Letta dice di volere più crescita. E il pareggio di bilancio?

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Editoriale di Luigi Pandolfi

Letta dice di volere più crescita. E il pareggio di bilancio?

Editoriale di Luigi Pandolfi

 

Meno austerità, più crescita. È quello che sentiamo ripetere incessantemente dal giorno dell’insediamento del governo Letta. Ora la domanda: stiamo parlando di una cosa seria o di spicciola retorica? La risposta è nei fatti, basta andarci a guardare dentro.
Immediatamente dopo il voto di fiducia il neopremier, anziché iniziare a ragionare con la sua squadra di governo sulle misure da adottare per dare respiro al paese, è corso presso le principali cancellerie europee, poi anche a Bruxelles, per spiegare innanzitutto che l’Italia avrebbe mantenuto tutti gli impegni assunti con la Ue. Solo dopo aver fatto questa premessa si è spinto a chiedere una maggiore apertura dell’Europa sul tema della crescita.
Andiamo a vedere allora quali sono questi impegni che il paese ha sottoscritto e se gli stessi sono compatibili con una strategia di crescita dell’economia.
Al primo posto troviamo quello sul cosiddetto pareggio di bilancio, che trova riscontro solenne perfino nella Costituzione. Di che si tratta? Del fatto che le entrate fiscali devono coprire integralmente la spesa pubblica, dunque che non è ammesso più spendere in deficit. L’Italia si è impegnata a conseguire l’obiettivo del pareggio strutturale del proprio bilancio entro il 2013, anticipando addirittura la scadenza di un anno.
Insieme a questo obiettivo, in maniera correlata, c’è poi l’obbligo di abbattere il debito pubblico per portarlo al di sotto del 60% del Pil (ora siamo al 127%), con riduzioni di un ventesimo ogni anno della sua eccedenza. Facendo due rapidissimi conti, ciò significherà, a partire da quest’anno, tagli alla spesa per circa 50 miliardi, di anno in anno per i prossimi vent’anni.
Torniamo a Letta. Di fronte a Barroso il nostro presidente del Consiglio ha chiarito che l’Italia non solo non defletterà dagli impegni presi, ma che non chiederà alcun rinvio per quanto riguarda il raggiungimento del pareggio nel 2013. Non solo. Per rassicurare la Cancelliera tedesca che gli ammoniva di “avere cura” dei conti dello Stato, Letta ha tranquillamente dichiarato che il suo governo non assumerà alcuna iniziativa per la crescita che comporti un aumento del debito.
Dunque? La questione è chiara: l’austerità rimane la bussola del governo italiano e le dichiarazioni del premier su un allentamento dell’austerity sono solo fuffa. Ciò anche in considerazione del fatto che alcuni strappi alla regola, come la possibilità di cui tanto si parla di scomputare dal calcolo del deficit le spese per investimenti produttivi, potrebbero rendersi possibili solo dopo lunghi negoziati con gli altri partner europei, come è stato stabilito nell’ultimo Consiglio europeo del 14 e 15 marzo scorsi.
Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, basta che si vada a leggere le ultime dichiarazioni del ministro Saccomanni, uomo-garanzia degli accordi che il paese ha sottoscritto con la Ue. L’ex Direttore generale di Bankitalia è stato chiarissimo sul fatto che il deficit sotto il 3% costituirà un “limite invalicabile” sia per l’anno in corso che per quelli successivi.
La verità è che non si può parlare di crescita, di sostegno all’occupazione, di misure per lo sviluppo, senza ridiscutere gli architravi dell’attuale costruzione europea, ossessivamente ripiegata sul rigore dei conti pubblici a scapito delle politiche per gli investimenti ed il benessere sociale.
Sono passati vent’anni dal trattato di Maastricht e il mondo è cambiato. Fa davvero specie la cocciutaggine con cui un manipolo di burocrati, coadiuvati da una classe politica senza slanci e grandi visioni del futuro, continui a difendere parametri e norme di compatibilità assolutamente opinabili come se si trattasse delle Tavole della Legge.
Almeno ci risparmiassero l’ipocrisia di criticarne gli effetti, rivendicandone al tempo stesso le imperiture ragioni, in perfetto bipensiero di orwelliana memoria.