e comunicazione.

Non si tratta di minare la fiducia nelle istituzioni, ma di difenderle con rigore intellettuale.

La democrazia non si nutre di adorazione, ma di critica. E l’autorità che non accetta il dubbio non è più autorevole, è soltanto fragile.

Nel dibattito di Corigliano-Rossano con esponenti della magistratura e dell’informazione, si è alzato un velo. Un velo su ciò che spesso non si vuole dire: che anche i magistrati possono sbagliare, che le inchieste non sono dogmi, che la stampa non è neutrale solo perché si proclama tale.

È emersa una verità elementare ma potente: non è sufficiente la legittimità formale per legittimare il potere morale. E, soprattutto, che le assoluzioni non possono essere liquidate come incidenti di percorso, se nel frattempo sono state devastate reputazioni, compromesse carriere, umiliate vite.

In Calabria conosciamo bene il peso delle inchieste, ma anche la solitudine degli innocenti.

Quando processi interi si svuotano in aula e ciò che resta è solo il clamore mediatico, il cittadino si interroga non sulla colpevolezza, ma sulla macchina. Su chi la guida, su come la dirige, su quanto sia permeabile al consenso o alla ribalta.

Non possiamo più ignorare la delicatezza di certi ruoli.

Un magistrato non è un conduttore televisivo. Un giornalista non è un apostolo. Un politico non è un manager della visibilità.

La confusione dei ruoli è forse il sintomo più grave del tempo che viviamo.

Oggi più che mai serve una nuova onestà del pensiero pubblico, capace di distinguere tra il potere che giudica e quello che rappresenta, tra la libertà d’informazione e la militanza editoriale, tra il servizio alla giustizia e la narrazione giudiziaria.

Difendere il diritto di porre domande scomode è un atto democratico, non un attacco alle istituzioni.

Ed è un dovere – prima che politico – morale: verso i cittadini, verso lo Stato, verso quella verità che non sempre ha la forza delle prime pagine, ma che alla lunga è l’unica che resta.

In tempi di conformismo, serve più che mai il valore dell’eresia civile, quella che non cerca scontro ma cerca verità, quella che non si inginocchia davanti al consenso ma si alza in piedi davanti alla complessità.

Perché la giustizia, se vuole essere credibile, deve accettare il rischio della trasparenza.

E l’informazione, se vuole essere libera, deve accettare il peso del dubbio.