di Giuseppe Romeo
In certi momenti di crisi, di situazioni che sembrano sfuggire all’animo umano, dove la comprensione sembra fare a meno di ogni categoria di analisi possibile e disponibile a conoscenze date, si potrebbe ricorrere alla cartomanzia, a una sorta di esercizio predittivo nel tentativo di scoprire cosa ci riserverà il futuro magari soffiando sulla polvere che copre le centurie e le quartine di Nostradamus.
Oppure, se volessimo essere più esotericamente o politicamente ispirati, sperare che in ambito Nato o Ue o nell’altrove del mondo che conta ci sia un altro scaltro Rasputin che abbia almeno la forza, o ciò che resta, di spaventare i propri piccoli leader nella speranza che il regno del nulla, o l’impero del Male si nasconda nella mistificazione di quello del Bene.
Oppure, dotandoci di una visione realistica e andando alla ricerca nella storia di esempi e di personalità di cui oggi il mondo ne soffre la scomparsa, potremmo citare il dialogo tra John Fitzgerald Kennedy e il suo segretario Robert McNamara. Ciò portò McNamara nell’ottobre 1962, a rispondere ai dubbi del presidente Kennedy se, come e in che modo poter condurre un attacco all’allora Unione Sovietica una volta distrutte le installazioni missilistiche a Cuba con queste parole: Mr. Presidente, we need to do two things, it seems to me. Firts, we need to develop a specific strike plan. The second thing we have to do is to consider the consequences. I don’t know quite what kind of a world we’ll live in after we’ve struck Cuba. How do we stop at that point? I don’t know the answer do this!
Per McNamara, al di là del piano preciso attraverso il quale condurre un’operazione di strike, e al netto di un possibile successo nel distruggere la capacità nucleare dell’avversario, si doveva anche tener conto delle conseguenze nel caso in cui si fosse presentata anche una minima residuale possibilità di second strike; ovvero, di risposta da parte di Mosca. E, questo, perché, avvertiva McNamara (signor Presidente) “Non so esattamente in che mondo vivremo dopo che avremo colpito Cuba. Come ci fermeremo a quel punto? Non conosco la risposta. Una risposta che dipingeva un quadro molto preciso dei rischi che una politica senza una dote di realismo avrebbe decisamente fatto sprofondare il mondo intero in un’apocalisse nucleare.
Guardando all’oggi, all’incapacità di gestire con una certa competenza e umiltà crisi dettate da egoismi mai risolti e da pretese di potenza sottese da illusioni egemoniche, il rischio di superare quel limite del non ritorno dovuto al gioco al rialzo in strategie senza vie d’uscita una volta messe in campo, sembra affascinare uomini di potere che del potere non hanno dignità né ad assumerlo e meno che mai ad esercitarlo.Vivendo in una congiunzione astrale unica nel suo genere per decadimento delle capacità umane di guardare al passato e ai suoi drammi e costruire un futuro di pace, sembra che un certo nanismo politico si sia trasformato in gigantismo geopolitico magari pensando che i sistemi di lancio siano trampoli grazie ai quali dimostrare una superiore capacità di distruggere avversari e sopravvivere dall’alto di colline che offriranno un panorama da deserto nucleare. E poco importa se generalizzato o limitato tatticamente a spazi ben precisi.
Come ieri, per studenti della storia eternamente ripetenti, sembra che il fascino di sentirsi a pieno titolo o anche solo comparse quali uomini di potenza sembra spingere l’Occidente e non solo verso una sorta di resa dei conti di portata biblica per assumere i contorni di una storia che potrebbe esser raccontata tornando a scriverla con penna e calamaio per chi sopravviverà all’impatto distruttivo della stupidità umana.
Affidare i destini dell’umanità in una diplomazia di bassa qualità, rinunciare a ridefinire posizioni su una base equipartecipativa e il non farsi guidare dal realismo delle condizioni dei campi di battaglia per riorganizzare un ordine nuovo, che restituisca significato al termine comunità internazionale, rappresentano i limiti e le conseguenze di un abbassamento della qualità del confronto e della preparazione delle leadership e di chi ne sostiene, assecondandole, il pensiero e le scelte.
Credere che il mondo sia solo l’Ucraina piegata ai desiderata di una potenza in declino, gli Stati Uniti, o di Israele con le sue pretese di popolo eletto, e per questo dotato del diritto di riconoscere a proprio piacimento norme internazionali o di umana pietà non ha evitato che altre realtà si dotassero di una propria visione della comunità internazionale permettendo, proprio con tale atteggiamento di presunzione geopolitica, l’ascesa dei regimi che oggi l’Occidente vorrebbe combattere. Regimi, questi, nemesi senza appello della supponenza di un Occidente sopravvissuto come tale solo in ragione, perché funzionale, a logiche di basso impero dettate dall’agenda anglo-americana a cui l’Unione Europea, vero fantasma del momento e ostaggio di mai sopite vendette storiche a Est, si è pedissequamente piegata.
In questo modo, tra prove false già viste e create per legittimare violenza su violenza tanto e se non più di quanto messo in campo dagli avversari, tra minacce di escalation e di entrata in conflitto dal dovunque possibile, Pakistan compreso, l’ordine del caos funzionale al divide et impera a stelle e strisce del passato rischia di presentare il conto agli Stati Uniti e al modello occidentale a livello globale e a Israele nella propria regione.
Dall’Ucraina al Medio Oriente, l’ordine del caos diventa, quindi, non un paradosso ma la ragione della scelta di vedere chi prevarrà. Se il sentimento di rivincita della Russia, la volontà degli Stati Uniti di non pagare il prezzo del proprio declino, la supponenza di Israele di essere colui che detta le regole del gioco costasse, questo, anche il sacrificio di quella umanità di non eletti cui tutto il resto del mondo appartiene.
Raccomandava Epitteto che non si dovrebbero mai combattere battaglie che non si possono vincere. Mentre per Sun Tzu se la miglior guerra è quella che non sarà combattuta era, ed è, altrettanto vero che non si possono combattere battaglie, e quindi guerre, se non si sa per che cosa si combatte. Ovvero, se non è chiaro l’obiettivo e le condizioni successive che si determineranno al termine di un conflitto.
Perché, come ricordava Clausewitz, la guerra, nelle sue diverse forme, nelle sue multiformi modalità di condotta, nella sua diversa interpretazione dell’essere la più camaleontica espressione della vicenda umana resta e resterà sempre il regno della complessità e dell’imprevedibilità.
Passaggi, questi, che dovrebbero far ragionare chi, in fondo, al di là dei giochi cosmetici delle operazioni militari da divano o da scrivania, o nel vivere la realtà di un war game che crea morte e distruzione sono in fremente attesa di diventare eroi sul campo di un’era il cui post-eroismo sarà caratterizzato dalla fine di ogni velleità di potenza. Che dovrebbero lasciare insonni coloro che credono di poter sopravvivere se non a un possibile inverno nucleare, comunque a una nuova distribuzione di violenza il cui alone di sofferenza abbraccerà tutte quelle società illuse da un facile velleitarismo per il quale può esistere una vittoria definitiva.