I magistrati e la sindrome della menzogna

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Editoriale di Antonio Giangrande

I magistrati e la sindrome della menzogna

Editoriale di Antonio Giangrande

 

 

Quando il Potere giudiziario si nutre di pregiudizi e genera ingiustizia.
Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul
tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.

Parliamo di menzogne nelle aule di giustizia. I magistrati di Taranto del
processo sul delitto di Sarah Scazzi, requirenti con a capo il Pubblico
Ministero Pietro Argentino e giudicanti con a capo Rina Trunfio, hanno
fondato le richieste e le condanne sull’assunto che il delitto di Avetrana è
una storia di bugie, pettegolezzi, chiacchiere, depistaggi. Menzogne e
reticenze dei protagonisti e dei testimoni e se non questo non bastasse
anche di tutta Avetrana.

Ed ecco il paradosso che non ti aspetti. È proprio l’alto magistrato
pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la
giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi
dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al
pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del
procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di
altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine.
La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la
condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio,
condannato per concussione e corruzione semplice.

Eppure Pietro Argentino è anche il numero due della procura di Taranto. È il
procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta
di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Ciò nonostante a me tocca difendere proprio i magistrati Tarantini che di me
hanno fatto carne da macello, facendomi passare senza successo autore della
loro stessa infamia, ossia di essere mitomane, bugiardo e calunniatore.

Come dire: son tutti bugiardi chi sta oltre lo scranno del giudizio. Ma è
proprio così?

Silenzio in aula, prego. Articolo 497 comma 2 del Codice Penale, il
testimone legga ad alta voce: «Consapevole della responsabilità morale e
giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la
verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza». Il microfono
fischia, la voce si impaccia, qualcuno tentenna sul significato della parola
«consapevole». Poi iniziano a piovere menzogne. Il giudice di Aosta Eugenio
Gramola – sì, quello del caso Cogne – ha lanciato l’allarme a Niccolò Canzan
sul suo articolo su “La Stampa” : «Ci prendono per imbecilli. È incredibile
come mentano con facilità davanti al giudice. Sfrontati, fantasiosi. Senza
la minima cura per la plausibilità del racconto. Orari impossibili,
contraddizioni lampanti, pasticci. L’incidenza dei falsi testimoni è molto
superiore a una media fisiologica, si attesta tra il 70 e l’80 per cento».
Sette su dieci mentono, in Valle d’Aosta. Sembra uno di quei casi in cui la
geografia potrebbe significare qualcosa. L’Italia un Paese di bugiardi,
quasi una tara nel codice genetico: «Chi mente al giudice è furbo – dice
Gramola -. Essere bugiardo fa ridere, piace, non comporta disvalore sociale.
Mentre indicare la menzogna come un grave atto contro la Giustizia è da
biechi moralisti e puritani». Totò e Peppino erano all’avanguardia, è
risaputo. «Caffè, panini, false testimonianze!», urlavano nel 1959 nel film
«La Cambiale». Dall’alto della civilissima Valle d’Aosta, al cospetto di
storie magari più piccole eppure significative, il giudice Gramola ha un
guizzo d’orgoglio: «Certe volte, più che a testimoni ci troviamo di fronte
ad amici delle parti in conflitto. E questi bugiardi sono poi magari gli
stessi che si scagliano contro una giustizia che non funziona».

D’altro canto la procura di Milano ha rinviato a giudizio tutti i testimoni
della difesa nel cosiddetto “processo Rubi”, che sono 42, più i due avvocati
della difesa: in tutto 44. Ora, pensare che 42 testimoni fra i quali
deputati, senatori, giornalisti, funzionari di polizia abbiano, tutti,
giurato il falso, è una cosa a dir poco stravagante, scrive Luigi Barozzi.
Il capo d’accusa non è ancora definito, ma andrà probabilmente dalla falsa
testimonianza alla corruzione in atti giudiziari. In soprannumero, anche i
legali verranno rinviati a giudizio, e al normale cittadino sorgono alcuni
dubbi.

– E’ mai possibile che 42 persone, di varia provenienza sociale e
professionale, siano tutti bugiardi-spergiuri o peggio?

– E’ mai possibile che lo siano pure i legali della difesa i quali, in un
società civile, incarnano un principio quasi sacro: il diritto
dell’imputato, anche se si tratta della persona peggiore del mondo, di
essere difeso in giudizio?

– Non sarà, per caso, che la sentenza fosse già scritta e che il disturbo
arrecato dai testi della difesa alla suddetta sentenza abbia irritato la
Procura di Milano tanto da farle perdere la trebisonda?

Trattando il tema della menzogna ci si imbatte frequentemente in definizioni
che fanno uso di molti sinonimi quali inganno, errore, finzione, burla,
ecc…, le quali, anziché restringere i confini semantici del concetto di
menzogna, tendono ad allargarli creando spesso confusione, scrive Il valore
positivo della bugia – Dott.ssa Maria Concetta Cirrincione – psicologa. Un
primo tentativo per circoscrivere tale area semantica consiste nel definire
la differenza tra menzogna e inganno. La menzogna e il suo sinonimo bugia,
usato prevalentemente in relazione all’infanzia, và considerata una modalità
tra le altre di ingannare, perciò possiamo definirla come una sorta di
“sottoclasse ” dell’inganno. La sua caratteristica distintiva consiste nel
fatto di essere essenzialmente un atto comunicativo di tipo linguistico,
ossia la rivelazione di un contenuto falso attraverso la comunicazione
verbale o scritta. Questo impone la presenza di almeno un comunicatore, di
un ricevente e di un messaggio verbale che non corrisponde a verità.
L’inganno si esplica invece, non solo attraverso l’atto comunicativo della
menzogna, ma anche attraverso comportamenti tesi ad incidere sulle
conoscenze, motivazioni, aspettative dell’interlocutore. (De Cataldo
Neuburgher L. , Gullotta G., 1996). Secondo questa prospettiva, l’omissione
di informazioni non è tanto una menzogna, quanto un inganno. La
comunicazione è una condizione sufficiente ma non necessaria perché si possa
ingannare. A volte si inganna facendo in modo che:

– l’altro sappia qualcosa di non vero (es: A va sul tetto e fa cadere acqua
dalla grondaia, B vede l’acqua e viene ad assumere che piove);

– l’altro creda qualcosa di non vero (es: B guardando l’acqua fuori dalla
finestra, commenta: “piove”, e A non lo smentisce);

– l’altro non venga a conoscenza della verità (A chiude l’altra finestra
dalla quale non si vede l’acqua cadere, in modo che B continui a credere il
falso);

L’inganno, quindi, si esplica attraverso qualsiasi canale verbale e non
verbale (mimica facciale, gestualità, tono di voce), mentre la menzogna
utilizza specificatamente il canale verbale. Mentire è un comportamento
diffuso, tipicamente umano, non è tipico dell’adolescenza, né
necessariamente un indice di psicopatologia; di solito viene valutato
infatti da un punto di vista etico più che psicopatologico. Non appena i
bambini sono in grado di utilizzare il linguaggio con sufficiente competenza
sperimentano la possibilità di affermare a parole una verità del desiderio e
del sentimento diversa da quella oggettiva.

E’ noto che i bambini non hanno la stessa proprietà di linguaggio degli
adulti, per cui spesso gli adulti chiamano bugia ciò che per il bambino è
espressione di paure, di bisogno di rassicurazione o di percezione inesatta
della realtà. Si può parlare di bugia quando si nota l’intenzione di
“barare”, e comporta un certo livello di sviluppo. Nei bambini avviene come
messa alla prova per misurare poi la reazione degli adulti al suo
comportamento. Nel crescere assume anche altri significati poiché dipende da
diverse variabili; può dipendere dalla situazione che si sta vivendo, dalla
persona alla quale è rivolta o dallo scopo che si vuole raggiungere. E’
utile pertanto una classificazione che ci permetta di orientarci meglio al
suo interno, sebbene tale classificazione può risultare artificiosa dal
momento che i vari tipi di menzogna tendono spesso a sovrapporsi e a
confondersi tra loro. Si possono distinguere (Lewis M., Saarni C. , 1993):

bugie caratteriali (bugie di timidezza, bugie di discolpa, bugie gratuite);

bugie di evitamento (evitare la punizione, difendere la privacy);

bugie di difesa (bugie per proteggere se stessi o gli altri);

bugie di acquisizione (bugie per acquistare prestigio, per ottenere un
vantaggio);

bugie alle quali lo stesso autore crede (pseudologie);

autoinganno.

BUGIE DI TIMIDEZZA: una motivazione che può spingere a raccontare bugie è la
timidezza. Alla sua radice c’è una concezione negativa di se stessi; i
timidi affrontano la vita con la sensazione di essere inferiori rispetto
alla maggioranza degli altri esseri umani e questo modo di pensare
condiziona le loro relazioni in molteplici modi. Uno di questi è la tendenza
a raccontare menzogne per apparire migliori agli occhi degli altri, per
nascondersi, per evitare situazioni sociali nelle quali si sentirebbero
inadeguati e imbarazzati.

BUGIE DI DISCOLPA: ci sono menzogne che derivano dalla necessità di
discolparsi da accuse più o meno fondate. E’ un atteggiamento diffuso nei
bambini che può permanere in soggetti adulti insicuri nei quali spesso si
riscontra un sentimento d’inferiorità e l’incapacità di affrontare le
proprie responsabilità.

BUGIE GRATUITE: generalmente dietro alla maggior parte delle bugie si
nasconde un bisogno, un desiderio, uno scopo che il soggetto vuole
raggiungere. Spesso invece ci troviamo di fronte a menzogne che non lasciano
intuire che cosa vuole raggiungere il soggetto, sono le bugie che vengono
raccontare per puro divertimento, per allegria, per dare sfogo alla
fantasia.

BUGIE PER EVITARE LA PUNIZIONE: evitare la punizione è un motivo molto
comune delle bugie degli adulti, ma prevalentemente dei bambini. Questi
ultimi imparano a mentire ben presto quando si rendono conto di aver
commesso una trasgressione, già a 2-3 anni essi sono in grado di attuare
degli inganni in contesti naturali come la famiglia.

BUGIE PER DIFENDERE LA PRIVACY: la salvaguardia della privacy è un motivo
che spinge spesso i ragazzi adolescenti, ma anche gli adulti, a raccontare
bugie. Nell’adolescenza emerge nei ragazzi il bisogno di crearsi uno spazio
proprio, di decidere se raccontare o meno le loro esperienze e le loro
emozioni. Se da un lato ciò deve essere rispettato dai genitori, dall’altro
costituisce un problema a causa del loro bisogno di protezione nei confronti
del figlio.

BUGIE PER PROTEGGERE SE STESSI O GLI ALTRI: nella vita di ogni giorno ci
sono svariate situazioni che portano una persona a mentire per proteggere se
stessa o i sentimenti di persone care. Se alla nostra festa di compleanno
riceviamo un regalo che non ci piace o quanto meno lo consideriamo inutile,
è molto improbabile che lo diremo chi ce l’ha donato; è probabile invece
che, dissimulando la delusione, ci mostreremo entusiasti. Gli adulti mentono
per cortesia e questa regola sociale viene ben presto assimilata anche dai
bambini. Essi imparano a proteggere i sentimenti degli altri attraverso
un’istruzione diretta data dai genitori, ma anche indirettamente
osservandone il comportamento.

BUGIE PER ACQUISTARE PRESTIGIO: sono delle bugie compensatorie che traducono
non tanto la ricerca di un beneficio concreto, ma la ricerca di un’immagine
che il soggetto ritiene perduta o inaccessibile: si inventa una famigli più
ricca, più nobile o più sapiente, si attribuisce dei successi scolastici o
lavorativi. In realtà questa bugia è da considerarsi normale nell’infanzia e
finchè occupa un posto ragionevole nell’immaginazione del bambino. Tale
condotta viene considerata banale fino ai 6 anni, la sua persistenza oltre
tale età segnala invece spesso delle alterazioni psicopatologiche.

PSEUDOLOGIE: sono delle bugie alle quali lo stesso autore crede. Più
specificatamente viene definita “pseudologia fantastica” una situazione
intenzionale e dimostrativa di esperienze impossibili e facilmente
confutabili (Colombo, 1997). E’ un puro frutto di immaginazione presente in
bugiardi patologici ed è una caratteristica tipica della Sindrome di
Mùnchausen.

AUTOINGANNO: il mentire a se stessi è un particolare tipo di menzogna che ci
lascia interdetti e confusi dal momento che il soggetto è contemporaneamente
ingannatore e ingannato. L’autoinganno è l’inganno dell’Io operato dall’Io,
a vantaggio o in rapporto all’Io (Rotry, 1991). In esso vengono messi in
atto meccanismi di difesa come la razionalizzazione e la denegazione.
Attraverso la razionalizzazione il soggetto inventa spiegazioni circa il
comportamento proprio o altrui che sono rassicuranti o funzionali a se
stesso, ma non corrette. Il soggetto da un lato può celare a se stesso la
reale motivazione di alcuni comportamenti ed emozioni, e dall’altro riesce a
nascondere ciò che sa inconsciamente e non vuole conoscere. Attraverso la
denegazione, invece, il soggetto rifiuta di riconoscere qualche aspetto
della realtà interna o esterna evidente per gli altri. Potremo fare
l’esempio dell’alcolista che mente a se stesso dicendosi che non ha nessun
problema o delle famiglie in cui si fa “finta di niente, finta di non
capire”.

Intanto per i magistrati coloro che si presentano al loro cospetto son tutti
bugiardi. Persino i loro colleghi che usano lo stesso sistema di giudizio
per l’altrui valutazione.

Eppure Pietro Argentino è il numero 2 della procura di Taranto. È il
procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta
di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati, scrive
Augusto Parboni su “Il Tempo”. È l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino
a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il
Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di
Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per
indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto
Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone,
tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione
della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15
anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato tre
giorni fa per concussione e corruzione semplice. Al termine del processo,
ecco abbattersi sulla procura di Taranto la pensate tegola della
trasmissione degli atti per indagare proprio su chi ricopre un ruolo di
vertice nella procura pugliese. Argentino è a capo del pool che ha chiesto
il rinvio a giudizio, tra l’altro, del presidente della Puglia, Nichi
Vendola, nell’ambito delle indagini sulle emissioni inquinanti dello
stabilimento Ilva. Vendola è accusato di concussione in concorso con i
vertici dell’Ilva, per presunte pressioni sull’Arpa Puglia affinché
«ammorbidisse» la pretesa di ridurre e rimodulare il ciclo produttivo dello
stabilimento siderurgico. Attraverso quel – le presunte pressioni, Vendola –
secondo la procura – avrebbe minacciato il direttore Arpa Giorgio Assennato,
«inducendolo a più miti consigli», approfittando del fatto che Assennato
fosse in scadenza di mandato e che rischiasse di non essere riconfermato.
Accusa sempre respinta da Vendola.

Quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in
più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero, scrive “Il Quotidiano
di Puglia”. È un terremoto che si abbatte sul palazzo di giustizia di
Taranto la sentenza che il Tribunale di Potenza ha pronunciato nei confronti
dell’ex pubblico ministero della procura di Taranto Matteo Di Giorgio. Un
terremoto anche perché i giudici potentini – competenti per i procedimenti
che vedono coinvolti magistrati tarantini – hanno disposto la trasmissione
degli atti alla Procura perché valuti la sussistenza del reato di falsa
testimonianza a carico del procuratore aggiunto di Taranto, Pietro
Argentino, e l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci, di Gallipoli.

Il Tribunale di Potenza ha condannato a 15 anni di reclusione l’ex pubblico
ministero di Taranto, Matteo Di Giorgio, accusato di concussione e
corruzione in atti giudiziari, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Come
pena accessoria è stata disposta anche l’interdizione perpetua dai pubblici
uffici. La pubblica accusa aveva chiesto la condanna alla pena di 12 anni e
mezzo. Il Tribunale di Potenza (presidente Gubitosi), competente a trattare
procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte
d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione
all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex
collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni
Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, attuale comandante dei vigili urbani a
Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi a un imputato accusato di
diffamazione. L’ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu
arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni
riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un
imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire
l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il
magistrato secondo l’accusa, ha anche minacciato di un “male ingiusto” un
consigliere comunale di Castellaneta, costringendolo a dimettersi per
provocare lo scioglimento del Consiglio comunale e assumere una funzione di
guida politica di uno schieramento. L’ex sindaco di Castellaneta ed ex
parlamentare dei Ds Rocco Loreto, che presentò un dossier a Potenza contro
il magistrato, e un imprenditore, si sono costituiti parte civile ed erano
assistiti dall’avv. Fausto Soggia. Il Tribunale di Potenza ha inoltre
disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione
di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi
vi sono cui l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale
procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il
Tribunale ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di
21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex
vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Le indagini dei militari del nucleo operativo e della sezione di polizia
giudiziaria dei carabinieri di Potenza coordinati dal pm Laura Triassi erano
partite nel 2007, scrive “Il Quotidiano Web”. Lo spunto era arrivato
dall’esposto di un ex assessore di Castellaneta, Vito Pontassuglia, che ha
raccontato di aver spinto alle dimissioni un consigliere comunale, nel 2001,
paventandogli un possibile arresto del figlio e del fratello per droga da
parte del pm Di Giorgio. Quelle dimissioni che avrebbero causato le elezioni
anticipate spianando la strada agli amici del pm, e a lui per l’incarico di
assessore della giunta comunale. Gli interessi del magistrato nelle vicende
politiche del paese avrebbero incrociato, sempre nel 2007, le ambizioni
dell’ex senatore Rocco Loreto, un tempo amico di Di Giorgio, ma in seguito
arrestato per calunnia nei suoi confronti, che si era candidato come primo
cittadino. Di Giorgio è stato condannato anche al risarcimento dei danni
subiti da Loreto, da suo figlio e da Pontassuglia. Per lui la richiesta
dell’accusa si era fermata a 12 anni e mezzo di reclusione. Le motivazioni
della decisione verranno depositate entro 90 giorni, ma non mi sorprende il
fatto che esse conterranno il riferimento alla dubbia credibilità di
imputati e testimoni.