Editoriale di Bartolo Ciccardini
Matteo Renzi ed il pugnale dei dorotei
Editoriale di Bartolo Ciccardini
Tutti quelli che si sono occupati con animo contrito delle defenestrazione
di Enrico Letta, immemori della valanga di accuse che fino al giorno prima
gli avevano dedicato, hanno ricordato il costume della Democrazia Cristiana
di tenere per poco tempo i suoi uomini migliori alla Presidenza del
Consiglio. Io stesso, quando pensavo che Casini avrebbe fatto bene
all’Italia, se avesse interrotto il dominio berlusconiano, ho scritto di
lui: “Dove hai nascosto, onorevole Casini, il pugnale dei dorotei?”.
Credo necessario mettere in ordine la verità storica su questo costume
repubblicano della DC che aveva molto in comune con la brevità delle cariche
della Repubblica romana, quando era governata, per non più di un anno, da
due consoli, in una con il Senato. O molto in comune con la regola dei
ricchi mercanti della Repubblica di Venezia per la quale nessuno poteva
sopravanzare gli altri e il Doge non aveva alcun potere.
Quando l’Italia fu liberata e la democrazia ricostituita, il dominio della
generazione dei “popolari” era indiscusso. De Gasperi era stato l’ultimo
segretario del Partito Popolare; Spataro che lo aveva sostenuto e protetto
era autorevolissimo, come il dimenticato Coccia, che era stato il suo
avvocato; e poi Scelba, segretario di Sturzo; Iacini, il primo a scrivere
sulla storia del PPI; Iervolino, che aveva rappresentato la DC quando il
governo di Badoglio si muoveva da Brindisi a Salerno. Alessi che combatteva
la sua battaglia contro il separatismo siciliano, con il suo ideale di
autonomia, Scelba che era stato il segretario di Sturzo. Piccioni che era
stato pilota con Baracca, Gronchi che era stato incolpevole Sottosegretario
con il primo Mussolini.
Quando fu liberata Milano una nuova generazione venne alla ribalta con il
vento del nord. La DC ne prese atto ed integrò il Consiglio Nazionale con
due nomi: uno in rappresentanza del sud, Andreotti; uno in rappresenta del
nord, Dossetti. Ambedue avanguardia della seconda generazione. Non potevano
essere più diversi tra di loro, come di fatto erano e rimasero, uno a
rappresentare il mondo cattolico prudente e potente e l’altro, quello
volenteroso e sognante.
La seconda generazione era fatta da uomini tosti, che venivano dalla
Resistenza. Taviani aveva raccolto la resa delle truppe tedesche quando
Genova fu liberata dai partigiani. Zaccagnini era stato capo partigiano,
come Enrico Mattei, come Gui, come Ferrari Aggradi. Lazzati tornava dai
campi di concentramento e Fanfani dall’internamento in Svizzera. Durante la
Costituente mentre De Gasperi si occupava della difficile navigazione di un
governo di larghissime intese e di profonde contraddizioni, la seconda
generazione si faceva le ossa nella commissione dei 75, che doveva fare la
Costituzione.
Ma dopo la scelta del ’48 che dava alla DC non solo la maggioranza assoluta,
ma il difficile compito di gestire una democrazia assediata, si pose subito
il confronto fra le generazione dei popolari e la generazione uscita dalla
Resistenza, gli uni più preoccupati del mantenimento dell’ordine
democratico, gli altri più portati a considerare necessario l’abbattimento
dello Stato, che era stato già fascista e già liberale, attraverso un
profondo rinnovamento democratico.
Lo scontro fu fra Dossetti e De Gasperi al Congresso di Venezia del 49, con
un Rumor chiamato a fare una relazione sulla politica sociale, da
contrapporre a Dossetti ed un Taviani chiamato alle prime responsabilità di
partito per contrastare Dossetti.
La manovra non riuscì ai “popolari”, che invece provocarono, con il loro
atteggiamento, il consolidarsi della unità generazionale. Fu Dossetti nel
momento di lasciare la politica ad affidare a Rumor il progetto di riunire
quella generazione, con il compito saggio di trattare con De Gasperi ed il
compito più ardito dare la leadership a Fanfani.
Al Congresso di Napoli del ’54, dopo la sconfitta (relativa) del ’53, la
generazione della Resistenza prese in mano il partito, affidandone la
Presidenza a De Gasperi e la Segreteria a Fanfani. De Gasperi ottenne che
del vecchio gruppo dirigente fosse salvato solo Andreotti.
Ma non fu una strage. Mentre Fanfani creava il partito moderno, che
somigliava al Partito Comunista, con le tessere, con le sezioni, con i
gruppi specializzati e coni “collaterali”, al governo andavano i notabili
popolari che avevano la loro forza nel gruppo parlamentare. I Presidenti del
Consiglio furono Pella, Scelba, Segni, Zoli. Tutti “popolari” e tutti
precari, assunti per breve tempo a seconda delle necessità del momento.
Non c’era più la maggioranza assoluta della DC ed il governo cominciò ad
avere maggioranze variabili, caratteristica che durerà fino alla fine del
secolo.
Anche il “popolare” Gronchi, praticamente scomparso nel Congresso di Napoli
che cambiò la classe dirigente della DC, fu eletto Presidente della
Repubblica da una coalizione antifanfaniana.
Fanfani vince le elezioni del ’58 ed ha un Partito con dirigenti giovani e
con un gruppo parlamentare che è in gran parte formato dalla generazione
della Resistenza e tenta di ricostituire la leadership degasperiana.
Assume la Presidenza del Consiglio e l’incarico di Ministro degli Esteri.
Per di più mantiene la carica di Segretario del Partito. La sua linea
politica prevede l’apertura ai socialisti. Il partito nuovo che egli ha
creato è ormai in mano alla terza generazione, i giovani segretari
provinciali venuti dal movimento giovanile.
È a questo punto che nasce l’anima doroteo-repubblicana della Democrazia
Cristiana.
Fanfani è attivo, è un intelligente pianificatore, è un decisionista ed ha
persino un caratteraccio. La sua politica di centro-sinistra trova forti
opposizioni nel mondo cattolico. Il gruppo generazionale che ha conquistato
il Partito è molto solidale e compatto, ma lo ha solo adottato come leader e
rifiuta una direzione monarchica della DC, rimproverandogli il cumulo delle
cariche.
Nasce così una regola non scritta, ma decisiva e repubblicana che i consoli
sono due, uno fa il Presidente del Consiglio e l’altro fa il Segretario del
Partito.
L’autore di questo reggimento è Aldo Moro, uomo di alte qualità
intellettuali, molto riservato, molto ascoltato. Era sempre presente senza
partecipare. L’ho conosciuto alla redazione di “Cronache Sociali”: non
parlava mai, alla fine Dossetti gli dava la parola, Moro rispondeva con
calma e con grandi pause, e poi si faceva quello che diceva lui.
Tenne un affettuoso distacco con Iniziativa democratica, non parlava mai
male di Fanfani, ma neppure lo nominava. Era naturale che il gruppo della
seconda generazione scegliesse lui come l’uomo di transizione, come aveva
profetizzato Zolla, che già fin da allora era il fedele collaboratore di
Scalfaro.
La spaccatura nel Partito fu grave e drammatica. Alla Domus Mariae, alcuni
personaggi piangevano quando votavano contro Fanfani. La corrente di
sinistra, la Base, che pure era nata contro Fanfani, si schierò con lui e
non poteva non farlo, a causa della sua linea politica. E con lui si schierò
la sinistra sociale delle Acli e della CISL, guidata da Pastore, che allora
aveva un grande peso nella DC.
Al Congresso di Firenze del ’59, i dorotei (che si chiamavano così perchè si
riunivano nel Convento di Santa Dorotea, come i giacobini che si riunivano
nel Convento di San Giacomo) avevano la maggioranza del Congresso, ma alla
conta dei voti Aimme, l’autista di Rumor, che bazzicava i delegati
conosciuti durante le infinite peregrinazioni del vicesegretario in
periferia, si accorse che non c’era la maggioranza. Nella notte Franco
Salvi, della squadra di Moro, ricontò i voti con Rumor e Colombo, e
scoprirono che avevano perso. Andarono a svegliare Segni, il quale in
vestaglia andò a svegliare Andreotti e gli chiese di non votare per la sua
lista, ma di votare per Moro. E Moro andò a svegliare Scelba. Andreotti e
Scelba si sacrificarono. E Moro vinse.
Nel lungo periodo della transizione andò alla Presidenza del Consiglio Segni
che divenne il capo riconosciuto dei dorotei e per una improvvida iniziativa
di Gronchi, si pensò ad un esperimento di sinistra di Ferdinando Tambroni,
esperimento che drammaticamente prese una strana colorazione di destra.
Furono Pastore e Sullo, uomini delle minoranze di sinistra, a far cadere
Tambroni.
Ma ecco dove era la grande qualità della Democrazia Cristiana: Moro che
aveva vinto con i voti della destra che si opponeva al centro-sinistra fece
un governo che preparava il centro-sinistra. E a chi lo fecero fare quel
Governo? A Fanfani. Questo era il costume repubblicano della DC!
Le elezioni sarebbero state molto difficili. Si prevedeva che la DC avrebbe
perso tutti i voti di destra. L’equilibrio fra Moro segretario del partito e
Fanfani Presidente del Consiglio era delicatissimo. Io avevo lavorato alla
propaganda di Fanfani del 1958 (Progresso senza avventure che ricordava il
“Keine Adventure” di Adenauer), nel’63 feci preparare un bozzetto con le
facce di Moro e Fanfani dipinte in stile cinematografico. Quando Franco
Salvi ed io lo portammo a Moro, Moro lo guardò inorridito e disse: “Questo
poi, mai!”. La DC non perse le elezioni e si fece il centro-sinistra.
Il periodo del centro-sinistra fu importantissimo nella storia italiana, per
il suo significato di allargamento dell’area democratica e per le sue
realizzazioni.
Ma non ebbe vita tranquilla. Perché fu combattutissimo dal Partito
Comunista, ed odiatissimo dalla destra italiana che per merito della Dc non
aveva una sufficiente rappresentanza nel Parlamento. Durante quel periodo
fallì una riunificazione socialista, cominciarono i primi attentati, iniziò
un grande e confuso sommovimento giovanile che avrebbe portato agli anni di
piombo, ci fu il referendum del divorzio, e grandi agitazioni sociali dovute
alla rapida industrializzazione degli anni ’60.
In questo periodo nasce la DC delle correnti. Fu certamente Moro a pensarla
per utilizzare al meglio la sue vere qualità politica, che erano quelle del
presentimento e della mediazione. Mentre Rumor aveva sempre avuto, dai primi
incontri con De Gasperi alla fine del suo ultimo governo, una unica e
determinata linea, quella del centro-sinistra, Moro seguiva un altro metodo,
che lui chiamava “dell’attenzione”: pensava al centro-sinistra ma voleva
arrivarci con tutta la destra moderata della DC. E quando realizzava il
governo di centro-sinistra aveva già in mente che esso non potesse servire
ad isolare il PCI ma piuttosto a risvegliarlo alle sue responsabilità. Per
fare questo Moro non voleva essere a capo di una grande corrente di
maggioranza. Anzi fu proprio lui a spezzare l’unità dei dorotei per
costituire una piccola corrente che fosse, più che l’ago della bilancia,
l’asse di equilibrio che utilizzava, mediava e componeva le spinte delle
altre correnti.
Era una concezione che ricorda il volo del gabbiano o la tecnica
aeronautica, che muove questo o quello degli alettoni per dirigere
l’aeroplano nella direzione voluta.
In questo disegno il sacrificio dei Presidenti del Consiglio era ripetuto e
continuo, ma amichevole e solidale. Si realizzò un centro sinistra, già
preparato da Fanfani, dopo un governo Leone, durato una sola estate per
studiare la temperatura. Dopo di lui Moro fa finalmente il Presidente del
Consiglio e cede la Segreteria a Rumor. Rumor sarebbe stato già da anni il
Segretario del partito se Fanfani non avesse commesso l’errore di tenere le
due cariche di Presidente del Consiglio e di Segretario. Quando Rumor si era
astenuto nel voto contro Fanfani, essendogli stato l’uomo più vicino, si
era esiliato al Governo per non apparire come Bruto che aveva pugnalato
Cesare. Ma ora diventava necessario al Partito per la sua vellutata, ma
precisa, scelta di centro-sinistra.
Moro durò un tempo straordinario come Presidente del Consiglio, addirittura
dal dicembre del ’63 al giugno del ’68, ma con ben tre rimpasti. Poi inizia
la grande crisi del ’68. Torna Leone, con la sua autoambulanza, Rumor fa il
Governo più difficile di quegli anni per la scissione dei socialisti, per le
esplosioni della contestazione. Ci fu una scissione del Partito Comunista,
impensabile prima di allora: quella de “il Manifesto”, ed una scissione
della Democrazia Cristiana con Labor, impensabile prima di allora. Si
annunciavano i tempestosi anni ’70.
Il sistema di compensazione tra nomine e correnti risultò utile, ma non
evitò la tragedia.
Rumor tenne la Presidenza del Consiglio per poco più di due anni con ben tre
Governi. Nel frattempo non aveva commesso l’errore di tenere la segreteria
del Partito e l’aveva affidata a Piccoli. Una riunione a San Ginesio degli
uomini della terza generazione facilitò l’ascesa di Arnaldo Forlani alla
Segreteria. Forlani era l’espressione di esigenze nuove, ma era anche
sostenitore di Rumor. Rumor fu il bersaglio del primo attentato della lunga
serie degli anni ’70. Quando la sua energia si esaurì per le difficoltà di
quel momento e per la freddezza di Moro che già pensava alla necessità di
coinvolgere i comunisti, fu scelto Colombo, come il naturale successore di
Rumor.
In quel momento il ciclone del divorzio investì la Democrazia Cristiana e
tutti sentirono il bisogno di una guida più ferma di quella di Forlani al
Partito e di Colombo alla Presidenza del Consiglio. Il ” Senato doroteo” si
riunì a Palazzo Giustiniani e dall’accordo che prese appunto il nome di
“Accordo di Palazzo Giustiniani” fu decisa una nuove segreteria di Fanfani
con il compito di rinserrare le file e di pagare, con il referendum del
divorzio, il nostro debito contratto con il mondo cattolico. (Montanelli
scrisse su Fanfani il famoso articolo: “Rieccolo!”).
Questo mare tempestoso costringe la nave della DC a navigare di bolina
cambiando spesso di bordo. Dopo Colombo che deve superare la prima crisi
economica che sopravviene dopo il decennio favoloso degli anni ’60, viene
Andreotti con un governo appoggiato a destra per la indisponibilità dei
socialisti. Poi ancora Rumor che inciampa di nuovo sul problema del divorzio
dal quale Moro si era saggiamente defilato, per essere di riserva nel
governo successivo.
La funzione di traghettatore di Fanfani è finita e la sua segreteria viene
investita da temi nuovi: Moro punta a ricucire con la sinistra e lo stesso
Partito Comunista si rende conto che non può seguire la sinistra
movimentista ormai sfociata nel terrorismo. Si crea di fatto una intesa fra
i due grandi partiti contrapposti, chiamata impropriamente “compromesso
storico”, ispirata da Moro.
L’assestamento all’interno della DC è difficile e questa volta l’equilibrio
ed il metodo repubblicano-senatoriale vacilla. Viene sacrificato Fanfani e
Moro pensa a Rumor come la persona adatta a guidare il partito nella
perigliosa strada dell’intesa con i comunisti.
Anche qui spunta come elemento di disturbo la terza generazione. Bisaglia,
erede della corrente di Rumor, pone il suo veto contro Rumor, veto che sarà
fatale sia a Rumor rimasto solo, sia a Bisaglia che non gli potrà succedere,
sia allo stesso Moro, che non fu difeso come Rumor lo avrebbe invece difeso.
E per la prima volta in maniera incontrollata si sceglie un uomo non
previsto, ma che si rivelerà importantissimo: Zaccagnini.
Andreotti che nella DC aveva una posizione di destra e di garanzia del mondo
cattolico più conservatore, si assume il compito di fare il Governo
sostenuto dall’astensione dei comunisti. Si va ad un Congresso tempestoso,
dove vince la mozione che propone l’elezione diretta del Segretario del
partito. Lo scontro è finalmente frontale e fatto in una grande assemblea e
non negli accordi fra i “senatori”. La scelta è fra Forlani e Zaccagnini.
Zaccagnini vince, la linea Moro si afferma, il governo Andreotti comincia a
navigare, la DC di Zaccagnini scende in piazza con le Feste dell’Amicizia.
Nel settembre del ’77 i treni che portavano l’anima popolare della DC alla
prima festa dell’Amicizia di Palmanova si incrociavano con i treni degli
extra-parlamentari che andavano a Bologna a scontrarsi con la solidissima
fortezza del partito Comunista. Sull’orlo della guerra civile.
L’anno dopo Moro viene ucciso dalle Brigate Rosse. Dopo la morte di Moro si
conferma per una necessità storica il secondo Governo Andreotti (IV). Si
dimette Leone, che non aveva trovato la giusta misura per gestire la sorte
di Moro. Pertini viene eletto Presidente della Repubblica: nel suo discorso
dirà: “Un altro avrebbe dovuto essere qui al mio posto”, alludendo a Moro.
L’equilibrio senatoriale della grande DC finisce con la morte di Moro. I
governi che vengono dopo appartengono già alla terza generazione, quella che
gestirà il grande tramonto.
Per favore, non paragonate mai più qualsiasi cosa dell’attuale politica con
il grande metodo repubblicano dei dorotei. Compreso il loro gentile pugnale.